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 2011  aprile 10 Domenica calendario

L’INUTILE AUTOMA DEGLI SCACCHI

La gente che viveva nel Medioevo sarebbe rimasta molto stupita se lo avesse saputo. Ovviamente si rendevano conto che il loro mondo non era uguale a quello antico, e ne deducevano di vivere nell’epoca moderna: quelli fra loro che si preoccupavano di queste cose (cioè molto pochi) chiamavano se stessi appunto così, "i moderni". Da meno d’un secolo, invece, abbiamo la mania di stabilire esattamente il nome della specifica epoca in cui viviamo, battezzandola a partire dall’aspetto che ci sembra più importante, nell’ingenua illusione che anche gli storici del futuro condivideranno i nostri criteri di valutazione. Così siamo vissuti nell’era atomica, espressione coniata nel 1945 da un giornalista del «New York Times»; poi nell’era spaziale, aperta nel 1958 dal lancio dello Sputnik; e adesso, ci dicono, viviamo nell’era informatica. C’è però questo di curioso: le tecnologie fondatrici delle ere precedenti, la Bomba e il Razzo, erano così nuove che a nessuno sarebbe venuto in mente di cercarne i lontani antecedenti nella storia dell’umanità, mentre nel caso del computer questa tentazione emerge continuamente.

È come se l’idea di costruire una macchina capace di pensare come un uomo, ma meglio e più in fretta, fosse con noi da sempre. Il logico medievale Raimondo Lullo immaginò una macchina che combinando dischi rotanti potesse formulare tutte le domande contenute nel linguaggio umano, e dunque, necessariamente, anche tutte le risposte. Nella Francia napoleonica, l’industriale lionese Jacquard introdusse il telaio automatico governato da schede perforate sulla base del sistema binario. Nella Londra vittoriana, Charles Babbage progettò una macchina calcolatrice capace di produrre le tabelle dei logaritmi senza essere soggetta al margine di errore umano.

Tom Standage, giornalista dell’«Economist», ha trovato un altro antenato: quello che l’Ottocento conobbe come «il giocatore di scacchi di Maelzel» e che alla sua nascita, nell’Austria settecentesca di Maria Teresa, era conosciuto piuttosto come «il Turco meccanico». Il manichino di grandezza umana, con tanto di pipa e turbante, comodamente seduto dietro una cattedra a rotelle, giocava a scacchi con gran sferragliare di ingranaggi, affrontando avversari umani e per lo più battendoli. Il suo inventore von Kempelen, l’aveva costruito per sfida e quasi per scherzo, ma se ne trovò prigioniero, tanto da essere costretto a portarlo in giro per l’Europa, a soddisfare l’inesauribile curiosità d’un pubblico avido di sensazioni forti quanto ignorante e credulone.

Giacchè, diciamolo subito, il Turco era un imbroglio. Come tutti gli illusionisti, von Kempelen prima dell’esibizione apriva gli sportelli della cattedra e mostrava gli ingranaggi, accostando perfino una candela dal retro per far vedere che non c’era un doppio fondo; in realtà il doppio fondo c’era e dentro la cattedra stava accovacciato uno scacchista ben pagato, che seguiva attentamente la partita e azionava i movimenti del Turco mediante ingegnosi meccanismi. Il trucco, insomma, non valeva più di quello d’un qualunque illusionista che taglia in due una donna sul palcoscenico dopo averla introdotta in una cassa, ed è difficile spiegarsi l’entusiasmo del pubblico che per settant’anni si affollò alle esibizioni del manichino.

Tom Standage ci prova, ricordando innanzitutto che il Settecento e il primo Ottocento erano affascinati e anche angosciati dal l’idea dell’automa, capace di riprodurre l’apparenza e i movimenti di un essere vivente, fino a cancellare i confini tra l’illusione e la realtà. Ne intravvedevano le potenzialità gli scienziati, come Vaucanson che costruì un’anatra meccanica capace di mangiare e digerire, proprio per capire meglio i meccanismi della digestione; e ne avvertivano il mistero gli artisti, come E.T.A. Hoffmann che scrisse racconti terribili su manichini che tutti scambiavano per esseri viventi. Il Turco, agli occhi del pubblico settecentesco, si spingeva semplicemente un po’ più in là: non solo si muoveva, ma pensava come un essere umano, e per molti la differenza non era poi così grande.

Quello che colpisce nelle reazioni del pubblico sette-ottocentesco è qualcos’altro. Molti osservatori si dicevano semplicemente che siccome una macchina non può giocare a scacchi, ci doveva essere una mente umana a guidarla; ed è ingeneroso oggi sottolineare che sul piano teorico avevano torto, perché in pratica invece avevano ragione. L’enigma del Turco, per costoro, si riduceva semplicemente al trucco illusionistico per cui un uomo trovava posto in una macchina in cui a prima vista di posto non ce n’era. Ma molti altri, invece, erano pronti a credere che il manichino giocasse a scacchi per davvero, e a gridare al miracolo tecnologico; e sono proprio questi i più interessanti.

Perché, a quanto pare, a nessuno veniva in mente che se davvero era stato possibile insegnare a una macchina a pensare e reagire in modo autonomo, questo era un passo avanti stupefacente nella storia dell’umanità, uno sbalorditivo salto di qualità nella conoscenza e comprensione della natura, e che da quel passo dovevano nascere conseguenze che avrebbero cambiato il mondo. Niente di tutto questo: chi credeva al Turco continuava a considerarlo un prodigio della meccanica, come se vedere la scacchiera e decidere le mosse fosse solo un’abile estensione della capacità d’un ingranaggio di far muovere le braccia all’automa. A nessuno veniva in mente di chiedersi quale intuizione fondamentale ci fosse dietro il Turco, e quali altri inimmaginabili progressi si sarebbe potuto ricavarne: il manichino giocava a scacchi, e bastava così. E allora la conclusione potrebbe anche essere opposta rispetto a quella che ne trae Standage: la moderna informatica sarà anche nata per accumulo nei secoli, ma a un certo punto si è prodotto un decisivo salto di qualità, e fino a quel punto dai singoli progressi non si cavava niente. Proprio chi credeva, nel Settecento, che fosse perfettamente possibile costruire una macchina pensante, dimostra che se anche l’avessero davvero costruita, non avrebbero saputo cosa farsene.