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 2011  aprile 10 Domenica calendario

ARTICOLI SULLA MORTE DI SIDNEY LUMET


CORRIERE DELLA SERA
MAURIZIO PORRO
MILANO — Ci ha fatto pensare ed emozionare occupandosi degli uomini, della giustizia, dei rapporti con le istituzioni. E’ morto a New York Sidney Lumet, classe ’ 24, cittadino di Filadelfia diventato subito nuovayorkese, intellettuale e regista. Giovane alla Cbs raccontò Sacco e Vanzetti, anni dopo ricordò in Daniel i Rosenberg, vittime del maccartismo. Molti titoli indimenticabili tra i 42 della carriera iniziata nel ’ 57, raccomandato da Henry Fonda, con La parola ai giurati, L’uomo del banco dei pegni, Serpico, Quel pomeriggio di un giorno da cani, Quinto potere, La collina del disonore, Il verdetto, fino al thriller familiare Onora il padre e la madre, sintesi di una disillusione totale, il k. o. del mondo. Premiato con l’Oscar solo alla carriera, gaffe dell’Academy, i suoi film regalarono però onori, gloria agli attori, compresa la statuetta postuma a Peter Finch, telepredicatore isterico e malato di mass mediologia che minaccia il suicidio in diretta in Quinto potere: «Sono incazzato nero e tutto questo non lo sopporto più» nella più anticipatrice (1976) accusa contro l’informazione spettacolo. E sulla tv dove iniziò a lavorare, nel 2009 a Rimini per ritirare il Premio Fellini disse: «La tv è oggi colpevole della solitudine: informa senza far conoscere» . Da democratico raccontava storie democratiche, come quella del giurato Fonda che convince in due tempi tutti gli altri ad evitare l’errore razzista: uomini ordinari in situazioni straordinarie, avvocati che risalgono la china denunciando i soprusi di un ospedale (l’alcolizzato Paul Newman del Verdetto), reclute in lotta contro il sadismo militare (La collina del disonore con Sean Connery in fuga da 007). E sempre i dollari, lo stramaledetto potere dei soldi. Ma il fattore umano gioca con Lumet sempre un ruolo primario, la voglia di giustizia si fa sentire. Ne sanno qualcosa Al Pacino, suo attore di riferimento, che denuncia la polizia corrotta in Serpico e Treat Williams che nel Principe della città torna sul luogo nuovayorkese del delitto. Durante l’era Kennedy prova la fantapolitica nucleare (A prova di errore), ma poi torna a tragedie contemporanee. Ecco L’uomo del banco dei pegni con un grande Steiger, usuraio ebreo che vive col trauma del lager (il successo in Italia dipese anche dalla veloce immagine di un seno nudo). La sua voglia di affabulare il mondo nasce da Baruch Lumet, padre attore, che lo porta al teatro yiddish dove debutta («ero bruttino, era la mia strada» , passando poi off Broadway dove impara a combattere con le parole per migliorare il mondo e conosce il gusto per la miglior letteratura. Sua la bellissima riduzione del «Gruppo» di Mary McCarthy, proclama di una generazione, le snob allieve ’ 33 del college di Vassar. Il senso del palcoscenico e il gusto dialettico della battuta sono suoi alleati e non a caso alcuni dei film a lui cari, oltre a Fascino del palcoscenico, sono opere di teatro. Si va dal Gabbiano di Cecov a Pelle di serpente di Williams con la Magnani e la Loren che sul set non si rivolgevano la parola (lo rammenta Arbasino in «America amore» di Adelphi), da Lunga giornata verso la notte di O’-Neill con una Katharine Hepburn in stato di eroina e di grazia a Uno sguardo dal ponte, best seller di Miller con Raf Vallone, italiano scritturato da Lumet, come la Loren in Quel tipo di donna, commedia quasi sofisticata. Del nostro paese amava Venezia, gli spaghetti e Fellini: «I suoi film saltellano sulla spiaggia» . La sua dimensione prediletta era il thriller, dove coinvolgeva nevrosi personali e fattori sociali, verdetti e media. Il meglio? Quel pomeriggio di un giorno da cani dove due rapinatori reduci dal Viet si trincerano in una banca e la storia è sfruttata in diretta tv. Continua il discorso sul potere dei media. Politico? «Mai fatto proclami, il messaggio sta nella vita» . Si divertì a incastrare tre generazioni in Sono affari di famiglia: Connery, Hoffman e Broderick. E la sua cine filosofia sta in un bel libro autobiografico, «Fare un film» edito da Minimum Fax. Talvolta si divertiva alla grande, ricordando le divine del passato (Garbo talks! con la Bancroft) ma soprattutto con Assassinio sull’Orient Express della Christie dove molti divi, tutti sospetti, salgono sul vero Orient Express per la gioia di Poirot e della Bergman che vinse il terzo Oscar. Maurizio Porro

