Vincenzo Trione, Corriere della Sera 12/4/2011, 12 aprile 2011
JASPER JOHNS: «UNA NOTTE EBBI UNA VISIONE. COSI’ DIPINSI SU UN LENZUOLO LA BANDIERA AMERICANA»
Come J. D. Salinger. Jasper Johns ha qualcosa dell’autore del Giovane Holden. Oramai è un mito, che si è rinchiuso in un isolamento inviolabile. Spesso, si parla di lui come se appartenesse solo alla storia. Intorno al suo carattere sprezzante fioriscono leggende. Misantropo, tende a non farsi vedere in pubblico. Si sottrae ai confronti: preferisce non partecipare neanche alle inaugurazioni delle sue stesse mostre. «Lathe biosas» (in greco, «vivi nascosto»): in questo motto caro ai filosofi epicurei si cela la sua identità. Distante dai circuiti ufficiali di galleristi e mercanti, è insofferente ai riti del jet set, alle mode e alle tendenze. Corteggiato da direttori di musei e da critici, trascorre interi mesi senza lavorare. Sembra indifferente a ciò che lo circonda.
Quali ragioni si celano dietro questa scelta del silenzio? Orgoglio o modestia? Arroganza o disincanto? Snobismo o disperazione? Infantilismo o maturità? Disprezzo di un ambiente cui appartiene o bisogno di difendersi da quello stesso ambiente? Necessità di essere diverso dagli altri o necessità di essere come gli altri? Incontrare Johns è difficile: si trincera dietro mille barriere protettive. Come avvicinarsi a lui? Bisogna superare ritrosie, esitazioni. Impossibile parlargli al telefono. Si può solo provare a inviargli una email, sottoponendogli – non senza timori – alcune domande. Nella maggior parte dei casi, queste email restano come messaggi lanciati nel vuoto.
Invece, dopo settimane di silenzio, Johns ci ha risposto dalla sua tenuta nel Connecticut, dove, dal 1995, si è ritirato. Lì dipinge senza fretta, con lunghe pause, rimodulando continuamente il suo impero dei segni, che è stato celebrato nel 1997 in una vasta retrospettiva al MoMA di New York. Nel tempo, questo impero si è sempre più arricchito: spunti ulteriori, rivelazioni improvvise, occasioni inattese. Si tratta di un regno fatto di cifre e di grafie estratte dal dialogo con il reale. La sfida: catturare tracce distratte, episodi marginali, asterischi insignificanti.
Erede di Duchamp e padre di Warhol, Johns — Leone d’Oro alla Biennale di Venezia del 1988 — si sofferma, prevalentemente, su oggetti anonimi: sui «luoghi comuni». Risalgono alla metà degli anni Cinquanta i tiri a segno e le bandiere Usa. Sono cicli fondati sul recupero di alcuni stereotipi di massa. Che, tuttavia, si offrono a noi anche come spazi geometrici, regolarmente delineati, in forte consonanza con le esperienze minimaliste dei protagonisti della Scuola di New York (Newman, Reinhardt, Stella, Noland). Architetture elementari, specchio di una sorta di esprit de géométrie. Uno spirito che, però, non si fa ingabbiare dentro soluzioni impersonali, ma viene esaltato da stesure vibranti, sfiorate da una espressività struggente. Siamo dinanzi a quello che, con il titolo di un quadro di Frank Stella del 1964, potremmo definire «Jasper’s Dilemma». Il dilemma di Johns consiste proprio in questo: nell’accostare spostamento e riconfigurazione, rappresentazione e astrattismo, illusionismo e anti-illusionismo, adesione al paesaggio artificiale e slancio analitico, ripresa di stratagemmi antichi (come l’encausto) e investigazione sulla specificità del linguaggio artistico. Non assistiamo mai al trionfo della riproducibilità tecnica (come accade nelle serigrafie warholiane). Johns non trasgredisce le regole del fare con le mani: rifiuta ogni replica anti umanistica. Si appropria delle icone popolari, senza abbandonare i mezzi propri della pittura: sovrappone fitti strati di colore— di origine fauve— ai «dati» acquisiti, suggerendo imprevisti sconfinamenti tra stile e mondo. La medesima dialettica si può ritrovare nelle mappe e nei sillabari fatti di numeri e di lettere: non affreschi omogenei, ma mosaici dissonanti, che evocano un cubismo polverizzato. E nelle tele degli anni Sessanta, nelle quali Johns, sulle orme della lezione di Schwitters, inserisce tessere vere. Sono assemblaggi cauti e circospetti. Tavole magmatiche in cui sono incastrati arnesi, che smarriscono ogni tridimensionalità. Lattine di birra, lampadine e cucchiaini vengono corrosi, ossidati, consunti. Intorno a reperti ovvi si disegna una cerimonia quasi metafisica: silente, statica. In essa tutto è evidente e, insieme, misterioso. Vi si afferma una fissità tesa, attraversata da imperfezioni, inesattezze, sbavature. Nei decenni successivi, questa monumentalità è stata sostituita da una narrazione