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 2011  aprile 10 Domenica calendario

BERLINO GIÀ NEI LIMITI DEL PATTO DI STABILITÀ

L’austerità dell’ultimo anno in Germania non si è tradotta come altrove in tagli generalizzati. Non solo il Paese ha potuto godere di una rapida ripresa nel 2010, ma vi è stato il tentativo da parte del Governo di trovare un equilibrio tra aumenti delle tasse, tagli alla spesa e nuovi investimenti. Peraltro, per la prima volta quest’anno, la Finanziaria verrà messa a punto sulla base di indicazioni rigide provenienti dal ministero delle Finanze.

La politica di bilancio in Germania è segnata da due elementi importanti. Il primo è il federalismo tedesco. Il Governo pubblica unicamente i dati federali sui campi d’azione che competono al Bund. Ogni Land ha poi la propria strategia nella gestione delle entrate e delle uscite. L’Ufficio federale di Statistica di Wiesbaden è responsabile di raggruppare le cifre nazionali e regionali e quindi offrire un quadro generale della situazione tedesca.

Il secondo elemento riguarda le nuove norme costituzionali, introdotte nel 2009. Dal 2016 in poi il Governo federale dovrà limitare il proprio deficit allo 0,35% del Prodotto interno lordo. Dal 2020, le regioni dovranno avere un bilancio in pareggio. Il freno all’indebitamento vuole essere una risposta all’invecchiamento della popolazione e ai costi pensionistici in crescita. La legge prevede che un organismo nazionale verifichi i conti regionali passo passo.

Nel marzo scorso il Governo democristiano-liberale del cancelliere Angela Merkel ha presentato un programma quadriennale che prevede una riduzione del deficit a 31,5 miliardi nel 2012, 22,3 miliardi nel 2013, 15,3 miliardi nel 2014 e 13,3 miliardi nel 2015, rispetto a un obiettivo per il 2011 di 48,4 miliardi. La Germania dovrebbe riuscire a ridurre il disavanzo sotto al 3% del Prodotto interno lordo già quest’anno.

Secondo il piano dell’anno scorso, le spese federali dovrebbero salire a 305,8 miliardi nel 2011 da 303,6 miliardi del 2010. Calano le uscite per il Welfare (da 163 a 160 miliardi), per l’edilizia famigliare (da 2,11 a 2,09 miliardi), per le imprese (da 16,07 a 15,99 miliardi). Aumentano invece le spese della Difesa (da 31,7 a 32,1 miliardi), della ricerca e dello sviluppo (da 14,89 a 16,93 miliardi) e per l’agricoltura, la gestione delle acque, l’alimentazione (da 5,6 a 6,4 miliardi).

Il Governo ha anche ridotto gli stipendi dei funzionari federali (del 2,5%) e deciso uno sfoltimento dei ranghi. Il ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble ha introdotto una nuova tassa sui biglietti aerei e una nuova imposta da applicare ai produttori di energia elettrica che posseggono centrali nucleari. Quest’ultimo tassello è oggi in dubbio, almeno per il 2011, vista la decisione di chiudere per tre mesi gli impianti più vecchi del Paese.

Secondo i calcoli degli economisti di Deutsche Bank la manovra quadriennale è composta per il 65% di tagli alla spesa e per il 35% di aumenti delle tasse. Il 2011 è iniziato più facilmente di quanto molti si aspettassero. Il rendiconto per il 2010 ha mostrato entrate più sostanziose del previsto (226,2 miliardi anziché 211,9 miliardi) e uscite minori delle attese (303,6 miliardi, rispetto ai 319,5 miliardi anticipati a suo tempo).

Dal 2012 in poi le uscite federali dovrebbero calare progressivamente: dello 0,67% l’anno prossimo, dello 0,63% nel 2013, dello 0,43% nel 2014 e dell’1,69% nel 2015. Per la prima volta quest’anno il bilancio dello Stato sarà messo a punto con un sistema top-down. Il ministero delle Finanze stabilisce entrate e uscite di ciascun dicastero che poi deciderà come utilizzare le risorse. Anziché guardare alle necessità potenziali, valgono le priorità politiche.

