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 2011  aprile 12 Martedì calendario

ROUSSEAU, QUEL PASSAGGIO DALL’ALCHIMIA ALLA RAGIONE

Ci sono pervenuti dei manoscritti di Jean-Jacques Rousseau riguardanti la chimica. Sino ad oggi non sono stati valutati in maniera corretta, tanto che per taluni critici restano mero esercizio di compilazione; altri, invece, ne hanno esagerato il valore, trasformandoli nel fondamento paradigmatico di tutta l’opera politica ulteriore. Le Institutions chimiques, insomma, registrano «l’embarras ordinaire» dei posteri di fronte alla questione fondamentale dei rapporti intrattenuti dal pensatore con le scienze del tempo. Dopo l’edizione del 1999 nel «Corpus» delle opere filosofiche in lingua francese, allora pubblicato da Fayard, a cura di Bruno Bernardi e Bernadette Bensaude Vincent, vede ora la prima sistemazione critica grazie a Christophe Van Staen (Honoré Champion, Parigi, pp. 416, e 75). Il testo, completamente riveduto e arricchito dalle appendici e da un lessico, restituito ai lettori nella sua completezza (per esempio, l’articolo «arsenico» , è dato integralmente per la prima volta) riserva non poche sorprese e mostra i passi compiuti dal celebre Jean-Jacques nell’indagare i principi della coesione dei corpi o quelli della loro trasparenza, i meccanismi della natura o «opérations» quali distillazione, fusione, cristallizzazione. Ma soprattutto tali pagine trovano finalmente un posto nel lascito di Rousseau: Van Staen ricorda che in esse si leggono preziose indicazioni sull’evoluzione sotterranea della sua opera e sulla coscienza che egli sviluppa progressivamente dinanzi ai pericoli in grado di contagiare le anime credule, nutrite da una concezione fantastica delle scienze e dei loro vantaggi. Non si tratta di un testo importante per la chimica del XVIII secolo, ma di un documento che mostra come tale disciplina riesca ad aiutare una grande mente a emanciparsi dall’ «imaginaire» che l’aveva plasmata. Il giovane Rousseau, detto in soldoni, non si forma sui libri di Descartes, Keplero o Newton (quest’ultimo, comunque, era interessato all’alchimia), ma su nozioni letterarie, oniriche, ingenue, non sempre rivelate nel primo libro delle Confessioni. Van Staen parla dell’attrazione che esercitavano su di lui gli orologi d’Oriente, i misteri della lingua dei segni, le macchine fantastiche degli antichi. C’è insomma una storia esemplare di conversione allo spirito scientifico in questo libro che si basa sui tre tomi manoscritti conservati a Ginevra (siglati Bge, Ms. fr. 238) e che non fu incluso nei cinque volumi delle Oeuvres complètes di Rousseau della «Bibliothèque de la Pléiade» , dove comunque si trovano le pagine sulla botanica. Si potrebbe, utilizzando un azzardo, affermare che le Institutions come pochi altri testi riflettono il passaggio definitivo dall’alchimia alla chimica nel XVIII secolo. Non è un mistero: il tempo dei Lumi è ancora percorso da idee esoteriche e Antoine-Laurent de Lavoisier (1743– 1794), che diede la prima versione della legge di conservazione della massa, riconobbe e battezzò l’ossigeno (1778), confutò la teoria del flogisto, conviveva con concezioni a lui diametralmente opposte. Basterà ricordare la monumentale Bibliotheca chemica curiosa, due volumi in-folio usciti a Ginevra nel 1702 e curati da Jean-Jacques Manget: conteneva i testi essenziali per gli iniziati, da Arnaldo di Villanova a Ruggero Bacone, da Avicenna a Raimondo Lullo. Di più: nel 1761, come ricorda Eric J. Holmyard nella Storia dell’alchimia (ora nelle edizioni Odoya), qualcuno credeva che il creatore della pietra filosofale, Nicolas Flamel, morto nel 1418, svolgesse ancora la sua attività a Parigi; anzi, con la moglie era vivo e vegeto. Del resto, i due nel secolo precedente furono segnalati in India: alla faccia delle pillole d’immortalità cinesi che si vendevano bene nella capitale francese, ma non sottraevano ancora i clienti ai becchini.