Luciano Canfora, Corriere della Sera 14/04/2011, 14 aprile 2011
COSI’ SOFOCLE CONTESTO’ LA MAGGIORANZA INIQUA
Può sembrare semplificatoria l’osservazione, spesso ripetuta, secondo cui «quando parliamo dei Greci, allo stesso tempo parliamo dell’oggi» . Non è retorica. Poche epoche del passato si presentano a noi con una tale maturità di pensiero (filosofico, etico, giudirico, politico), con una tale avanzatissima elaborazione stilistica e tecnica dell’oratoria pubblica, per non parlare di altri aspetti sconcertanti quali la perfezione dell’esametro omerico. Al centro dell’attività artistica destinata alle masse, praticata ad Atene con il sostegno dello Stato, c’è il teatro. Ed è lì che il pubblico vedeva — attraverso il filtro delle trame relative a figure più o meno mitiche — scontrarsi idee, concezioni della vita, della morte, del destino dell’uomo, del vivere sociale, della politica. Davide Susanetti ha appena pubblicato un volume sui sette drammi superstiti della vastissima produzione drammaturgica di Sofocle, il «beniamino» (si usa dire) del pubblico ateniese. (E per «pubblico» , non dimentichiamolo, bisogna intendere migliaia e migliaia di persone, più numerose spesso di quello dell’assemblea popolare). Il titolo può sembrare troppo duro ma è, in fondo, appropriato: Catastrofi politiche (Carocci, pp. 236, e 18). Qui «politicità» è intesa nel senso più ampio, come è chiaro dal sottotitolo (Sofocle e la tragedia del vivere insieme). E del resto in senso ampio va intesa la stessa parola greca politeia, che, soprattutto nel V secolo a. C., indicava non soltanto il «sistema politico» , ma anche lo stile della conduzione politica della città: non soltanto, per dirla coi giuristi, la costituzione scritta e gli ordinamenti, ma anche la «costituzione materiale» . Del mutamento che convive con la tendenziale fissità degli ordinamenti si occupa un altro libro appena pubblicato, dovuto ad un nostro notevole storico, Giorgio Camassa: Scrittura e mutamento delle leggi nel mondo antico (L’Erma di Bretschneider, pp. 202, e 80). Da storico formatosi— tra l’altro— alla scuola di Giovanni Pugliese Carratelli, Camassa affronta non solo il mondo greco e romano, ma anche quello «orientale» , dalla Mesopotamia all’Israele biblico. Ma certamente il cuore dell’autore batte soprattutto in Grecia. Ed è importante l’attenzione che egli ha dedicato, nel finale, alla riflessione teorica antica sul «mutamento delle leggi» , che è quanto dire il modo in cui la costituzione materiale, consolidandosi, diviene col tempo, a sua volta, nuova costituzione formale o codificata. È quel processo descritto in modo geniale da Platone, nelle Leggi, là dove parla del «mutamento» come del «legame» (desmós) tra la costituzione esistente e quella che si viene formando, per l’appunto nel mutamento. Il tema è peraltro strettamente legato alla distinzione, vivissima nella riflessione filosofica-giuridica greca, tra legge scritta e legge non scritta la cui violazione — dice Pericle nell’ «epitafio» — reca «vergogna universalmente riconosciuta» . Una formula precorritrice, che storicamente ha condotto all’intuizione di un diritto «naturale» : fondamento etico profondo dell’agire morale, svincolato dalle singole confessioni o precettistiche religiose. Questo è un tema, come ben si sa, particolarmente sofocleo, legato alla figura e alla «disobbedienza civile» di Antigone nell’omonima tragedia. Susanetti studia, nel suo volume, questa tragedia soprattutto dal punto di vista del potere («Rovine e miraggi della sovranità» è il titolo di questo capitolo), e propone una lettura innovativa della vicenda: «Anche la norma posta da Creonte (il «tiranno» , l’antagonista di Antigone) è orale tanto quanto le leggi degli dei. Il richiamo alle norme che vivono da sempre è semmai una mossa retorica di delegittimazione di un Creonte che si è appena insediato al governo» . Ma è forse sull’Aiace che l’autore porta il miglior contributo. Egli dedica attenzione soprattutto alla parte finale della tragedia, quella in cui si svolge un serrato scontro dialettico tra Teucro, fratello di Aiace, che pretende sepoltura per l’eroe suicida, e la coppia Agamennone-Menelao, che tale sepoltura intende impedire in ragione della colpa (il massacro delle greggi) di cui Aiace si è macchiato. Il paragrafo s’intitola «Voti truccati e principio di maggioranza» . Infatti al centro della serrata disputa che Sofocle mette in scena viene appunto affrontata la questione delle questioni: la fondatezza o meno del principio di maggioranza. Aiace era stato soccombente: una «maggioranza» aveva decretato che le armi di Achille toccassero a Odisseo, non ad Aiace. Contro questo verdetto — nella sostanza iniquo ma nella forma ineccepibile se si assume il principio di maggioranza come risolutivo e irresistibile— Aiace è insorto. Ma la dea sua persecutrice, Atena, lo ha reso folle ed egli ha infierito nottetempo sugli armenti, non sugli Achei addormentati nelle loro tende. «Chi è stato sconfitto in base al criterio di maggioranza non ha diritto ad alcuna rivendicazione. Deve sottomettersi» . Questo pretendono due figure «negative» del dramma, gli Atridi. E la risoluzione del dramma viene dalla lungimirante intelligenza di Odisseo, che comunque favorisce la sepoltura del rivale suicida, meritandosi parole di dissenso da parte degli Atridi. Sofocle, che peraltro, da probulo, aveva agevolato la nascita dell’oligarchia nell’anno 411, ha posto sotto gli occhi del pubblico l’angoscioso problema in termini lucidi e dilemmatici. La «maggioranza» non ha necessariamente ragione. Anche se costituisce (o dovrebbe costituire) uno strumento del convivere civile, il principio di maggioranza — come bene spiegò Edoardo Ruffini in un fondamentale libretto ristampato da Adelphi negli anni Settanta — non ha alcun fondamento né logico né razionale.
Luciano Canfora