Paolo Di Stefano, Corriere della Sera 10/4/2011, 10 aprile 2011
C ome tanti scrittori della sua generazione, Giorgio Manganelli prestò la sua consulenza a diversi editori, Mondadori, Feltrinelli, Garzanti, Adelphi, Einaudi
C ome tanti scrittori della sua generazione, Giorgio Manganelli prestò la sua consulenza a diversi editori, Mondadori, Feltrinelli, Garzanti, Adelphi, Einaudi. All’epoca in cui cominciò le sue collaborazioni editoriali, il quarantenne Manganelli insegnava lingua inglese negli istituti tecnici di Roma, dove era approdato nel ’ 53 dalla sua città, Milano, scriveva per la Rai, aveva già tradotto numerose opere di letteratura inglese e la sua opera prima, Hilarotragoedia, sarebbe uscita solo due anni dopo da Feltrinelli. Ciò non toglie che avesse, nel suo laboratorio di scrittore, racconti, diari, poesie, schemi narrativi, scalette, appunti, abbozzi, saggi. Materiali rimasti inediti che si sarebbero moltiplicati negli anni e di cui ora Salvatore Silvano Nigro propone una corposa silloge in un volume intitolato Ti ucciderò, mia capitale (Adelphi), che raccoglie racconti elaborati tra il 1940 e il 1982. Nel ’ 69 ruppe Manganelli con la Feltrinelli e pubblicò il Nuovo commento per Einaudi, la casa editrice con cui già dal ’ 62 aveva avviato una consulenza che si sarebbe protratta per due decenni e che dal ’ 67 si sarebbe tradotta nella direzione, con Guido Davico Bonino ed Edoardo Sanguineti, della collana sperimentale «Ricerca letteraria» . Le schede editoriali einaudiane di Manganelli, conservate tra le carte dello Struzzo depositate nell’Archivio di Stato di Torino, sono innumerevoli, e danno un’idea degli interessi dello scrittore, dei suoi gusti letterari, della sua ironia, della sua intelligenza critica anche in chiave editoriale. Basta sfogliarne una sezione anche minima. Sin dalla lettera del 27 luglio 1965, quando scrive al caporedattore Daniele Ponchiroli probabilmente in risposta all’invio di una lusinghiera segnalazione giornalistica che lo riguardava: «mi dà la misura della mia vera Grandezza. Ignoro quale sia la rivista che in modo così surrettizio ha aumentato la sua tiratura, ma suppongo che quanto prima riceverò esagitate lettere di femmine scarmigliate, scritte in quell’inchiostro arterioso che io prediligo» . Siamo nel gennaio ’ 67 scrive a Davico alcune note su letture recenti in chiave di «Ricerca letteraria» . Non è entusiasta del romanzo Chi abita la villa di Elio Bartolini per la sua aria «intellettuale e fatiscente» : lo definisce «noiosetto, o forse soavemente tedioso, lievemente stucchevole» . Ciò che Manganelli non apprezza sono «quelle squisite rarefazioni dell’anima che, ad un certo momento, sfociano nella Poesia» . Sì, invece, a Sebastiano Vassalli, che proprio in quella collana esordirà con Narcisso nel ’ 68: «Non c’è dubbio che abbia un temperamento notevole» . E più in là: «Mi pare un testo spesso assai interessante, con trovate e avventure linguistiche quasi sempre eccitanti e talora felicissime (...). Penso che potremo presentarlo come l’umorista o l’umoresco della prosa sperimentale» . Manganelli ha gusti non prevedibili. Gli piace lo sperimentalismo linguistico, ma quando si trova di fronte ad Alberto Vigevani, insiste nel sostenerlo: «perché farcelo fregare? Il Vigevani è meno "prezioso"di una Ceresa o di un Ruffini, ma ha una fantasia densa, sghemba, tra seriosa e grottesca, per nulla "neoclassica", per usare il termine nella accezione sanguinetiana» . Un mese dopo, consiglia caldamente all’editor Paolo Fossati le lettere del poeta gallese Dylan Thomas. E la scheda va ben oltre una semplice recensione: «Non perdete un momento: per quel che mi riguarda (...), sono una cosa splendida, tra gli esempi più straordinari della prosa di un grande prosatore. La deliziosa confusione, quella libertà tra losca e infantile, il torpore alcolizzato, trovano una perfetta collocazione nella misura approssimativa, ineguale, infondata, della lettera. Dylan parla di quel che scrive, poi si distrae e discorre di dio e del diavolo, poi di quel che legge, del tempo che fa, dei suoi desideri, con una deliziosa, irrisolvibile smania, una inquietudine delicata e carezzevole» . Esige «traduttore di classe, che sappia correr dietro a questa prosa esplosiva, meteorica, piena di ottoni, di scattose batterie» . Consiglia lo scrittore J. Rodolfo Wilcock o Bruno Oddera, e sarà quest’ultimo a essere incaricato dell’impresa: Il ritratto del poeta attraverso le lettere uscirà nel 70. In quel giro di