Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  aprile 12 Martedì calendario

DA HELSINKI AD ATENE TUTTI STUFI DELL’EUROPA


Se gli immigrati non li vuole nessun governo europeo, le opposizioni sono quando possibile ancora più intransigenti. Spingono affinché si chiudano le frontiere, per voltare pagina rispetto ai fallimenti del multiculturalismo e, in definitiva, per farla finita con l’Eurocrazia di Bruxelles.
Non sono soltanto nostalgici delle vecchie valute nazionali soppiantate dall’euro, che ha ridotto a zero la sovranità monetaria. Agli occhi di una larga parte dell’opinione pubblica europea, le istituzioni comunitarie e i loro trattati, le regole e i patti di stabilità appaiono più come limiti che come opportunità.
Così spuntano uno dopo l’altro, nei 27 Paesi dell’Unione, i leader antieuropei. La novità, alle prossime elezioni politiche finlandesi che si terranno a maggio, promette di essere Timo Soini, presidente del Perus Suomalaiset, i “Veri Finnici”. Pur essendo cattolico, in una nazione a stragrande maggioranza luterana, i sondaggi gli attribuiscono il 17% dei consensi, alla pari con i socialdemocratici. Un’affermazione ancora tutta da verificare nelle urne, ma che di per sé è già una sconfessione netta della Costituzione europea nata volontariamente senza la menzione delle radici cristiane. Soini vuole l’uscita di Helsinki dall’Europa anche perché non accetta l’imposizione dei matrimoni omosessuali.
In Belgio, Paesi Bassi, Portogallo, Spagna e Svezia, sono già legge, mentre Austria, Repubblica Ceca, Danimarca, Finlandia, Francia, Germania, Ungheria, Irlanda, Lussemburgo, Slovenia e Regno Unito riconoscono “unioni civili” e partnership tra persone omosessuali. Per esportare quell’istituto giuridico, saltando la volontà dei Parlamenti nazionali che non l’approvano, si promuovono la libera circolazione dei documenti pubblici e il reciproco riconoscimento automatico degli effetti degli atti di stato civile in tutti gli Stati membri dell’Ue. Non succede nemmeno negli Stati Uniti d’America, che peraltro sono infinitamente più uniti, politicamente e giuridicamente, rispetto alla sperimentale Unione europea, tuttora incapace di una politica estera e di difesa comuni.
Non è soltanto per effetto di questi colpi di mano che cresce l’avversione a un potere incontrollato, a proposito del quale perfino gli euro-entusiasti denunciano un incolmabile “deficit democratico”.
Fra le molte ragioni economiche invocate dagli euroscettici, militano anche ragioni politiche e culturali di principio. Il 23 ottobre scorso, a Vienna, cinque partiti europei, la Lega Nord, il Vlaams Belnag belga, i Demokraterna svedesi, la Fpö austriaca, il Partito nazionale slovacco e il Partito del Popolo danese, hanno dato vita a un coordinamento con l’obiettivo di lanciare una campagna in favore di un referendum europeo sull’entrata della Turchia nell’Unione. Nominalmente, il trattato di Lisbona permette l’organizzazione di referendum di iniziativa popolare. Tuttavia pone condizioni capestro, tra le quali un milione di firme raccolte in un «numero adeguato di Paesi membri», non meglio specificato. Se si contano anche i partiti che all’Europarlamento di Strasburgo, insieme alla Leganord, formano il gruppo Europe of Freedom and Democracy, cioè i finlandesi del Perus Suomalaiset, l’United Kingdom Indipendence Party britannico, il Laos greco, il Tvarka lituano, la Sgp Eurofractie olandese e il Mouvement pour la France di Philippe de Villiers, il risultato potrebbe essere a portata di mano. Almeno numericamente, poiché i referendum danese e irlandese, che avevano sancito il no dei rispettivi popoli ai trattati di Maastricht e di Lisbona, sono stati fatti ripetere fino al conseguimento del risultato desiderato dal potere di Bruxelles. E quando gli elettori di Francia e Paesi Bassi dissero no al Trattato costituzionale, furono allegramente ignorati da una ratifica parlamentare.
I consensi, tuttavia, premiano i partiti come il Front National francese. La sua leader Marine Le Pen, dopo aver ereditato la guida del partito dal padre Jean Marie, è data intesta ai sondaggi per la presidenza della Repubblica. Se arrivasse all’Eliseo, soffierebbe il titolo di campione dell’anti-europeismo a Geert Wilders, il fondatore del Pvv olandese. E aprirebbe una crepa insanabile nei palazzi europei.

Andrea Morigi