GIOVANNA GRASSI
LOS ANGELES — «Mi sembra che tutto il mio mondo d’attrice, quello degli anni d’oro di Hollywood, si stia dissolvendo. Prima se ne è andato Arthur Penn, ora il carissimo Sidney Lumet al quale è legato il mio ricordo vivissimo per uno dei film più significativi della mia carriera e ancora oggi attualissimo, Quinto potere, dice Faye Dunaway, 70 anni. Per quel film contro lo strapotere della tv ebbe nel 1977 l’Oscar come miglior attrice. Ricorda: «Era attentissimo ai ritratti femminili. Mai essi erano in minoranza rispetto a quelli maschili. Più di quattro generazioni di attori devono moltissimo al caro Sidney e i ragazzi oggi studiano il cinema sul suo bel libro "Making Movies". Quando partecipo a qualche incontro gli studenti me lo dicono sempre. E vogliono sapere tutto della mia Diana, la protagonista di Quinto potere, una sorta di "mostro"televisivo, pronta a sacrificare tutto di se stessa e dei suoi affetti per la carriera» . Sidney spiegava l’onestà e la corruzione. «E mai si sentiva una leggenda, ma semplicemente un uomo che aveva amato e continuava ad amare il cinema. In modo indipendente e creativo, sino ai suoi ultimi impegni. Le sue storie erano sempre complesse, profonde, cariche di energia e d’impegno e denunce civili. Esattamente come il suo carattere» . Ricorda quando la chiamò per offrirle il ruolo di rampante responsabile di programmi televisivi. «Il tema sotto accusa era l’eccesso di potere della tv ma a Lumet interessava analizzare anche il potere in genere dei mass media e, soprattutto, il fatto che essi eleggevano ambigui eroi per le masse. Fummo accusati di aver fatto un film di fantascienza tv e invece era cronaca che anticipò i tempi. Sul set era spesso con il suo grande amico, lo sceneggiatore Paddy Chayefsky. Si discuteva sempre di come il mezzo televisivo cambiasse e riplasmasse le persone, la loro cultura. Fu per tutti noi attori una esperienza entusiasmante» . Fu Lumet a disegnare in modo così netto una delle prime donne in carriera, sostiene la Dunaway. «E ancora oggi, se passo di fronte a un immenso stabile di qualche network televisivo, la Cnn, o l’Abc, qui a Los Angeles mi accade di pensare quello che ogni giorno ci diceva Sidney: "Dietro e dentro questi edifici e le finestre illuminate anche di notte si nascondono le storie degli uomini e delle donne che dovete raccontare". Sidney ha sempre colto in anticipo tanti temi. Come dimenticare sul set anche le sue appassionate discussioni di politica? A noi attori ha dato un cinema senza compromessi e davvero realizzato in gruppo, coralmente, al servizio di tutti» . Giovanna Grassi

