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 2011  aprile 12 Martedì calendario

FMI, NON C’È PIÙ LA PROTESTA DI UNA VOLTA

Ciliegi in fiore e manifestazioni anti-globalizzazione. Per anni questi sono stati i riti della primavera a Washington. Ora non più. Gli stupendi ciliegi continuano a fiorire, ma le manifestazioni di strada sono andate spegnendosi. Le proteste primaverili coincidevano con i vertici che l’Fmi e la Banca mondiale tengono ogni anno in questo periodo nella capitale americana. I manifestanti, numerosi e provenienti da ogni dove, protestavano contro il libero mercato, la povertà o la politica estera statunitense.

Quest’anno sicuramente si terranno alcune manifestazioni, ma saranno meno accalcate, tumultuose e visibili rispetto alle precedenti. Perché? Le risposte sono interessanti poiché il declino di tali proteste è sintomo d’importanti cambiamenti nel mondo.

Innanzitutto, le riforme economiche che l’Fmi esigeva dai Paesi come condizione per sostenerli economicamente non sono più così controverse. Quasi tutti gli Stati le hanno applicate autonomamente. Inoltre, Fmi e Banca mondiale sono divenuti meno categorici. L’Fmi, ad esempio, ha appena adottato una politica più tollerante verso i controlli che alcuni Paesi impongono al capitale straniero, cosa che prima era un anatema. Non sembrano neppure esserci motivi rilevanti per protestare contro gli accordi di libero scambio: tali trattative mondiali si sono arenate oltre un decennio fa. E il sostegno alle politiche sociali è ora una priorità.

Tuttavia ci sono cambiamenti ancora più profondi. Per decenni i Paesi in via di sviluppo hanno assistito agli incontri di Fmi e Banca mondiale per ottenere nuovi prestiti e negoziare le trasformazioni che avrebbero intrapreso a condizione di ottenere il denaro. Questo mondo non esiste più. I Paesi poveri di prima hanno ora economie forti ed enormi riserve internazionali, mentre molti dei Paesi ricchi sono in bancarotta. Nel decennio scorso, i Paesi in via di sviluppo sono cresciuti a una media del 6,1% all’anno. Invece le economie avanzate sono cresciute di un anemico 1,8% di media. Se nel 2000 i Paesi in via di sviluppo rappresentavano un quinto dell’economia mondiale, oggi la loro porzione corrisponde a oltre un terzo del totale. I mercati emergenti come Cina, India o Brasile si sono destreggiati nella crisi finanziaria molto meglio delle nazioni avanzate. Non sono sprofondati nella recessione grave, come la Spagna; non hanno dovuto soccorrere le proprie banche, come gli Stati Uniti; non devono elemosinare aiuti internazionali, come l’Irlanda e il Portogallo; e non richiedono tagli draconiani della spesa pubblica, come il Regno Unito. Ora sono i banchieri privati che aspettano un colloquio con i ministri di Pechino, Brasilia e Nuova Delhi.

E c’è di più. Dopo ogni crollo finanziario (in America Latina o in Asia) i capi di Stato si riunivano in vertici che terminavano con promesse di riforme drastiche del sistema finanziario. La necessità di «una nuova architettura finanziaria internazionale» divenne il mantra di ogni conclave post-crisi. Ma questa nuova architettura non si concretizza mai. Una volta passato lo spavento iniziale, la volontà politica di effettuare tali cambiamenti evapora. I leader smettono di parlare di «una nuova architettura finanziaria» e i burocrati si prendono la scena e promettono, in cambio, miglioramenti delle "tubature" del sistema: restringere i regolamenti bancari, revisionare le norme di contabilità, esaminare il ruolo dei fondi di copertura e delle agenzie di rating creditizio e altre misure simili.

Questo è importante, ma molto noioso. Spronare i giovani idealisti alla protesta, per esempio, contro Basilea 3 (nel gergo del settore si riferisce alle nuove norme che regolano il capitale delle banche) è senza dubbio molto più difficile che spingerli a uscire in strada per richiedere la cancellazione dei debiti che affliggono i poveri.

Sono questi cambiamenti delle idee, del potere economico e delle realtà politiche che spiegano perché durante questa primavera a Washington i ciliegi continuano a fiorire, ma non le proteste contro l’Fmi.

(Traduzione di Cinzia Montina)