Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  aprile 10 Domenica calendario

Nella vita di Giuseppe Battiston il rapporto più difficile è quello con il telefono. Un oggetto misterioso

Nella vita di Giuseppe Battiston il rapporto più difficile è quello con il telefono. Un oggetto misterioso. Di più, un nemico. Sembra quasi di vederlo mentre osserva i numeri attraverso le lenti da miope con una sorta di sommesso stupore. Ma una volta superata la prova di forza con la tecnologia, Giuseppe Battiston è persona gentilissima. E puntualissima. Arriva alla Mole Antonelliana, in una Torino limpida e piena di fascino, in perfetto orario. Alto e imponente come uno se l´aspetta ma, a sorpresa, lieve nei modi e nel tono di voce. Ha da poco superato i suoi primi quarant´anni. Li definisce «Amari e soddisfacenti in egual misura». «Questa città mi piace molto», dice dietro gli occhiali sottili che si appannano per il caldo improvviso del piccolo bar. A Torino si è fermato per provare lo spettacolo 18 mila giorni - Il pitone che poi ha portato in tutta Italia. Il teatro è la sua passione. «Ho scelto di fare questo mestiere perché mi teneva sveglio», racconta divertito, «ma la verità è che è un grande privilegio poter fare, nel lavoro che mi piace, le cose che scelgo». Sarà per questa passione, che recitare gli riesce così bene. Indubbiamente è bravo. Per i critici addirittura bravissimo. Ha vinto il premio Ubu per Petito Strenge di Alfonso Santagata, due David di Donatello, un Ciak d´oro, il premio Hystrio, il premio Eti ed ha collezionato tre nomination al Nastro d´argento. Sentendo recitare l´elenco s´intimidisce. Si tocca i capelli come per spostare l´attenzione: «Continuo a recitare perché è la sola cosa che mi viene bene». Friulano di Udine, Battiston a sedici anni incrocia una manifestazione teatrale cittadina. E per lui comincia l´avventura. «Fu un´esperienza di teatro tra giovani, completamente autogestita, ma fondamentale per scegliere di andare a vivere a Milano e studiare recitazione». E quel giovane friulano si ambienta velocemente, consumandosi tra giornate di prove e spettacoli: «Non ho mai avuto l´anima del secchione, anche a scuola non studiavo ma compensavo con la buona memoria». Poi, altrettanto per caso, nella sua vita arriva il cinema. «Silvio Soldini veniva a vederci e mi chiamò per un provino per il film Un´anima divisa in due, dove ho avuto un piccolo ruolo ed è andata bene. Poi, sempre con Soldini, ho lavorato per Le acrobate e per Pane e Tulipani. Almeno con lui i provini ho smesso di farli». Tornare sul set, chiamato dallo stesso regista, è un bel riconoscimento. «È molto bello quando chi ci ha diretto decide di richiamarci, ma io sento sempre una forte tensione alla ricerca e, la mia angoscia, è ripetere all´infinito lo stesso personaggio». Una fobia che, per la prima volta, si è affacciata proprio dopo Pane e tulipani, il film che gli ha dato più visibilità. «Dopo quella parte mi capitarono offerte che andavano tutte nella stessa direzione, ma ho saputo allontanarmene. Altrimenti, sarei rimasto per sempre legato al personaggio del figlio scemo». Un´altra volta, altrettanto involontariamente, è entrato nel filone degli amici del protagonista e anche lì ha dovuto dire basta: «La verità è che non mi sono mai riconosciuto sul significato di caratterista e penso sia un delitto stufare il pubblico mentre, come si dice, "bisognerebbe alzarsi da tavola sempre con un velo di appetito"». Anche grazie a quei faticosi no, Battiston ha indossato le sembianze dell´uomo ingenuo e incapace di Non pensarci. Del piccolo borghese che tratta le donne in modo rozzo ne La giusta distanza e dell´operaio rimasto senza lavoro in Giorni e nuvole. Ora gli piacerebbe interpretare un cattivo vero. Uno senza scrupoli. In teatro è diventato famoso rappresentando Orson Welles. Certo, un Welles alla maniera di Giuseppe Battiston: «Era uno spettacolo nato dallo studio di una piccola intervista e così libero che mi ha permesso di mostrare un lato dell´uomo che nessuno aveva individuato prima». Battiston ha l´animo dello sperimentatore. Ama inoltrarsi in territori nuovi. «Purtroppo il teatro non ha più l´importanza di un tempo e neppure la stessa funzione e io credo in una forma di coerenza per cui, se non è puro intrattenimento, salire sul palco è comunque un atto politico