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 2011  aprile 10 Domenica calendario

DAL NOSTRO INVIATO NEW YORK—

All’ «undicesima ora» i leader del Congresso e Obama sono riusciti a siglare l’accordo sul bilancio 2011: ancora sessanta minuti e sarebbe scattata la chiusura di tutte le attività della pubblica amministrazione non vitali per la sicurezza. Un colpo per l’economia e per gli americani che proprio nella stagione delle vacanze scolastiche di aprile avrebbero trovato parchi e musei chiusi. Salva, in extremis, anche la «festa della primavera» : mezzo milione di residenti e turisti che oggi a Washington celebreranno il «Cherry blossom festival» sulle rive lago del Jefferson Memorial, in una nuvola di ciliegi in fiore. Tutti parlano di accordo storico e stavolta l’aggettivo non viene usato a vanvera: l’intesa conta perché evita un evento traumatico che non si verificava da 15 anni. E si presenta come uno spartiacque anche per l’asprezza, i tempi e le modalità «adrenaliniche» che l’hanno caratterizzata: l’assalto dei radicali dei Tea Party all’establishment dei repubblicani, il loro partito, prima ancora che ai democratici; il leader conservatore John Boehner intrappolato tra due fuochi; una trattativa condotta con intransigente ostinazione fino ai suoi estremi limiti temporali, scandita dai ritmi delle tv all news: reti che hanno spettacolarizzato il dramma amministrativo scandendo il countdown su orologi che, ora dopo ora, diventavano sempre più grandi fino ad occupare l’intero schermo. Ma, soprattutto, l’accordo è storico per l’entità dei tagli: quasi 80 miliardi di dollari su base annua, 38,5 miliardi nel semestre scarso rimasto prima della conclusione dell’attuale esercizio di bilancio: il più grosso taglio della spesa pubblica mai realizzato nella storia americana su un anno fiscale già iniziato, come ha riconosciuto lo stesso Obama. Il presidente esce da questa prova politicamente ammaccato ma, paradossalmente, con un bilancio positivo, almeno dal punto di vista della pura tattica elettorale: lo shutdown dell ’ e c o n o m i a avrebbe depresso l’economia e, quindi, anche le possibilità di rielezione del presidente. Che invece — come si è già visto a Natale col compromesso sui tagli delle tasse, inviso alla sinistra liberal ma apprezzato da destra e indipendenti — in circostanze come questa vede salire i suoi indici di gradimento nell’elettorato di centro che sembra apprezzare il suo atteggiamento moderato, riflessivo e pragmatico. Il dato di fondo, però, è che i democratici hanno dovuto accettare tagli che avevano dichiarato che non avrebbero mai nemmeno preso in considerazione: 38 miliardi di dollari sono poca cosa nel mare dei 1400 miliardi del deficit 2011. Ma per eliminare una simile quantità di «spese vive» in meno di sei mesi sui capitoli di spesa «disponibili» (appena il 12%del totale, il resto sono erogazioni— dagli stipendi alle pensioni — obbligatorie per legge) dovranno essere praticati tagli dolorosi anche a programmi sociali sui quali Obama aveva messo la faccia. Certo, i repubblicani alla fine hanno dovuto fare un passo indietro su aborto e misure per la protezione ambientale: dopo essersi presentati come i «crociati» del rigore e della responsabilità fiscale non potevano paralizzare il governo su questioni etico-religiose. Ma con la battaglia dei tagli 2011— condotta sotto l’incalzare dei Tea Party, una minoranza che sta riuscendo a condizionare pesantemente la politica Usa — hanno cambiato il tono delle discussione su futuro dell’America. La piattaforma delle misure di solidarietà sociale e sostegno pubblico all’economia sulla quale Obama era stato eletto nel 2008 è in pezzi. E l’accordo di venerdì notte, per quanto «storico» , è solo un passaggio intermedio. La prossima scadenza arriverà il 2 maggio: se il Tesoro non viene autorizzato, entro quella data, ad aumentare il tetto dell’indebitamento pubblico, l’America rischierà l’insolvenza. I repubblicani resistono: alla fine si arriverà a un altro compromesso, ma con ulteriori concessioni democratiche sulla spesa. Poi toccherà al bilancio 2012, con sul tavolo la proposta choc di Paul Ryan: 4400 miliardi di dollari di riduzione del debito pubblico in dieci anni. Il capo della commissione bilancio della Camera vuole smontare il welfare americano e risanare il bilancio riducendo ancora le tasse dei ricchi. Il suo progetto è squilibrato e lacunoso, eppure da Paul Krugman a David Brooks, da Fareed Zakaria all’Economist, i commentatori in questi giorni discutono solo del «piano Ryan» . Conclusione prevalente: anche se ha molti punti deboli o inaccettabili, quello dell’esponente repubblicano è il primo tentativo di cercare strade concrete. E’ anche la prima volta che la politica ammette che quello che deve affrontare è un problema non di decine o centinaia ma di migliaia di miliardi di dollari. Obama, fin qui, aveva ammesso a parole la centralità del problema del debito pubblico, ma non fino al punto di entrare nel merito delle soluzioni concrete: «Questioni grosse devono discuterne in Congresso» . Dove i conservatori sembravano rigoristi solo nei comizi della campagna elettorale. Ma adesso che i repubblicani entrano nel merito, cambia tutto. Anche per il presidente. Massimo Gaggi