Giorgio Dell’Arti, La Stampa 9/4/2011, PAGINA 86, 9 aprile 2011
VITA DI CAVOUR - PUNTATA 89 - IL CONTE BOCCIATO
Quanta gente aveva diritto al voto, in definitiva?
Ottantamila persone. Un elettore ogni 62 abitanti. A mezzo tra le percentuali inglese e belga (uno ogni 30, e uno ogni 55) e quella francese del tempo di Luigi Filippo (uno ogni 145). Anche la sinistra giudicò la legge « assez large ».
E per l’elettorato passivo?
Non c’erano limiti. In teoria, gli ottantamila avrebbero potuto eleggere un qualunque contadino analfabeta. Non capitò mai.
Come si sceglievano i candidati?
Piccoli comitati elettorali. Riunioni di amici per sostenere o incoraggiare questo o quello. All’Agraria fondarono un club politico (presidente il cavalier Bertini).
Cavour?
Problemi. Il barone Enrico Vicario di Sant’Agabio lo invitò a presentarsi a Vercelli: «... Ragionando con molti del mio paese, che hanno con me comuni i pensieri e le speranze, che sono schiettamente liberali e sinceramente progressisti, ho osato di proporre il suo nome ...» eccetera. Cavour: « Le sono oltremodo riconoscente [...] appena pubblicata la legge io pensai a presentarmi qual candidato del collegio di Cigliano [nel vercellese, appunto - ndr], nel quale si trovano alcune nostre proprietà, ed ove ho molti amici e conoscenze personali. A parlare schiettamente io le confesserò ch’io riteneva la mia nomina quasi certa: ond’io non accettai l’invito che mi fecero in allora molti elettori di Torino di presentarmi in uno dei collegi della capitale. Ma io incontrai nel circondario di Cigliano molte influenze ostili, in ispecie nei comuni colle quali io aveva le più strette relazioni. Queste non prevedute difficoltà mi determinarono a dimettere il pensiero d’essere deputato vercellese, ed accettai le offerte di alcuni elettori delle Langhe che mi profferivano i loro voti [...] Mi trovo quindi, dopo aver abbandonato Cigliano, candidato a Monforte, senza essere tuttavia certo dell’esito della mia elezione. Alcuni Torinesi non hanno ancora deposto il pensiero di votare per me, ma io penso che i loro voti andrebbero perduti e perciò dovere invitare questi miei amici a votare in favore di un altro candidato che professi opinioni identiche alle mie ».
Facevano calcoli già allora. Quindi non ci si candidava così, semplicemente presentandosi?
Scrisse ancora Cavour il giorno dopo: « Venne deciso in una riunione elettorale composta dai miei amici politici, che i nostri voti nei collegi elettorali di Torino sarebbero concentrati sopra cinque persone, fra le quali non mi trovo annoverato ...». Facevano calcoli, certo. E trucchi. I democratici diedero a intendere fino all’ultimo che Stara, mazziniano eroe del ’33, molto popolare, avrebbe corso a Santhià. Così Cavour si presentò a Vercelli ignaro del pericolo, e all’ultimo momento se lo trovò di fronte. Tentò anche Cigliano, nonostante avesse ben percepito gli « elementi ostili ». A Monforte, nelle Langhe, c’era Sineo, il grande avvocato valeriano, col gozzo e la voce chioccia, però eloquente. A Torino, dove pure Cavour si presentò (5˚ collegio), correva per la firma, perché, come abbiamo visto, i liberali puntavano su altri.
Mi sta dicendo che non fu eletto?
Bocciato in tutti e quattro i collegi: Vercelli, Monforte, Cigliano e Torino. A Monforte fu un’umiliazione: 193 a 12 per Sineo.
Come si spiega?
Mah. Era impopolare. Quella spiata ai tempi dell’Agraria… il padre capo della polizia... « Ho molti acerbi nemici che non rifuggono né dalle diffamazioni, né dalle calunnie per nuocere alla mia carriera politica», «i nostri concittadini sono scusabilissimi [...] l’appartenere io ad una delle più antiche famiglie del patriziato è un titolo d’esclusione che nessun merito personale può vincere. Ho troppo conosciuto quali fossero le prevenzioni di casta, troppo sofferto, come soffro tuttora, delle ridicole pretese dei titolati, per rimanere irritato contro le pretenzioni, le pretese opposte delle classi popolane. Il non venire eletto deputato non scemerà in nulla la mia divozione per la causa della libertà e del progresso [...] Ma le recriminazioni in politica sono stoltezze», «O dura sorte! Solo fra i giornalisti mi trovo escluso dalla Camera. Il “Messaggiere”, la “Concordia”, l’“Opinione” faranno nel Parlamento bella mostra di sé. Ed il povero “Risorgimento”, tristo e confuso, se ne rimarrà racchiuso nella sua officina d’articoli. Che volete, è meglio soffrire disillusione al principio che alla fine della nostra carriera politica. Dopo avere molto faticato a pro dell’Associazione agraria o meglio ancora dell’agricoltura della patria, mi vidi posposto a chi? All’avvocato Daziani! che ha l’anima altrettanto vile, quanto ha brutte le sembianze. Che queste disgrazie elettorali mi abbiano afflitto, non lo nego. Fui assai addolorato, in ispecie, dall’ostilità ch’io scopersi negli abitanti dei vicini villaggii delle nostre risaie, e più ancora dai mancamenti di fede, dalle violate promesse, dagli inganni di alcuni vercellesi ch’io stimava [...]. Ma non sono rimasto atterrito. Tornato a Torino, ho dato di nuovo mano alla penna, e senza astio o livore ho ricominciati i miei lavori politici per compiere ad un debito di coscienza, assai più che per conciliarmi la benevolenza di un pubblico che non ne fa caso ».