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 2011  aprile 11 Lunedì calendario

GENTE DI FRONTIERA

Da città di frontiera abituata a gestire le emergenze, Ventimiglia ieri si è scoperta a fare i conti con la banalità del male. La morte assurda di Walter Allavena, certo. Ma non solo. La firma romena di un delitto che per modi e violenza rievoca atmosfere arcaiche, molto distanti dalla pietas del mondo civile.
Atmosfere che smuovono la paura dello sconosciuto, dello straniero, del diverso. La comunità romena è quasi inesistente – 200 persone su quasi 30 mila residenti – ma ha comunque un volto non italiano.

Come le centinaia di tunisini che premono alla frontiera in cerca di fortuna, ma che intanto restano qui. In questo scampolo di costa sul mare, che con le sue serre di garofani e le tante opportunità commerciali, negli Anni 50 attirò ondate di calabresi e siciliani. I primi, oggi, sono oltre 7 mila, gli altri 4 mila. Adesso è il tempo dei tunisini, ma è un’altra storia. La macchina organizzativa messa a punto dal sindaco Gaetano Scullino, in collaborazione con la Croce Rossa, è impeccabile. Il centro di accoglienza nell’ex caserma dei vigili del fuoco è il biglietto da visita di una città che conosce il significato di parole come solidarietà ed efficienza.

Eppure non basta. Tanto da spingere il primo cittadino, che milita nelle fila del Pdl, a prendere il coraggio a quattro mani e a criticare la scelta del governo a proposito del permesso di soggiorno temporaneo e del rapporto con gli altri Stati dell’Unione europea. «Stiamo sbagliando – esordisce Scullino -: invece di risolvere il problema, lo aggraviamo molto di più. L’Italia deve raggiungere un’intesa con le altre nazioni. Il patto di Schengen deve costituire una risorsa, con le minacce non si va da nessuna parte. E neppure con l’escamotage del permesso provvisorio: gli altri Stati la vedono come una furbata all’italiana». Sindaco, ma che fa: si mette contro il suo partito? «Quando ci vuole, ci vuole. Ventimiglia ha una tradizione collaudata di città di frontiera: abbiamo 8 valichi, da noi si può andare dappertutto. Siamo in grado di affrontare crisi ed emergenze, come abbiamo dimostrato anche nel 2000 con i curdi. Però stavolta è un’altra storia. Stavolta, il volontariato e lo spirito umanitario non sono sufficienti. Il governo deve coinvolgere gli altri Stati europei. Soli non possiamo farcela».

Di natura estemporanea, «per quanto inaudito e incomprensibile invece l’omicidio dell’altra notte, secondo Scullino. «Come sindaco lo posso dire ad alta voce: non esistono problemi di integrazione con i romeni. Si è trattato di un caso isolato, terribile e sconvolgente, ma isolato». A conferma di quanto sostenuto, il sindaco precisa: «Stamattina (ieri per chi legge, ndr) sono andato a casa di Walter per abbracciare i suoi cari. Beh, poco dopo ho incrociato vicino alla loro casa alcuni romeni che si sono messi a piangere a dirotto. Costernati per quanto era accaduto e per l’immagine negativa che avrebbero avuto tutti quanti. Sarebbe davvero ingiusto amplificare il gesto di un gruppo di delinquenti».

L’amarezza e lo sconforto sono, tuttavia, grandi. «Sono episodi che pensi accadano solo altrove, e invece poi succedono proprio nella tua città. Mi sento proprio amareggiato. Anche perché conoscevo Walter: era davvero una brava persona, sempre disponibile, tranquillo. Impegnato nel sociale e per la sua comunità».

Il sindaco sottolinea come la comunità romena viva da anni in città e spesso la domenica si riunisca in un’area sportiva a Calvo, paese a pochi chilometri da Torri, il borgo dove sabato notte si è consumata l’aggressione mortale. «Sono inseriti - conclude - lavorano, ma spesso bevono e questo è un problema, perché diventano violenti, ma fatti così gravi non si erano mai verificati. Ho intensificato anche l’attività della polizia municipale, che controlla a tappeto i bar frequentati dai romeni. Il guaio è che acquistano l’alcol nei grandi magazzini e quindi è difficile beccarli».

Da un ostacolo difficile da superare, a una piaga sociale di dimensioni troppo grandi. Nonostante la buona volontà di chi vive a Ventimiglia. «Ogni giorno al centro di accoglienza lavorano 35 persone di cui la maggior parte sono volontari – sottolinea il presidente della Croce Rossa provinciale, Vincenzo Palmero -. La struttura può ospitare massimo 200 persone, ma ogni giorno arrivano nuovi profughi con i treni delle 19,45 e delle 23,30. L’80% degli extracomunitari è senza documenti, molti scappano e cercano di superare la frontiera. Riuscendoci spesso. Altri attendono il permesso di soggiorno temporaneo, altri ancora si confondono nei paesi dell’entroterra alla ricerca di un lavoro in nero. Per Ventimiglia sono giorni duri, con questo delitto poi è ancora peggio. Ma siamo gente che non demorde, che combatte e si impegna con l’anima».

Finora non si sono registrati episodi preoccupanti, ma come racconta il dirigente della polizia di frontiera Pierpaolo Fanzone «gli stessi nordafricani sono confusi, è evidente che non sanno cosa li attende. Per ora la situazione è sotto controllo, vedremo cosa succederà nei prossimi giorni». Il sindaco, intanto, sta valutando se proclamare il lutto cittadino per Walter Allavena. «Penso a qualcosa di semplice – dice – che attiri poco l’attenzione. Abbiamo già tanti problemi». Quei problemi che, secondo il parroco Don Jeejo, «occorre affrontare con fiducia e altruismo». A sentirlo dire da lui fa un certo effetto, e non solo perché la chiesa è quella che si affaccia sulla piazza dov’è stato massacrato a sassate Walter Allavena. Il nome del sacerdote è esotico, perché tali sono le sue origini. Don Jeejo è di origine filippina. Una realtà etnica poco presente a Ventimiglia, ma sufficiente a delinearne i connotati. A differenza di altri centri omologhi, questo porto di frontiera ha amalgamato nel suo centro storico non tanto extracomunitari - la popolazione più numerosa è quella equadoregna, ma supera di poco i 500 residenti - quanto immigrati italiani. Chi si spinge verso la parte alta, quella antica, fin sulla piazza della Cattedrale, avrà una sorpresa. Dal sapore tutto italiano: entri in uno dei bar sui bordi della piazza e fai un salto indietro di mezzo secolo. Altro che accenti del Nord Africa o dell’Est europeo. Qui si sente parlare il dialetto calabrese. Quello fitto fitto, un tuffo al cuore per chi è nato in quelle terre. Ma che appare quasi un affronto a chi sogna un Paese dove poter lavorare e crescere i propri figli e si scontra con un mare di difficoltà. «Ventimiglia è terremotata dall’esodo dei tunisini - conclude il sindaco -: proseguiremo a impegnarci come abbiamo sempre fatto. Siamo una città in grado di attirare i 9 mila italiani che abitano a Montecarlo e non possono fare a meno di venire ad acquistare i prodotti italiani da noi. Sappiamo fare tanto, ma non possiamo essere abbandonati. La tragedia causata dai romeni possiamo affrontarla, il resto no».