LA REPUBBLICA
IRENE BIGNARDI

ROMA - Sidney Lumet, scomparso ieri a 86 anni, nella sua casa di New York, era, se così si può dire, un uomo invisibile. O meglio, un uomo visibile solo dietro e attraverso i suoi film. Un regista di altissima professionalità e bravura che in una carriera lunga oltre cinquant´anni è riuscito nell´impresa singolare di comunicare senza imporre il suo ego, di restare coerente ai suoi prediletti temi civili e alla critica sociale senza mai diventare un predicatore, di fare cinema popolare mettendosi sempre al servizio delle sceneggiature, degli attori, del pubblico.
Da quando, figlio d´arte, debuttò come attore a tredici anni , nel 1937, sulla scena di Broadway, e poi al cinema in One Third of a Nation, Sidney Lumet ha realizzato oltre cinquanta film, è stato quattro volte candidato all´Oscar come miglior regista, è stato premiato nel 2005 da un Oscar alla carriera, ha affrontato in maniera onesta e incisiva, anche nei suoi film meno felici, i temi scottanti del nostro tempo, ha fissato nell´immaginario popolare, figure simbolo come Serpico, ha creato personaggi indimenticabili, come quello di Al Pacino balordo in Quel pomeriggio di un giorno da cani o il presentatore tv incarnato da Peter Finch in Quinto potere.
Di che pasta fosse fatto Sidney Lumet lo si è capito fin dal suo film d´esordio, La parola ai giurati (1957), dove coniugava la sua formazione democratica alla sua esperienza televisiva per la CBS, e costruiva un film stretto addosso ai suoi personaggi, inequivocabile nelle cose da dire, esemplare come lezione civile e manifesto del suo stile. Che restava il suo stile anche in film meno vicini alle sue corde come Fascino del palcoscenico (1957) o Pelle di serpente (1959), per cui dirigerà Anna Magnani e Marlon Brando in un dramma di Tennessee Williams.
Dei suoi film "civili", quelli che meglio gli hanno consentito di mescolare la semplicità della forma con la passione dei temi, vanno ricordati A prova di errore (1963), sul rischio nucleare, L´uomo del banco dei pegni (1965), sul faticoso reinserimento nella normalità della vita dei superstiti dei campi di sterminio, Il gruppo (1965), da Mary Mcarthy. Ma i suoi grandi film sono quelli degli anni ´70, come Serpico (1973), ispirato a un personaggio reale e diventato l´antonomasia del poliziotto fuori dagli schemi, come Un pomeriggio di un giorno da cani (1975), con il suo cocktail di tragedia e di commedia, di messaggio sociale e di grande reportage ricostruito, o come il visionario e anticipatore Quinto potere (1976), scritto da Paddy Chayefsky, una impressionante, terrificante proiezione nella televisione e della società a venire che si è puntualmente realizzata.
E se Equus, dalla pièce di Peter Schaffer, è un film non riuscito, l´imponente Il principe della città (1981), claustrofobico e impegnativo, disegnava con estremo vigore e rigore il quadro di una polizia corrotta. Un film forte, come anche Il verdetto (1982), dove il vecchio avvocato Paul Newman si riscatta dall´alcoolismo con un gesto di orgoglio professionale, come Daniel (1983), la ricostruzione problematica e inquietante del caso Rosenberg e una implacabile rievocazione dell´America maccartista, come l´emozionante Vivere in fuga (1988), dove compare, commovente e duro, il giovane River Phoenix, figlio di una coppia di militanti di sinistra ricercati come terroristi dal FBI.
Tra esemplari riduzioni letterarie (Il lungo viaggio verso la notte, da O´Neill, 1962) e trascrizioni di classici della suspense (Assassinio sull´Orient Express, 1974), la filmografia di Sidney Lumet ha registrato anche qualche errore. Per esempio il remake di Gloria di Cassavetes – con il personaggio di Gloria affidato a Sharon Stone. Ma il suo standard, nei cinquanta e passa film di una lunga e ricca storia, è rimasto quello di un professionismo eccellente. Qualche volta ispirato. Di più: come avrebbe detto Cartier-Bresson, Sidney Lumet ha sempre tenuto sullo stesso asse l´occhio, l´intelligenza e il cuore. Riuscendo nel miracolo di fare un cinema popolare e pensante, forte e godibile, radicato nel presente e capace di analizzare il passato.

