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 2011  aprile 10 Domenica calendario

LA CRISI DELLA LIBIA TONIFICA LE FINANZE DEL CANE A SEI ZAMPE - È

controintuitivo, ma il caos in Libia avrà un effetto tonico sulle finanze dell’Eni, sul risultato economico e ancor più sui flussi di cassa. La Borsa se ne è già accorta e non ha fatto drammi. Dopo lo scivolone di metà febbraio allo scoppiare dei disordini, il titolo del cane a sei zampe ha seguito come un’ombra l’indice dei petroliferi, pagando con lo scotto di uno scostamento di quattro punti percentuali l’iniziale emotività.

A conti fatti, l’impennata del greggio – salito oltre i 120 dollari al barile – è in grado più che di compensare il danno della guerra. Certo il vantaggio è relativo, dal momento che chi non è presente sul territorio, ha solo da guadagnare e nulla da perdere. Come consolazione, c’è anche da considerare il risparmio fiscale, dato che l’aliquota sui redditi prodotti in Libia arriva al 70%. E c’è la sovrattassa per il Trattato di amicizia da riversare a Roma, che all’Eni comporta un esborso di 250-280 milioni l’anno. A dicembre il gruppo ha già pagato in acconto, ma oggi la contestazione del balzello all’Erario ha forse più chanche di essere accolta. Ma in più, lo stop a gas libico è quasi un dono del cielo, dato che, nell’ambito dei contratti take or pay con Gazprom, l’Eni aveva già anticipato il pagamento di 300 milioni nel 2009 e di un miliardo nel 2010, per forniture che, con la domanda fiacca, non erano state utilizzate e oggi invece vengono buone a colmare le carenze.

Non che l’impatto sia indifferente. Prima dei disordini, la stima di tutto il gruppo per il 2011 era di aumentare leggermente la produzione quotidiana dagli attuali 1,8 milioni di barili, di cui un sesto in condizioni normali provenienti dalla Libia. Ogni giorno che passa, l’anomalia di Tripoli comporta un calo di circa 500 barili sulla media giornaliera annualizzata, 156mila in meno se dura fino alla chiusura dell’a scalare dal dato di partenza di 1,8 milioni. La Libia è il primo mercato del Nord-Africa per il gruppo guidato da Paolo Scaroni, con una produzione equivalente a 280mila barili di petrolio al giorno (vale a dire tutto: petrolio, gas e condensati) e l’Eni è il primo operatore del Paese. Ma dopo il 22 febbraio la produzione è crollata a 70-75mila barili e a oggi è scesa ancora a 50-60mila. Quel che resta è solo gas estratto in joint con la compagnia di Stato Noc dal campo di Wafa, nel sud della Tripolitania, destinato a tre centrali della capitale che servono elettricità a tutto il Paese. Dai pozzi petroliferi invece non esce più una sola goccia. Ed è chiuso anche il rubinetto del gas da esportazione che passa da Greenstream, 520 chilometri di gasdotto che attraversa il Mediterrano per arrivare a Gela. Per la Libia strada obbligata per spedire al naturale il gas in Europa: altre non ce ne sono. A Tripoli è battaglia e l’ultima preoccupazione è pagare la bolletta. Ma Eni ha il vantaggio di aver avanzato verso la compagnia libica un debito commerciale di 380 milioni per il gas già "comprato" e può permettersi di erogarlo in loco per tutto l’anno, scalando il conto dal dovuto.

Gli impianti sono intatti, e quel che conta riattivabili in pochi giorni. I campi estrattivi sono all’interno, in mezzo al nulla, Greenstream (50% Noc, 50% Eni che ne ha la gestione) chiunque prenda il potere sa che di non poterne fare a meno. La compagnia di Stato ha bisogno di un partner internazionale, e con Eni c’è un rapporto privilegiato che dura da mezzo secolo. Le concessioni, appena rinnovate, hanno scadenze comprese tra il 2038 e il 2042. La possibilità che si insinui un concorrente sono remote. I valori in gioco relativamente contenuti: gli investimenti fatti in Libia – in fase di recupero con la produzione – ammontano a 2,9 miliardi su un totale di 81,8 miliardi di capitale investito del gruppo. Il rischio di impairment è dunque limitato. Il riallineamento dei valori patrimoniali scatterebbe solo nella presupposizione di un abbandono definitivo della piazza. Ma dovrebbe proprio succedere una tragedia. L’unico rischio è la nazionalizzazione, ma il punto di forza negoziale dell’Eni è il controllo dell’unico canale di esportazione del gas.

Insomma, del gas libico per ora si può anche fare a meno, come ha detto Scaroni giovedì nell’audizione alla commissione Attività produttive della Camera. Risultati e dividendi per quest’anno non saranno compromessi, se il greggio si manterrà sopra i 70 dollari. Ma se succederà qualche altro pasticcio a livello internazionale, la sicurezza degli approvvigionamenti diventa a rischio. Il calo delle forniture, per la crisi libica, è stimabile in 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno. A questo si aggiunge l’aumento previsto della domanda dal Giappone che, per lo tsunami nucleare, avrà bisogno dai 5 ai 10 miliardi di metri cubi di gas in più all’anno per alimentare la generazione elettrica. E tra i 4 e gli 8 miliardi in più avrà necessità la Germania, per compensare lo stop agli impianti atomici più antiquati. In questo contesto – ha sottolineato l’ad Eni – per le forniture di gas, diventa cruciale il rapporto con la Russia. Senza i 230 miliardi di metri cubi all’anno di Putin, l’approvvigionamento potenziale della Ue supera di soli 10 miliardi i 512 miliardi di metri cubi consumati nel 2010 nell’area comunitaria. Ma la "circolazione" vischiosa è un problema. La soluzione per garantire la sicurezza degli approvvigionamenti passa dunque dallo sviluppo dell’interconnessione delle reti europee, che l’Eni vedrebbe con favore. Il che significa che il controllo di Snam Rete Gas (52% Eni) è strategico. E che l’apertura di Scaroni all’ipotesi di vendita – a condizione di trovare un compratore a premio e con l’ok del Governo, aveva detto a metà marzo agli analisti riuniti a Londra – non era in realtà l’annuncio di un piano di dismissione. Con buona pace del socio Usa Knight Vinke che, ancora a febbraio, era tornato a chiederne la cessione. E il debito – circa 28 miliardi, per oltre 10 concentrato su Snam – per ridimensionarsi dovrà contare solo sul cash-flow e sui 2 miliardi di dismissioni previsti quest’anno.