mesi, l’Einaudi sta progettando una serie colossale di classici italiani, a partire da Brunetto Latini. Sono Davico e Giulio Bollati che tengono le fila dell’operazione. Il «programmino» iniziale, che coinvolge oltre a Manganelli anche Sanguineti e Gian Carlo Roscioni, comprende ben 150 titoli contemperando, come scrive Davico, «l’inevitabile col peregrino» . Manganelli, cui l’elenco viene sottoposto («all’idea mi sdilinquisco, e già toscaneggio tutto» ), si stupisce che si concluda con Pascoli e non con Gozzano, che non vi sia nessun titolo di Leopardi (probabilmente per un errore di trascrizione), suggerisce le Istorie fiorentine di Machiavelli piuttosto che le opere letterarie, aggiunge le lettere di Michelangelo alle rime. Ma soprattutto: a Fulvio Testi preferisce Campanella o Tassoni, anche se meno «peregrino» , dichiara «grande affetto» per l’Eneide tradotta da Annibal Caro, «piange assenti» Ruzzante, Casti, Monti, Leone Ebreo, ovviamente Pinocchio, rimane «perplesso» di fronte al Mazzini critico letterario. Manganelli è consulente a (quasi) 360 gradi. Idee acute e chiare, mai banali, a volte caute, altre volte sferzanti. Quando gli viene chiesto un parere su una versione da Stevenson, annota che si tratta di un italiano «scorrevole, ma non stevensoniano, sfuggono i giochi (...) e soprattutto quella patina cerimoniale, il lieve, ironico arcaismo» . Ci scherza su: «Il principe e lo scudiero che "si scambiano sorrisini"(smiling to each other) suscita infondati sospetti sui loro costumi. Insomma, l’inadeguatezza, che è abbastanza costante, è nel tono, che in italiano viene di molto impoverito» . E poi c’è il versante della narrativa in lingua inglese. Su The Mimic Men di Naipaul, il futuro Premio Nobel di Trinidad, dà parere favorevole: «l’ho iniziato con riluttanza, ma l’ho letto con piacere, anche se castigato piacere, in grazia dello stile elegantemente decoroso, e per una curiosa miscela di modi europei e sottintesi variamente meticci (...). Non è un libro volgare, e credo che, senza furori, si possa prendere» . Non lascia scampo, invece, ad altri, che negli anni si sarebbero imposti alla grande. Non ama Mordecai Richler, il futuro autore di Barney: il suo St. Urban’s Horseman, in una lettera del novembre ’ 71, viene giudicato «spiritoso, scritto con acre e svelta eleganza, molto americano, spesso divertente, ma in modo forastico, alla fin fine — diciamo pagina 200 — comincia a suscitare impazienza. E poi va avanti altre 300 pagine. Non mi pare sia il caso di affrontare un macigno così fatto, anche se singolarmente intelligente» . L’ «aspra» Doris Lessing non la sopporta proprio: giudica le 700 pagine di The Four-Gated City «un aneddoto progressista e psicologico (...)» . E precisa: «La sua pagina sa di virtuosa varichina, i suoi periodi vanno in giro con le calze ciondoloni; e poi questa donna ha qualcosa da dire, e in meno di tremila pagine avrebbe l’impressione di essere rimasta un po’ sulle generali» . Qualche mese dopo, ritrovandosi a commentare un altro suo romanzo, non esita a dire che si tratta di scrittrice «ambiziosa, tra universale e cosmica, logorroica e sciattina, col tocco ben riconoscibile della grafomane» , il cui «bla bla affettuoso ed energetico (sui matti) si immerge in ardimentosi filosofemi» . Tuttavia ne consiglia l’acquisto perché «per la facile audacia, il suo tempismo culturale, la sua rudimentale spregiudicatezza può avere un pubblico» . Non si «sdilinquisce» neanche di fronte a Nadine Gordimer, ma non la getta via: «è una assai onesta scrittrice, sobria, sommessa ma non dimessa, di eleganza semplice e gentile. Non senza echi cechoviani e mansfieldiani, la Gordimer racconta brevi ed elusive storie, in cui i fatti espliciti sono rari, e dominano le allusioni, i sentimenti nascosti, le inquietudini segrete» . Manganelli parla di una «delicatezza che pende al sentimentale (...), che disarmama non affascina» . Conclusione: «Non è una grande scrittrice, a mio avviso, né una intelligenza o un occhio di singolare originalità: ma una narratrice decorosa e leggibile, non volgare, non fintamente complessa, misurata e non di rado sottile, anche dove il residuo di dolce che ci lascia in bocca ci mette sull’avviso» . Dunque, «pubblicabile senza disdoro, ma senza entusiasmi (...), ha certamente un pubblico, e non è un pubblico volgare, assolutamente» . Insomma, come dire: qui si ferma il giudizio critico, poi comincia quello del mercato. Siamo alla fine degli anni 60. Che occhio editoriale, Mr Manga!