che dovrebbe stimolare le riflessioni del pubblico. Comunque per il solo fatto di acquistare il biglietto, le persone dimostrano una marcia in più perché creano un´azione. Si tratta di una fetta di pubblico preparata che rimane una minoranza e che non riesce a trascinare la massa». Per ora ha recitato quasi sempre in Italia, ma vorrebbe lavorare fuori. Anche perché l´Italia, che ama tantissimo, offre un quadro sconfortante: «Gli italiani forse sono più coscienziosi e cominciano a non meritare quello che ci sta capitando». Ciò che più lo spaventa è la crescente povertà. «Le cose che succedono intorno a noi, come in Tunisia, in Egitto e in Libia, hanno significati preoccupanti e arriverà un giorno in cui la gente si stancherà di tanti sofismi. Quando sento gli operai in televisione non posso fare a meno di domandarmi: "Ma tu, Giuseppe, hai mai fatto un turno in fabbrica?". La gente intorno a me è sempre più in difficoltà. Un tempo alla chiusura del mercato di Milano, per farsi regalare le cose avanzate, c´erano i barboni. Ora cominciano ad andarci le persone normali, soprattutto gli anziani che comunque una pensione ce l´hanno. L´eccesso di flessibilità sta generando persone sempre più povere. Cosa succederà ai precari di oggi che una pensione non ce l´avranno mai?» Il tema del precariato lo affronta anche in 18 mila giorni. Il pitone. Il pitone è un animale che prima osserva il nemico prendendone le misure e poi, quando ha raggiunto la sua stessa lunghezza e forza, lo uccide. «Il nostro spettacolo parte da una metafora ed ha come protagonista un uomo di cinquant´anni che perde il lavoro. Le riflessioni s´intrecciano per sottolineare come, in soli diciottomila giorni, siano mutate le prospettive e le aspettative sociali in Italia. Dalla dignità del lavoro, in un´epoca in cui era un diritto e un elemento fondamentale, al trionfo del precariato come forma di ricatto sociale». Con i precari di oggi, con i giovanissimi, ha un ottimo rapporto. Ama la loro curiosità: «Quelli che vengono nei camerini sono pieni di domande e mi confessano che non sapevano niente di Orson Welles. Ecco, questa è la mia gioia, far riflettere i giovani. I ragazzi sono colpiti dall´indipendenza che insegna l´auto sufficienza. Vorrei che tramontasse quel mito del super lavoro, che ti fa guadagnare quattro volte di più, ma poi ti costringe a spendere i soldi dall´analista per riprenderti quella parte che ti ha divorato lo stress». Si agita sulla sedia e gli occhiali si appannano ancora. L´espressione normalmente seria diventa corrucciata: «È per questo che probabilmente da noi ha vinto il modello di un uomo che aveva come slogan "Ghe pensi mi". Senza parlare di quelli cui stanno sui coglioni i cinesi ma poi gli affittano le case. Quelli che sono infastiditi dagli immigrati ma li sfruttano». Si alza dal tavolo. Ordina due tazze di tè. Una colazione leggera per una mole come la sua: «Sono un atleta solo dell´anima e ogni tanto mi devo controllare col cibo. In realtà un corpo così ingombrante sul palcoscenico ti condiziona meno che nel cinema perché, comunque, è un territorio libero in cui reciti indipendentemente da come sei». Il rapporto con il pubblico, inteso come popolarità, non lo ha cercato. Però uno scambio è inevitabile. «C´è chi ti ferma per strada, chi ti chiede una foto, incontri casuali che sono forme di dialogo». Intorno a lui, attori e attrici aprono i gruppi su Facebook e inaugurano siti internet. Lui sorvola. Esattamente come succede con il telefono, ha difficoltà con le tecnologie: «Ho tutto ma non uso nulla. Non sono in nessun social network, non guardo mai la mail, ho un computer perfetto, con mille funzioni, ma lo uso solo per vedere i film». Anche perché per andare al cinema non trova mai il tempo. In realtà, nella vita privata sembra avere poco spazio per tutto, tranne che per le amicizie: «Ho affetti da anni che resistono alle distanze, certo mi piacerebbe "prestino" mettere su famiglia anche se riconosco che è una struttura in crisi, esattamente come la sanità. Ognuno è il frutto anche della sua esperienza ed io non credo possa esistere una famiglia senza scontri». Per i prossimi quarant´anni sogna grandi colpi di scena. Anche di passare dall´altra parte della macchina da presa. C´è da pensare che, nonostante la sua poca dimestichezza con le macchine, ci riuscirà.