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 2011  aprile 09 Sabato calendario

Un nuovo abito per Mediobanca - La pace regna a Trieste, le trattative non la guerra, che quella per ora non si annuncia - partono a Milano

Un nuovo abito per Mediobanca - La pace regna a Trieste, le trattative non la guerra, che quella per ora non si annuncia - partono a Milano. Sistemata la partita Generali, tocca infatti adesso a Mediobanca cambiare fisionomia. Almeno nelle intenzioni dei suoi manager - l’amministratore delegato Alberto Nagel e il presidente Renato Pagliaro - che si muovono in stretto contatto con l’Unicredit, primo socio di piazzetta Cuccia con l’8,7% del capitale, e che vorrebbero approfittare della nuova congiuntura astrale per spingere gli azionisti a un nuovo assetto. Quale? In sintesi un patto di sindacato un po’ più leggero di quello attuale che controlla il 44,34% delle azioni ordinarie, una governance interna rinnovata che non debba più rispondere in ogni suo passo alla tripartizione tra soci finanziari, industriali e stranieri, meccanismi decisionali più rapidi. E con quali conseguenze? Si pensa a una migliore prontezza operativa della banca, che del resto adesso gioca anche sui mercati internazionali, ma anche a un maggior respiro del titolo, un po’ meno stretto nelle mani dei soliti soci stabili. Insomma, con un azionariato più snello - è l’idea - si starebbe tutti meglio. Se si tratti solo di un libro dei sogni o di un progetto concreto possono essere solo i soci a deciderlo. Il patto di sindacato che coagula tutti i principali azionisti di Mediobanca - gruppo A, soggetti finanziari, gruppo B, industriali, e gruppo C, soci stranieri capitanati da quel Vincent Bolloré che in Generali si è trovato dalla parte opposta delle barricate rispetto a Nagel - scade il 31 dicembre di quest’anno, ma fino al termine di settembre possono arrivare le disdette. C’è qualcuno che vuole uscire? Probabilmente sì, anche se conferme ufficiali non arrivano. C’è l’ipotesi di Commerzbank, oggi con l’1,7% del capitale apportata all’accordo tra azionisti, che potrebbe facilmente non considerare più strategico. E una vendita appare possibile anche per Sal Oppenheim, la banca d’affari tedesca che ha un altro 1,7% nel patto e le cui attività, due anni fa, Nagel scelse di non acquistare. verso l’uscita dal patto potrebbero avviarsi anche alcuni dei tanti piccoli azionisti del gruppo B, quote spesso sotto lo 0,5% che potrebbero essere valutate diversamente da ogni singolo partecipante. Tra i soci stranieri, poi, non si hanno al momento segnali di un’uscita di Bolloré, che anzi ha un 5% sindacato ed è autorizzato a salire fino al 6%. E Groupama? I francesi delle assicurazioni che in Italia sono entrati in rotta di collisione con buona parte del sistema finanziario - leggasi proprio Mediobanca e Unicredit - quando si sono proposti come interessato cavaliere bianco del gruppo Ligresti, hanno l’1,8% nel patto. Al momento, vista anche la nuova fiammata d’interesse per FonSai - hanno chiesto all’Isvap di poter salire fino al 20% - non appare probabile che mollino la sedia nell’accordo di piazzetta Cuccia. Se uscite ci saranno, dunque, si tratterà di quote marginali, che potrebbero portare la quota complessiva sindacata un po’ sotto il 40%del capitale. Non un terremoto, dunque, piuttosto qualche scossa d’assestamento nel solco della lenta riduzione di peso del patto da sette anni a questa parte. Ma Nagel e Pagliaro avranno lo spazio di manovra per portare anche in casa loro quel modello manageriale - «eterodiretto», è l’ultimo commento al curaro di Cesare Geronzi - che sostengono di aver definitivamente instaurato a Trieste proprio con l’arrivo del nuovo presidente Galateri? A vantaggio dei manager c’è il rapporto più forte stretto con Unicredit. Non solo con l’italica figura di Fabrizio Palenzona, ma anche con il germanofono Dieter Rampl, in queste settimane in costante contatto - e sintonia - con Nagel. Non a caso adesso Rampl dice in un’intervista che «dovremo fare qualche discussione sul funzionamento della governance del patto». A svantaggio dei manager potrebbero pesare invece eventuali fronde interne messe in atto dai nomi dell’azionariato e del consiglio già ampiamente circolati e collegati in un modo o nell’altro a Silvio Berlusconi: dalla di lui figlia Marina, che rappresenta l’1% di Fininvest, a Bolloré e Tarak Ben Ammar, a Ennio Doris che sta nel gruppo A con poco più del 3%. «Non credo proprio - risponde però Diego Della Valle, motore della rivolta antigeronziana e anche lui pattista di piazzetta Cuccia - a chi gli chiede se ci saranno ricadute su Mediobanca. L’istituto - dice - «fa il suo mestiere e ha ottimi manager». Di sicuro in Mediobanca e dintorni ci si preoccupa oggi anche di depurare da qualsiasi significato politico la defenestrazione di Geronzi. C’è chi vede nella mossa una potenziale sponda all’ancora ipotetica discesa in campo di Luca Montezemolo? Al contrario, spiega uno dei consiglieri Generali che ha preparato nei giorni scorsi il blitz, «proprio le dichiarazioni di Montezemolo dopo un lungo periodo di silenzio, sono state uno dei motivi che ci hanno spinto ad agire in fretta. Non volevamo che la nostra mossa potesse essere collegata in alcun modo, e strumentalmente, con gli eventi della politica».