LA STAMPA
FULVIA CAPRARA
Icriminali più dei poliziotti, i poveracci più degli eroi, il disonore più della gloria. Sydney Lumet ha sempre pensato al cinema come strumento per risvegliare le coscienze, motore di riflessioni sulla morale, arma per mettere a nudo lo squallore della corruzione. Non era un idealista, sapeva bene che «l’arte non serve a cambiare le cose», eppure continuava a far film non per intrattenere ma «per cercare di spingere lo spettatore a porsi domande, a esaminare la realtà da diversi punti di vista, a muovere i pensieri». Americano, profondamente newyorkese, figlio dell’attore Baruch e della ballerina Eugenia Wermus, debuttante, a 4 anni, sul palcoscenico dell’Yiddish Art Theatre di New York, Lumet è stato protagonista, nel cuore degli Anni Settanta, con film celebri come Serpico , Quel pomeriggio di un giorno da cani eQuinto potere , di una stagione cinematografica particolarmente felice. Un’epoca, tuttora rimpianta, in cui contenuti e denuncia si radicavano perfettamente sui pilastri dell’industria hollywoodiana, fascino dei divi e capacità di intrattenimento.

Il debutto, nel ‘57, a 33 anni, è già un capolavoro, si chiama La parola ai giurati e ruota intorno alla maschera nobile di Henry Fonda, l’amico con cui Lumet girerà cinque film. Temi come il razzismo, la violazione dei diritti e civili e la necessità di osservare la realtà rifiutando i paraocchi dei pregiudizi sono trattati con ritmo incalzante da thriller e lo spettatore resta inchiodato a una storia che, sulla carta, sembrava ben poco attraente. Inizia, da quel momento, la pioggia dei riconoscimenti internazionali, premi ovunque, tranne quella maledetta statuetta, quell’Oscar alla carriera, su cui Lumet riuscì a mettere le mani solo nel 2005, a 80 anni: «La volevo, dannazione, e sentivo anche di meritarla». I tributi arrivavano invece puntualmente per i suoi attori, le stelle più fulgide del firmamento americano, a iniziare da Al Pacino che, in Quel pomeriggio di un giorno da cani , rivelò tutta la potenza del suo rabbioso talento: «I grandi interpreti recitano tirando fuori la loro anima, questo li rende speciali. Pacino lo faceva sempre, se aveva una scena in cui doveva perdere completamente il controllo di sè, era capace di restare in quello stato per un’intera giornata sul set. Per lui era un vera agonia».

Dopo Pacino vennero tutti gli altri, Marlon Brando (con Anna Magnani) in Pelle di serpente , Rod Steiger nell’ Uomo del banco dei pegni , Sean Connery nella Collina del disonore , Albert Finney nell’ Assassinio sull’Orient-Express , Paul Newman nel Verdetto . Da regista con esperienza televisiva, Lumet era convinto che gli attori dessero il meglio nelle prime battute e non alla fine di estenuanti ripetizioni di ciak: «Continuare a far ripetere le frasi del copione è come cercare di trattenere acqua che scorre via fra le dita». Con le attrici non era diverso, aveva diretto Sofia Loren nel ‘59 in Quel tipo di donna , Katharine Hepburn nel Lungo viaggio verso la notte , Jane Fonda nel Mattino dopo , Ingrid Bergman nell’ Assassinio sull’Orient-Express , Sharon Stone in Gloria e Faye Dunaway che, grazie al ruolo della produttrice televisiva senza scrupoli di Quinto potere , vinse l’Oscar insieme a Peter Finch. In una delle ultime interviste aveva detto che gli sarebbe piaciuto dirigere Angelina Jolie perchè la trovava di eccezionale bravura.

Fare film, per Lumet, era prima di tutto una gioia immensa, una felicità che, anche a 80 anni suonati, gli ha regalato una vitalità stupefacente: «Non so da dove viene la mia energia, sono solo grato di averla. E’ una questione di fortuna». Sugli ultimi set, con il fiuto di sempre, aveva diretto talenti giovani come Vin Diesel in Find me guilty sulla storia vera del processo Usa al clan mafioso dei Lucchese, tra il 1987 e il 1988. Alla Berlinale, dove il film era stato presentato in anteprima, aveva parlato del boss sotto accusa (che aveva conosciuto personalmente), Giacomo «Jackie Dee» Di Norscio, paragonandolo al presidente Bush: «Come lui, Bush è di una semplicità impressionante, non è un cinico, crede davvero
"OSCAR ALLA CARRIERA Riuscìa mettere le mani sulla statuetta solo nel 2005 «La volevo, dannazione"