«Questo è l’unico modo per assicurarsi che il fabbisogno annuo scenda gradualmente a un massimo dello 0,35% del Pil entro il 2016 - afferma il ministero delle Finanze -. In questo contesto, è logico che il Governo federale metta nero su bianco le sue priorità nelle diverse aree di competenza del bilancio con grande anticipo». In poche parole, il freno al debito sta costringendo la Germania ad avere in politica economica uno sguardo ancor più lungo del normale.
Beda Romano - PARIGI NON FA SCONTI AI "FONCTIONNAIRES" - I l 2010 è stato l’anno dello "zero volume", il 2011 è l’anno dello "zero valore". Se cioè il bilancio dell’anno scorso è intervenuto sul contenimento della spesa pubblica impedendo ogni voce aggiuntiva, quello di quest’anno la congela, con un risparmio di circa 3 miliardi pari al costo degli aumenti automatici. Sullo sfondo prosegue la misura forse più emblematica decisa nel 2007, al momento dell’elezione, dal presidente Nicolas Sarkozy: la non sostituzione del 50% dei dipendenti pubblici in uscita.

Una decisione, quest’ultima, che non ha un impatto di grande rilievo cui conti dello Stato (circa 450 milioni all’anno) ma è significativa per un Paese che ha sempre incrementato l’esercito, e lo status, dei suoi "fonctionnaires". Il risultato è che tra il 2007 e il 2010 l’amministrazione pubblica ha perso poco meno di 100mila persone. E di altrettante si alleggerirà entro il 2013.

Un impegno che Sarkozy intende mantenere. E a nulla sembrano servire le proteste che arrivano dal mondo della scuola, il più colpito con oltre 45mila posti tagliati tra 2009 e 2011. A salvarsi è soltanto la Giustizia, il cui personale salirà quest’anno di 400 unità.

Se queste sono le linee di fondo di una politica di bilancio che Governo ed Eliseo hanno sempre amato definire «rigorosa ma senza inasprimenti fiscali generalizzati e ostacoli allo sviluppo», ci sono poi le operazioni straordinarie. Di ben altra entità.

La più importante, nel 2010, è stata quella del "grande prestito" da 35 miliardi che Sarkozy ha deciso di realizzare per sostenere l’economia e giocare d’anticipo sulla ripresa: una voce che ha appesantito i conti dell’anno scorso, con un deficit previsto a 152 miliardi, l’8,5% del Pil. Un record negativo assoluto, superiore di un punto a quello, già stratosferico, del 2009.

In realtà il 2010 si è chiuso molto meglio rispetto allo scenario tracciato dalla Finanziaria. Grazie in particolare al minor deficit degli enti locali (1,7 miliardi rispetto ai 6,2 previsti) e all’aumento delle entrate fiscali sul fronte delle imprese dovuto al miglioramento della situazione economica (oltre 12 miliardi in più), il rapporto deficit-Pil si è fermato al 7%, quando ancora l’aggiornamento d’inizio anno parlava del 7,7 per cento. E anche il debito si è fermato al di sotto del previsto (81,7% del Pil rispetto all’82,9%), sia pure su livelli incredibilmente elevati.

Ma intanto si è aperta la sfida del 2011, davvero ambiziosa. Parigi intende portare il deficit a 92 miliardi, pari al 6% del Pil. Per scendere al 4,6% nel 2012 e al 3% nel 2013. In realtà l’operazione sembra meno complicata di quanto continua a dire il Governo ed è quindi possibile che si scenda al di sotto del 6% (il ministro Christine Lagarde ha già annunciato un aggiornamento al 5,7%), ricavando così qualche margine di manovra per l’anno elettorale.

Sul bilancio non peserà più il "grande prestito", ma neppure gli 8,2 miliardi residui del piano di sostegno varato in piena crisi. Il congelamento in valore della spesa pubblica, una prima assoluta nella storia del Paese più statalista al mondo, consentirà di risparmiare poco meno di 3 miliardi. A queste misure si aggiungono tagli nell’ordine dei 7 miliardi e "nuove entrate fiscali" per circa 10 miliardi. Con uno sfoltimento della giungla delle agevolazioni che farà comunque salire al 42,9% la pressione fiscale complessiva.

La Finanziaria prevede inoltre per il 2011 una crescita del 2 per cento. Stima prudente, visto che le ultime previsioni dell’Ocse immaginano per Parigi - sia pure in variazione trimestrale annualizzata - un +3,4% nel primo trimestre e un +2,8% nel secondo. Cifre che consentono di guardare alla ripresa 2011 (e alle conseguenti entrate fiscali) con un certo ottimismo.

