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 2011  aprile 12 Martedì calendario

NON IMPARIAMO MAI, SCRIVEVA CORRADO ALVARO NEL 1944

Già lo scrittore fascista (e poi filocomunista, ma sono cose che capitano) Corrado Alvaro, in un pamphlet uscito nell’Italia liberata del 1944 e oggi ripubblicato da Donzelli (L’Italia rinunzia?, pp. 86, 13,00) vedeva con perfetta chiarezza che «i partiti politici italiani, intanto che si pongono le fondamenta della vita avvenire, si sono trovati nell’atteggiamento di chi abbia qualcosa da salvare del passato: le discussioni che si fanno sono fuori di ogni realtà, col gran teorizzare che è la retorica italiana». Era appena caduto dal cavallo bianco Mussolini, «il dittatore che tutti c’invidiano», dice Alvaro, e già appariva perfettamente chiaro che «l’Italia di domani» s’andava «rappezzando con residui dell’Italia di ieri». Anche allora i politici postfascisti e antifascisti e afascisti agivano «come gli archeologi» quando «restaurano e mettono in luce segni e testimonianze dei secoli, il tempio della pace e la stanza delle torture, il Campidoglio e il castello del principotto tiranno» ed esaltano «a volta a volta civiltà e barbarie, la legge romana e la guerra civile, l’agitatore e il bandito». Era più o meno quel che aveva fatto, prima di loro, dei post e degli anti, anche il Dux, famoso restauratore di glorie patrie e imperiali rubate alle illustrazioni dei sussidiari scolastici. Ed è esattamente quel che fanno oggi i nostri politici, non meno famosi restauratori di glorie. Glorie magari più recenti, e certamente più discusse, e in ogni modo di gran lunga più chimeriche, e dove parlando di «glorie» s’esagera senz’altro un po’ (pensate al comunismo da rifondare, al liberalismo da riscoprire, al sistema giudiziario da venerare nella sua perfezione e invarianza, alle riforme da fare e disfare). Ne deriva, sempre secondo Alvaro, che «l’aspetto più drammatico della nostra vita nazionale è che da tempo essa non ha nessun aspetto di storia, ma di biologia. Un’ape ha nel suo stesso organismo la facoltà di far cellule di quella forma e grandezza, senza variazioni di schema; le crisi italiane, da qualche decennio, riproducono esattamente le stesse forme e i medesimi risultati, come se l’esperienza non contasse nulla». Non impariamo mai. Eccoci perfettamente descritti. Colti sul fatto, con le mutande in mano, le dita impiastricciate di marmellata. Nazione ridotta a cliché, zimbello della stampa estera, disperazione della stampa nazionale, l’Italia è un nazione immaginaria come la Padania, o Shangri-La. Giacché «il nostro popolo si ritiene a torto furbo», e sempre «a torto intelligente come nessun altro», ricorriamo a tutte le astuzie per evitare sorprese e cambiamenti. «In un paese come il nostro», annota ancora Alvaro, un paese «retorico, antiproletario, col disprezzo dei villan rifatti per il lavoro manuale, tendente allo stipendio con pensione; e d’altra parte, per il settentrione più ricco e capace d’iniziative, tendente a formare un’industria ugualmente gravante sullo stato e sui contribuenti, il lavoro italiano, il contadino, l’operaio, dovevano e devono sostenere il carico enorme d’una folla di parassiti, industria parastatale, burocrazia, alti gradi dell’esercito. È noto che negli ultimi anni del fascismo non fu messo in circolazione un annuario militare perché conteneva un numero spropositato di generali». Quel che vale per Mussolini, infine, cioè che «lo stesso capo di tutto aspirava a un’altra nazione, era scontento d’essere appena il padrone dell’Italia, ed ebbe a dire più volte che era un peccato egli avesse a governare l’Italia e non una nazione moderna, ricca, influente», vale anche per i politici attuali, da Silvio Berlusconi a Massimo D’Alema e persino a Nichi Vendola. Anche loro pensano d’avere la statura dei grand’uomini (qualcuno gli ricordi che portano i tacchi). A ciò aggiungiamo l’eterno ritorno della caccia grossa alla carica sottosegretariale e ministeriale o anche solo regionale e comunale, che ha per cornice il sistema dei ricatti incrociati tra piccoli e grandi collettori di voti, e infine il servilismo. «È caratteristico di questa mentalità», registra Alvaro, «il quesito che due autorevoli persone del passato regime si ponevano con tutta serietà: essi si prospettavano l’ipotesi che un giorno il loro capo si fosse incapricciato delle loro mogli, e si chiedevano come si sarebbero regolati».