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 2011  aprile 12 Martedì calendario

CARI CRITICI LETTERARI IMPARATE DA ORWELL

Si sa da dove viene il titolo di questa rubrica, ma ogni tanto è bene ricordarsene. La riproposta dei saggi raccolti sotto il titolo Nel ventre della balena (Bompiani) è un’ottima occasione. «Che scrittore, questo George Orwell!» , scrive Silvio Perrella nell’introduzione. Italo Calvino, che in prima battuta lo considerò un «libellista di second’ordine» , dovette fare ammenda quando lesse il suo reportage sulla Catalogna, mettendolo «nel numero degli indispensabili» , e aggiungendo che l’incomprensione della prima ora non faceva altro che «provare quant’era in avanti rispetto alla coscienza dei tempi» . Il libro di saggi è diviso in quattro sezioni: Sul leggere, Sullo scrivere, Sul credere e sul non credere, Sul vivere e sul morire. Nella seconda si trovano le ragioni del lavoro dello scrittore, per fortuna non sempre incoraggianti: «Scrivere un libro è una lotta orribile ed estenuante, come un lungo periodo di dolorosa malattia. Non bisognerebbe mai intraprendere un’attività del genere a meno di non essere guidati da un qualche demone incomprensibile al quale non si può resistere. Per quel che se ne sa, tale demone è semplicemente lo stesso istinto che fa strepitare un bambino allo scopo di richiamare l’attenzione» . Una bellissima similitudine. Tra le tante, le pagine In difesa del romanzo offrono spunti su cui molti scrittori e critici d’oggi potrebbero riflettere produttivamente. Secondo Orwell «la buona critica letteraria non potrà esistere fin quando si continuerà a ritenere che ogni romanzo sia meritevole di essere recensito» . La gran parte dei romanzi meriterebbe piuttosto un solo rigo di recensione: «Questo libro non ispira in me alcuna riflessione» . Ma qual è il critico più o meno prezzolato pronto ad avventurarsi in una simile impresa autodistruttiva? Siamo nel 1936, ma sembra che Orwell scriva oggi: «Dovrebbe essere possibile escogitare un sistema, anche molto rigoroso, per classificare i romanzi in serie A, B, C e così via, in modo che, se il recensore loda o condanna un libro, il lettore è in grado di trarne le debite conclusioni» . C’è anche, nelle parole di Orwell, una sorta di profezia che andrebbe presa molto sul serio: «È probabile che tra non molto il romanzo medio non sarà poi così diverso dal romanzetto d’appendice, sebbene comparirà in rilegatura costosa, annunciato da squilli di tromba» . E in fondo non sbagliava, Orwell, neanche nel pensare che il romanzo sarebbe sopravvissuto «in qualche forma trascurabile, di poco conto o irreparabilmente degenerata, come le moderne pietre tombali o il teatro delle marionette» . È strano che Alfonso Berardinelli, nella sua recente raccolta di saggi, Non incoraggiate il romanzo (Marsilio), citi il «suo» Orwell solo di passaggio. Eppure per vie diverse arriva alla stessa conclusione. Ma se per Orwell erano i totalitarismi a uccidere l’invenzione narrativa («l’immaginazione, come alcuni animali selvaggi, diventa sterile sotto cattività» ), per Berardinelli l’assassino è la stessa democrazia che finge di incoraggiarla sovrapproducendo pseudo romanzi di ogni genere e forma.