visiva più labirintica, aggrovigliata, ermetica. Assecondando un impulso dionisiaco, le pennellate, progressivamente, si emancipano da ogni bordo, per naufragare in costellazioni ambigue. Si respira il senso dell’apocalisse: di una deflagrazione in atto. In tal senso, illuminanti gli esercizi degli anni Ottanta e Novanta, che confermano la capacità di Johns nel non ripetersi mai: le sue sono incessanti variazioni sul tema. Nelle più recenti sperimentazioni, si compie il definitivo tramonto del pop. A imporsi è la sapienza di uno straordinario pittore di scritture, sorretto dalla convinzione secondo cui, per dirla con Roland Barthes, «nulla separa la scrittura dalla pittura: entrambe sono fatte dello stesso tessuto, che forse è semplicemente, come nelle cosmogonie più moderne, la velocità». Questo itinerario viene ora ricostruito, per passaggi esemplari, in un’antologica, intitolata Las huellas de la memoria, curata da Martine Soria, all’Ivam di Valencia (fino al 24 aprile). Tra i momenti più rilevanti del percorso espositivo, una delle ultime bandiere stars and stripes (del 1987). Muoviamo da qui. In questo quadro, una tecnica antica (l’encausto) convive con una tecnica avanguardistica (il collage di ritagli di giornale). La prima «Flag» è del 1955. Dapprima, lei stende strati monocromi azzurri (color cielo), in sintonia con gli astrattisti statunitensi. Poi, aggiunge altri strati monocromi rossi (color sangue schiarito). Nulla è asettico: il pigmento sembra debordare. In quell’attimo, scatta un gioco sofisticato. Quasi per magia, le diverse «velature» , accostandosi, fanno sorgere la bandiera degli Usa. La pittura si trasforma in vessillo. Si fa simbolo, stereotipo, archetipo: metafora dell’appartenenza a una civiltà, a una scala di valori, a un mondo di diritti e di doveri. Siamo di fronte a un ciclo che ha raggiunto quotazioni molto alte: le sue «Flags» sono state le prime opere di un artista vivente a essere state pagate più di venti miliardi di lire.
Com’è nata la prima bandiera?
«Una notte del 1954 ebbi una visione intensa: sognai di dipingere una grande bandiera statunitense. La mattina dopo cercai i materiali necessari per ricreare quella visione. E tracciai l’immagine su una tela: anzi, se non ricordo male, su un lenzuolo».
Nel 1958 si tenne la sua prima personale nella galleria newyorkese di Leo Castelli. Fu visitata dall’influente direttore del MoMA, Alfred Barr, che comprò tre suoi quadri. Da quell’episodio— appena ventottenne — è diventato un «maestro». Come ricorda gli anni che precedettero il successo? Siamo nella stagione che preludeva all’avvento del New Dada e della Pop Art...
«Nel 1953 ritornai a New York: avevo fatto il soldato in Giappone, alla fine della Guerra di Corea. Allora gli espressionisti astratti erano molto attivi: dei loro dipinti si discuteva tanto. La comunità artistica di New York era piuttosto piccola. Tutti ci conoscevamo, al di là della stima reciproca, che poteva esserci o meno. Ci incontravamo per scambiarci giudizi. Sono diventato amico fraterno di Robert Rauschenberg e, grazie a lui, sono entrato in contatto con John Cage e con Merce Cunningham. Per un lungo periodo, siamo stati vicini. Abbiamo maturato idee che ci hanno portato a confrontarci quotidianamente. Cage, il più adulto tra noi, si interessava al buddhismo zen. Era ottimista e curioso. Dal punto di vista intellettuale, era molto generoso: cercava di renderci partecipi del suo slancio mistico. In quel periodo, cominciai a dipingere. Rauschenberg e io ci vedevamo ogni giorno: parlavamo per ore intere. Iniziavamo a maturare opinioni diverse rispetto a quelle degli artisti newyorkesi che ci avevano preceduto. Stavamo provando a spingerci in un campo ancora inesplorato».
Ha nostalgia di quella meravigliosa epoca?
«Non c’era nulla di meraviglioso. Raramente ho nostalgie...». Come nascono le sue opere? Trae spunto da qualcosa che ha effettivamente visto? O si affida a un flusso libero da vincoli?
«Provo a seguire modelli che non ho mai frequentato. Preferisco partire da ciò che mi circonda, dalla mia quotidianità: spesso, da impulsi sciocchi. Osservando cose viste o trovate, oriento la mia mente verso altri territori. Per me, fare arte è un modo per dare un nome a questi fantasmi: per farli tacere definitivamente. Nel tempo, ho assunto diversi atteggiamenti, che mi hanno permesso diverse azioni: ho solo adottato differenti strategie. Eppure, tutto questo non conta. Le mie intenzioni hanno valore solo per me: sono ininfluenti per chi guarda il quadro finito. Conta solo ciò che ho fatto: ciò che resta».
