Marco Zatterin, La Stampa 11/4/2011, 11 aprile 2011
I COSTRUTTORI DELL’EUROPA COSTRETTI AD INSEGUIRE
Alcide de Gasperi non fece in tempo ad essere deluso. Il 9 agosto 1954 ammise in una lettera scritta da Sella di Valsugana al segretario della Dc, Amintore Fanfani, che «la mia spina è la Ced». Si riferiva alla Comunità europea della Difesa a cui Francia, Italia, Germania e Benelux si erano votati e per la quale avevano elaborato pure uno schema di Trattato istitutivo. L’anziano ex presidente del Consiglio lo considerava un passo chiave verso l’integrazione federale che sognava. Era tuttavia preoccupato, non tanto per la mancata ratifica a Roma, dove la caduta del governo aveva bloccato l’iter, quanto per le ritrosie crescenti di Parigi che temeva sarebbero state fatali. Gravemente malato, spirò il 19 agosto 1954. Undici giorni più tardi l’Assemblée Nationale bocciava la Ced. La lunga marcia verso l’Unione europea doveva ripartire da zero.
Erano i tempi i cui l’Europa inseguiva l’Italia. De Gasperi, Spinelli e Einaudi declinavano l’esigenza di una classe dirigente continentale «mandataria di interessi superiori» (motto degasperiano, quest’ultimo). Fu Spinelli a rimboccarsi le maniche perché la fine della Ced portasse alla Cee. La nostra eccellenza europeista era ammirata, eravamo padri dell’Europa coi vari
Schumann, Monnet e Spaak. Non deve sorprendere che dei quindici presidenti del parlamento europeo prima del suffragio universale (1979) cinque siano stati italiani. Deve far riflettere che da allora non se ne siano più visti.
All’inizio siamo stati trascinatori, l’Italia partecipava con passione e favoriva la costruzione del consenso. Ha fatto epoca la sfida di Bettino Craxi con Margaret Thatcher al vertice di Milano nel 1985. La lady di ferro non voleva il mercato unico, il socialista le forzò la mano chiedendo un voto, la mise in minoranza. Otto anni più tardi cadevano le frontiere alla libera circolazione di merci, servizi e lavoratori.
A Roma è partito il cammino dell’euro (vertici dell’Autunno 1990), ancora con la Thatcher vittima di Andreotti e De Michelis. «Quell’uomo - dirà la britannica dell’allora ministro degli Esteri - mi ha attirata in una trappola». A Stresa, nel 1958, l’Italia era riuscita a porre le basi per la politica agricola comune, che per anni è stata la calamita capace di tenere la scalpitante Francia attaccata all’Europa. Fu sotto la nostra presidenza di turno Cee, nel 1975, che si decise di introdurre il voto universale per l’Europarlamento, caso in cui toccò ad Aldo Moro, in un vertice a Palazzo Barberini, convincere l’inglese scettico di turno, il premier laburista Callaghan. A Venezia, infine, si firmò nel 1980 la dichiarazione dei Nove sul Medio oriente, primo passo nell’Europa sullo scacchiere internazionale. Qui il governo era nelle mani di Francesco Cossiga.
L’Italia ha campato a lungo di rendita, nonostante un approccio all’Europa più dogmatico che pragmatico, e qualche birichinata di troppo. I partner hanno perdonato a fatica lo sgarbo di Franco Maria Malfatti che nel marzo 1972 lasciò la presidenza della Commissione per farsi eleggere in Parlamento. Solo con Romano Prodi, nel 1999 alla sommità della Commissione, l’incantesimo s’è spezzato. Oggi la preoccupazione per la distrazione europeista della classe politica è diffusa.
Al momento di progettare la moneta unica la Francia di Mitterrand e la Germania di Kohl hanno giocato un ruolo di primo piano nel non lasciare indietro un’Italia contabilmente priva delle carte in regola per entrare nel gruppo dei migliori. Fu Guido Carli, ministro del Tesoro, a imporre in un summit olandese la filosofia della tendenzialità del debito esagerato. Era il 1981. L’Italia godeva ancora di credito. Poi è scoppiata Mani pulite, è arrivato il governo Berlusconi I, con le sceneggiate di chi non voleva salutare i ministri di An e il populismo euroscettico leghista. Proprio allora, Parigi, Berlino e Londra cominciavano a fare da sole il bello e il cattivo tempo. Toccava a noi inseguire.
Col Berlusconi bis la situazione s’è fatta tesa, complesso il dialogo bilaterale, più intricati i meccanismi dell’Europa arrivata a Ventisette coi nuovi soci dell’Est. Il «no» italiano al mandato di cattura europeo è stato uno spartiacque che ha fatto saltare molti nervi, soprattutto in Francia. Alla quale il ministro della Giustizia, il leghista Castelli, non mancò di rinfacciare la mancata estradizione dei brigatisti. Il Cavaliere, e siamo al 2003, insulta in aula a Strasburgo il «kapò» Schulz. Nel frattempo l’amicizia stretta con Bush e l’Afghanistan ha incrinato i rapporti con i meno filoatlantici.
La questione immigrati riflette rapporti difficili. Le minacce del premier rendono più difficile ottenere l’aiuto che occorre, più duro dialogare con l’Eliseo e Berlino. «Non si può pretendere di fare l’Europa unicamente come la vorremmo noi - disse nel 1973 al congresso della Dc, Lorenzo Natali, a lungo commissario Ue bisogna invece partecipare alla sua costruzione con insistenza ma dall’interno, perché essa si indirizzi dove noi stessi suggeriamo». In 37 anni, si vede, non è cambiato nulla.