La speranza è che l’approccio virtuoso della Francia ai conti pubblici, complice la crisi, diventi strutturale. E che in un futuro non troppo lontano la porti ad abbassare un prelievo fiscale troppo alto e una spesa pubblica che rappresenta ancora il 56% della ricchezza prodotta.
Marco Moussanet - CAMERON PIU’ SEVERO ANCHE DELLA THATCHER - H a impugnato la scure in giugno con il budget d’emergenza; l’ha levata in ottobre con la spending review che programma la spesa pubblica fino al 2015; l’ha abbassata sul capo di un Paese intero il 6 aprile quando, sulla scia del budget del 23 marzo, è scattato il nuovo anno fiscale. La mannaia del cancelliere dello Scacchiere George Osborne cade in queste ore dando il via alla fase acuta del più clamoroso aggiustamento di bilancio mai avvenuto nella storia moderna del Regno. Nemmeno Margaret Thatcher osò affrontare il cimento in cui si è lanciato il premier David Cameron scatenando il suo Cancelliere a caccia del deficit. Londra piegata dalla crisi del credito solo meno di Islanda e Irlanda, ma peggio di tutti gli altri, America probabilmente compresa, ha un rapporto deficit Pil al 10% e un debito pubblico (quello privato è stellare) al 70% avvitato a una dinamica che promette di lasciar intravvedere le tre cifre prima della fine della legislatura.

A meno che quanto Cameron e Osborne vanno promettendo non riesca a trovare assoluta compiutezza. Nei numeri significa azzerare il deficit strutturale entro il 2015, una correzione globale da 110-120 miliardi di sterline (circa 125-140 miliardi di euro) di cui 81 miliardi di sterline, tre quarti, sul fronte delle spese.

Il ministero degli Interni subirà tagli del 25%; quello del Tesoro del 33%; la Difesa l’8%; l’Industria il 7,1%; Sport 30 per cento. Il Welfare nel suo insieme garantirà il 22% del risparmio totale, una volta a regime non meno di 18 miliardi di sterline. L’età pensionabile arriverà a 66 anni per uomini e donne entro il 2020. Il risultato è che almeno 400mila posti di lavoro del settore statale saranno bruciati e toccherà all’impresa privata rimpiazzarli. Helen Alexander, presidente della Cbi, la Confindustria inglese, in un’intervista al Sole 24 Ore nel dicembre scorso s’era detta certa di riuscire a crearne fino ad un milione. E tanti saranno davvero necessari perché le vibrazioni della forbice andranno a infrangersi soprattutto alla periferia del Regno: Birmingham, Middlesbrough, Newcastle sono tre fra le città più colpite dalla contrazione dei trasferimenti.

Gli assegni per gli enti locali saranno ridotti del 28% in quattro anni e l’autonomia fiscale relativa di cui godranno i comuni compenserà, marginalmente, misure che mediamente significano il 10% di meno per l’assistenza agli anziani, 6,5% ai trasporti, 6,9% alla manutenzione stradale, 5,5% alla raccolta dei rifiuti. «Saranno quattro anni di ristrettezze - ha commentato Tony Travers esperto di enti locali alla London School of Economics - e questo vorrà dire strade più rovinate, marciapiedi più sporchi, anziani e bambini meno assistiti». Sospeso per ora il discusso progetto di riforma del National Health Service.

George Osborne ha svelato, invece, nel budget del 23 marzo il lato propositivo della sua azione di risanamento. Ovvero dopo i tagli, il piano per la crescita. Ed è un piano che pone l’impresa privata al centro dello sviluppo. Londra chiede agli imprenditori di supplire, in termini di occupazione, alle conseguenze dei tagli alla spesa pubblica (oggi è il 43,7% del Pil, l’idea è di tornare al 38,7, livello del 2008) che sono stati pianificati. E la mette nelle condizioni di provarci. La riduzione dell’aliquota sulla corporate tax dal 28% di oggi al 23% del 2014 è l’aspetto più macroscopico, ma non il solo. Il nuovo regime fiscale per gli utili delle controllate estere e le 21 aree speciali di sviluppo con marginali vantaggi impositivi, sono altri due esempi. Significativo il caso dell’Irlanda del Nord, prossima ad ottenere un’aliquota corporate del 12,5% uguale, cioè, a quella della Repubblica d’Irlanda.

Una misura decisa per garantire capacità competitiva all’Ulster, rischia di fare scuola se è vero che anche il Galles pensa a qualcosa di simile. La Gran Bretagna è in marcia verso una decisa concorrenza fiscale in ambito Ue? Sembra proprio di sì, scorciatoia per ritornare concorrenziali negli anni in cui si sanguina, si suda, si piange. Con buona pace per le ambizioni di impianto comunitario, ma questa, per l’Inghilterra, è la storia di sempre. Leonardo Maisano - ZAPATERO COSTRETTO A RINCORRERE I MERCATI - U na corsa scomposta, senza soste, in affanno. Per non essere l’ultimo della fila dei Pigs, per non dover chiedere aiuto all’Europa, per scongiurare il rischio default.