Negli anni, il suo racconto iconografico ha subito tante oscillazioni. Ha abbandonato l’imponenza dei bersagli, delle bandiere e delle mappe, scoprendo il fascino di uno stile più complesso e articolato. Come spiega questo cambiamento?
«Ho solo rafforzato il mio modo di pensare: ho consolidato le mie convinzioni. L’inconscio mi ha guidato verso continenti ignoti. Ma è stato anche il mio stesso lavoro ad aver determinato alcuni cambiamenti. Negli anni, le mie abitudini operative hanno subito inevitabili trasformazioni. Ma non bisogna mai dimenticare che, nella creazione, un ruolo cruciale è svolto dagli incidenti: ci sono eventi che accadono mentre si dipinge o si scolpisce, e ci portano altrove. Il caso ci può allontanare dalle nostre cieche abitudini: dai nostri intenti, dai nostri pregiudizi. Ci possono essere intuizioni improvvise, ma anche periodi in cui nulla sembra muoversi o avere significato».
E il suo modo di essere artista? Com’è cambiato?
«Un’autodescrizione sarebbe piena di trappole: sbaglierei a parlare di me stesso. È preferibile discutere delle descrizioni che gli altri fanno di me».
E ora? Dove vive? Come trascorre le sue giornate?
«Dal 1995 abito in una casa di pietra in campagna, nel Connecticut: un’antica latteria, con circa cento acri di terreno. È a due ore da New York. Il mio studio è in un antico garage restaurato. Qui gli inverni possono essere molto pesanti: la neve arriva a un’altezza di quasi due metri. Nelle stagioni del freddo, preferisco trasferirmi ai Caraibi, nell’isola di St. Martin. Quest’anno, a causa degli impegni, non sono ancora riuscito ad andare via dal Connecticut».
Sta lavorando, in questo periodo?
«Dipingo meno di prima. Affronto lunghe fasi di vuoto, di attesa. Allora, divento impaziente e cerco di trovare qualcosa da fare. Ma è sempre faticoso...».
Soffermiamoci sul presente. Quali artisti la interessano?
«In genere, sono interessato a tutte le opere che mi capita di guardare».
Frequenta le gallerie?
«Non troppo: non sono ben informato».
Che rapporti ha con il mondo dell’arte?
«Semplice: credo di esserne parte».
Le sue opere lasciano intuire continui richiami ad artisti del passato. Siamo di fronte a un implicito — ed estremo — elogio dell’antica disciplina della pittura. In un’epoca dominata da concettualismi vuoti e da provocazioni evanescenti, lei recupera le belle forme, al di là di ogni anacronismo. A quali autori della storia dell’arte si riferisce?
«Nel corso degli anni, vari artisti hanno attirato la mia attenzione. Sono incontri salutari e vivificatori, davvero indispensabili. Permettono di chiarire meglio a me stesso le mie idee. Questi incontri sono un regalo ricevuto da chi è venuto prima di me. Ma sono anche un furto commesso ai loro danni».
Da un lato, la storia. Dall’altro lato, la politica. Alcuni critici hanno colto la dimensione civile sottesa alla sua poetica. Ad esempio, Barbara Rose ha sottolineato come le sue mappe degli anni Sessanta vadano interpretate anche come testimonianze di «un Paese che stava riflettendo sul suo passato di divisioni, e si trovava nei momenti iniziali di una guerra che lo avrebbe diviso ancora una volta» . Le mappe, secondo la Rose, sono «un omaggio al centenario della Guerra civile americana». Rilievi che appaiono in antitesi con quanto lei stesso ha sostenuto. L’artista, ha detto in un’intervista, deve essere «libero di fare quel che vuole, e ciò che fa è solo affare suo». Dunque, il pittore deve concentrarsi solo sugli aspetti specifici del suo mestiere?
«A volte, la libertà poetica può condurre al nulla. Altre volte, può dischiudere nuove percezioni, nuovi modi di sentire. Gli artisti possono farsi carico di responsabilità politiche in diversi modi. Alcuni pensano che queste "preoccupazioni"non vadano espresse apertamente, ma debbano restare nella trama invisibile di quadri o sculture. Altri mostrano una totale assenza di sensibilità etica (almeno a livello conscio): ma non per questo i loro dipinti mancano di autenticità. Per quanto mi riguarda, vorrei essere al di fuori di ogni dimensione sociale. Ma è difficile: siamo immersi in un determinato mondo, e i nostri segni inevitabilmente ne risentono».
Lei ha dichiarato: «Non sono un artista pop». Come vorrebbe essere definito?
«Appiccicare etichette è un sistema che non tollero. Da ragazzo detestavo tutti i termini appena venivano messi in circolazione».
Non si riconosce in nessuna definizione?
«Io non voglio essere definito».