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 2011  aprile 10 Domenica calendario

STORIA DI BOCCHINO, L’ITALO POCO SANTO E MOLTO ALLENATO

Il destino è nel nome, «Italo». Perché suo papà volle fare un omaggio a Balbo, Italo Balbo. Uno che, per dirla con Buttafuoco, «a palazzo Venezia, davanti al Duce, poteva starsene seduto, perfino mettendosi sopra la scrivania, quando tutti gli altri dovevano stare in piedi o sugli attenti». Presagio di irriverenza, il nome. Quarantatrè anni dopo, Italo Bocchino, sarebbe diventato il falco finano, l’epurato.
Quello cui il Cavaliere disse «se vai in tv stasera ti infilzo», il simbolo dell’irriverenza futurista.
Epperò – si sa, il reale non è razionale - c’è più di un paradosso in questa Storia di destra firmata Bocchino per Longanesi. Italo è coraggioso, ma non ribelle, tenace ma non anticonformista. È un moderato, espressione di una destra conservatrice e presentabile. Non nasce né falco né nostalgico. Falco ci diventerà, nostalgico invece no, mai. L’Msi fu un po’ più fosco di come appare dai racconti della giovinezza di Italo, di sangue e merda - per dirla con Rino Formica, rendendogli sempre omaggio per la definizione - ce ne fu molta. Bocchino invece affoga icone e rituali che segnarono la sua generazione, taglia corto, ora che gli esami sono finiti per tutti: «Sono antifascista. Il fascismo mi negato la possibilità di aderire alla destra moderna».
E non è un caso che nella lunga traversata dalla fogna al governo (copyright di Enrico Mentana) Italo diventa il delfino di Pinuccio Tatarella, l’uomo della mediazione, il politico che più di altri, sposò la causa dell’andare «oltre la destra», poi «oltre il polo», in nome di un centrodestra conservatore. E se l’incontro di Bocchino con Fini è caldo come il bacio con una statua di marmo, quello di Pinuccio è folgorante: «Noi lo seguivamo, spesso spinti dal dovere di truppa. Eravamo troppo giovani per comprendere appieno la profondità dei suoi insegnamenti. Ma alla fine aveva sempre ragione lui».Insomma, è lui il leader, il padre, il mentore riconosciuto. Le sue massime uniscono la saggezza del popolano all’astuzia del politico: «Se esiste il Caso, io che ci sto a fare? Io sono in politica per aggiustare le cose», «fare il mio addetto stampa è facile, basta tacere». I suoi atteggiamenti sono burberi con gli amici, seduttivi con gli avversari: «In politica puoi generare consenso in due modi: con il timore o con l’amore. Lo diceva Machiavelli. La differenza è che l’amore è scientificamente provato che finisce, il timore no. Quindi per prima cosa devi essere temuto, dopo arriva la mediazione, il miele a volontà, l’armonia». Italo è il delfino, suo e non di Fini. Un paradosso, ma fino a un certo punto.
C’è sempre stata in questo paese una destra subalterna, oscillante tra il sentirsi figlia di un Dio minore e l’accontentarsi a mangiare le briciole del sottogoverno democristiano. C’è sempre stata una destra che non si è mai emancipata, in preda a questi complessi, alla ricerca di un duce, di un biglietto a basso costo per entrare nel salotto buono. Ed è forse il motivo antropologico per cui tutti i colonnelli di An, da Gasparri a La Russa a Matteoli hanno scelto Berlusconi. Tatarella, il ministro dell’armonia, l’assessore di Bari che incontra gli intellettuali di sinistra, uno che appartiene alla generazione precedente Fini, è comunque espressione di una destra che non si sente figlia di un Dio minore («Italo, la destra per come la intendiamo noi non è mai esistita, è stata marginalizzata nella contrapposizione fascismo-antifascismo. Con la caduta del Muro e Tangentopoli possiamo fare qualcosa di nuovo»). E non vuole fare esami, piuttosto è pronta ad entrare nel grande gioco delle alleanze senza tante chiacchiere. Vale la fotografia che scatta Bocchino a Fiuggi, in pieno pathos congressuale: «Qualcuno andò da Tatarella preoccupato dicendogli: “Rauti se ne va, fa una scissione”. Tatarella rispose: “E fagli fare la scissione”. Quando gli riferirono: “Si vogliono chiamare Movimento sociale, fiamma tricolore”. Lui ribattè: “E falli chiamare così. Non c’è da preoccuparsi”. E ancora: “Vogliono rimettere la fiamma nel simbolo”. Risposta: “Lasciali fare”». Per la serie: un per cento si può sacrificare al progetto se i simboli sono zavorra superata e l’obiettivo è «andare oltre».