Con le due ultime manovre finanziarie, tra le quali si è inserita nel maggio di un anno fa una dura manovra straordinaria, il Governo di José Luis Zapatero si è dato l’obiettivo di recuperare più di 50 miliardi di euro, che valgono quasi cinque punti sul Pil del Paese. Le misure di austerity non risparmiano nessuno: tagli agli stipendi pubblici, alle pensioni, ai bonus bebè; aumento di Iva, di Irpef sui redditi più alti e dell’imposta sul capital gain; blocco degli investimenti in infrastrutture e riduzione dei trasferimenti alle regioni.

Con occhi allarmati rivolti verso il Portogallo che cammina sull’orlo della bancarotta, con le indicazioni (sempre più pressanti) dell’Unione europea, la Spagna cerca di ridurre un deficit di bilancio che nel 2009 ha toccato l’11,1% del Pil e che solo nel 2013 se le previsioni saranno rispettate potrà scendere sotto il limite di Maastricht del 3 per cento.

La Spagna perde la bussola con la crisi mondiale iniziata nel 2008, ha scommesso forte sul mattone e lo scoppio della bolla immobiliare la fa cadere: debole, incapace di rialzarsi, deve mettersi sulle spalle le difficoltà delle banche tentando, senza riuscirci, di guadagnare fiducia sui mercati.

Alla fine del 2009 Madrid approva la prima manovra di emergenza. Per garantire entrate di oltre 5 miliardi all’anno aggiuntive Zapatero decide l’aumento dell’aliquota Iva: di due punti quella più comune che grava sulla maggior parte dei prodotti, portandola dal 16 al 18 per cento; di un punto l’aliquota intermedia dal 7% all’8 per cento; lasciando invariata al 4% l’aliquota ridotta sui prodotti di prima necessità. Incrementa anche il prelievo sui capital gain: dal 18 al 19% fino a 6mila euro; dal 18 al 21% oltre i 6mila euro. E colpisce anche le famiglie eliminando le deduzioni generalizzate di 400 euro sull’Irpef - per circa 5,7 miliardi di euro all’anno - e limitando i sussidi per i farmaci e l’assistenza alle persone. Vara tuttavia sgravi fiscali (anche se limitati) per le piccole e medie imprese.

A maggio del 2010 Zapatero cede alle insistenza della Ue e dopo una telefonata con Barack Obama annuncia nuove misure di austerity: nel settore pubblico gli stipendi vengono ridotti in media del 5%, per i membri del Governo la retribuzione scende del 15% mentre viene cancellato per le pensioni il tradizionale adeguamento automatico all’inflazione. Alle regioni si chiede un sacrificio di 1,2 miliardi di euro all’anno.

È però per la Spagna quella del 2011 la Finanziaria dei record: le spese dei ministeri tornano d’imperio ai livelli del 2006 con una diminuzione media netta del 16% che salva solo l’Istruzione e la Ricerca. Il Governo socialista inoltre blocca gli investimenti in opere pubbliche e infrastrutture. Abolisce l’indennizzo di 426 euro al mese per i disoccupati di lunga durata, cancella il bonus bebè di 2.500 euro. Ma con provvedimenti più d’immagine che di sostanza - per circa 200 milioni di entrate da 100mila cittadini - alza dal 43 al 44% l’aliquota Irpef per i redditi sopra i 120mila euro; e dal 43 al 45% quella per i redditi sopra. Concedendo alle pensioni minime di 2,5 milioni di spagnoli un aumento dell’1 per cento.

L’economia crollata nel 2009 e nel 2010 si sta riprendendo a fatica: «Il Prodotto interno lordo dovrebbe crescere dell’1,3% quest’anno e dell’1,2% nel 2012», ha detto nei giorni scorsi il ministro delle Finanze, Elena Salgado. Ma la disoccupazione resta sopra il 20 per cento. Dopo sette anni da premier Zapatero annuncia che lascerà a fine mandato nel 2012, al suo partito socialista non resta che un misero 30% di consensi negli ultimi sondaggi. Non sa come muoversi, corre di manovra in manovra, taglio dopo taglio: ha il fiato corto. Mentre discute con le parti sociali una riforma della previdenza che dovrebbe portare l’età della pensione da 65 a 67 anni. E abbozza una serie di privatizzazioni: un altro piano di emergenza. Di nuovo di corsa, in affanno. Paolo Veronese