Pinuccio non è subalterno neanche al Cavaliere, anzi, nonostante gli abiti sgualciti e l’avversione ai sarti. Ha una diffidenza antropologica verso gli strumenti che l’ex tycoon di Segrate usa per convincere le persone. Tanto che gioca con la distanza dei mondi, anche negli incontri: «Per non concedere a Berlusconi vantaggi nelle riunioni gli mandava segnali: non lasciava il cappotto al maggiordomo ma lo poggiava allo schienale della sedia. Durante le riunioni beveva alla bottiglia, e poi la riponeva a terra, un gesto che viene dalla storia dei contadini, dei lavoratori veri». Soprattutto il vecchio volpone pugliese tiene sempre un profilo autonomo di manovra: tesse la tela con Scalfaro durante gli anni del ribaltone mentre Fini e Berlusconi urlano al tradimento, ottiene due uomini suoi nel governo Dini, un ministro e un sottosegretario: «In maniera carbonara mettemmo un piede nel nuovo governo, senza che gli altri lo sapessero». L’«alleabilità», la capacità di incontro allargando il campo, è la sua filosofia. In uno dei tanti momenti di tensione tra Fini e Berlusconi, il maestro consegna all’allievo Italo una frase che è un titolo a un quindicennio di storia del centrodestra: «Io ho inventato “oltre il Polo” e D’Alema con l’Ulivo l’ha fatto».
Frase drammatica, in prospettiva. Perché la leggenda del delfino Italo incrocia il paradosso, che rappresenta la contraddizione di un pezzo della destra italiana. Quando si realizza il sogno di Tatarella, il partito unico dei moderati, sotto le insegne del Pdl, il progetto non tiene. Il fallimento è di quelli storici, epocali. Berlusconi innalza muri invalicabili sull’asse del nord, esaspera la sua visione padronale del partito, programma scientemente l’espulsione del nemico interno. Certo le quote, il famoso 70 a 30. Ma c’anche dell’altro: la giustizia, i diritti, la concezione della democrazia. E quando fallisce il sogno di Tatarella, Fini è solo, anzi con Italo che diventa il suo interprete, il capo della nuova fase, il delfino. Gli ex colonnelli non seguono Fini, mentre il tatarelliano diventa falco, paradosso nel paradosso.
Già, perché il rapporto di Bocchino con Fini è complicato, e di certo non è amore a prima vista. Quando scoppia la guerra con i colonnelli, dopo il referendum sulla fecondazione nel 2005, Italo è il numero tre di Destra protagonista, dopo La Russa e Gasparri, la corrente più filo-berlusconiana, che con il capo di An vive più un rapporto di forza che una sintonia culturale. Bocchino racconta quel momento come una fase di tensione estrema: «La leadership di Fini barcollò paurosamente, in quella battaglia non aveva nessuno dalla sua parte». Il futuro delfino applica la dottrina dell’«alleabilità» sul fronte interno, con obiettivo di impedire a Fini l’azzeramento delle correnti. Con Carmelo Briguglio, ora falco futurista e allora numero tre della corrente di Storace e Alemanno, Bocchino organizza un incontro, a cena, per siglare il patto di tutti contro Fini: «Cogliendo il momento di debolezza del presidente riuscimmo a far dialogare gli opposti estremismi, una sorta di patto di Yalta. All’epoca tenere Gasparri e Alemanno allo stesso tavolo era impresa ardua». A casa Bocchino i colonnelli sottoscrivono l’accordo: «Se Fini pensa di poter far fuori i colonnelli si sbaglia, presiedere il partito vuol dire prima di tutto prendere atto che le correnti esistono e che, se coalizzate, hanno un peso determinante». Il risultato è che il leader di An per poco non finisce in minoranza: «L’assemblea fu un processo a Fini. Lui aveva tenuto un discorso contro le correnti che a suo dire erano le “metastasi dei partiti”. Non sapeva a cosa stesse andando incontro. Quando scoprì che le due correnti principali si erano messe d’accordo per tutelare la loro esistenza, fece marcia indietro». Dopo il famoso episodio della Caffetteria la vendetta di Fini è implacabile. Azzera gli incarichi. E alle politiche del 2006, Bocchino ha un seggio ad alto rischio in Campania. Passa come ultimo degli eletti. Se fosse andata male, sarebbe iniziata un’altra storia: «A quel punto avrei mollato la politica. C’erano tre aziende interessate a me: un gruppo editoriale, una società di servizi, una società di gestione fondi».
E invece di storia ne è iniziata un’altra ancora. Con Fli l’obiettivo è una destra normale, non berlusconiana, europea. La storia del delfino finiano arriva al paradosso più duro da digerire. Il Pdl mostra, forse, che “oltre il polo” non si poteva andare, che il berlusconismo non può avere un’evoluzione “normale”, che, in fondo, Tatarella aveva torto. C’è una destra destinata a morire con Berlusconi. E una destra normale, quando sarà, da costruire anche sulle sue ceneri.