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 2011  aprile 08 Venerdì calendario

Il vino italiano vola con cinesi e brasiliani - Il futuro è nei Bric. Non è una nuova confezione per il vino, ma l’acronimo delle quattro potenze emergenti Brasile, Russia, India, Cina che stanno diventando strategiche per le esportazioni enologiche italiane, balzate nel 2010 a 22 milioni di ettolitri, con un incremento dell’11%

Il vino italiano vola con cinesi e brasiliani - Il futuro è nei Bric. Non è una nuova confezione per il vino, ma l’acronimo delle quattro potenze emergenti Brasile, Russia, India, Cina che stanno diventando strategiche per le esportazioni enologiche italiane, balzate nel 2010 a 22 milioni di ettolitri, con un incremento dell’11%. Un aumento dopo la frenata del 2009 che compensa il calo dei consumi interni. Il mercato vale complessivamente 13,5 miliardi di euro, con 1,2 milioni di addetti, indotto compreso. Le vigne nelle venti regioni italiane coprono circa 700 mila ettari, con una forte contrazione rispetto al passato, ma è cresciuta la superficie media delle aziende che ora arrivano a tre ettari. Fazzoletti di terra rispetto alle grandi estensioni australiane, argentine o californiane, ma «piccolo è bello e anche buono» se collegato alla tipicità territoriale, che si traduce in Italia in 363 denominazioni di origine. Le bottiglie made in Italy esportate valgono sulla bilancia commerciale quasi 4 miliardi di euro e innalzano il vino a maggior voce attiva del comparto agroalimentare. Lo confermano i dati rimbalzati ieri all’apertura del Vinitaly di Verona. L’inaugurazione della grande rassegna internazionale, turbata da voci di una partita di Prosecco taroccato, è stata affidata al neo ministro dell’Agricoltura Saverio Romano e al governatore del Veneto Luca Zaia che è stato ai vertici del dicastero, prima della parentesi Galan. Il terzo cambio di poltrona in questa legislatura è stato accettato senza entusiasmo dal mondo del vino: «Non si fa in tempo a prendere confidenza con uno che già te l’hanno cambiato» ha scritto Lucio Mastroberardino, presidente dell’Unione italiana vini (l’organizzazione imprenditoriale del settore, collegata alla Confindustria). Ma al di là dei giri di valzer di ministri e funzionari contano le cifre, e qui tornano in primo piano i paesi Bric: se sono cresciuti i mercati tradizionali come la Germania (16,3%) e gli Stati Uniti (14,4%) è soprattutto in Russia (+ 69%), Brasile (+54%) e Cina (+145%) che il vino italiano conquista palati. Il dato percentuale un po’ inganna, ma la sostanza è che l’Italia del vino dimostra una straordinaria capacità di essere presente sugli scaffali dei supermercati e nei ristoranti di tutto il mondo. E l’India? Ancora un piccolo mercato, ma è significativo che Nuova Delhi abbia chiesto l’adesione all’Oiv (Organizzazione internazionale vite e del vino) che raggruppa i 44 paesi maggiori produttori di uva. Ma che vino si beve nel mondo e quali sono le tendenze? Nel gran circo del Vinitaly i pareri non sono mai concordi, ma il trend è chiaro: sono passati gli anni dei vini «muscolosi», fortemente strutturati, con importante base alcolica. Emergono vini più leggeri, freschi, profumati. Una scelta spinta anche dalla paura dell’etilometro e dalla ricerca di vini ecologicamente corretti. Un dato non cambia: «Le versatilità dei nostri vitigni autoctoni – commenta Donato Lanati, uno dei guru più ascoltati dell’enologia nazionale, che oggi presenterà una serie di nuovi vini del Monferrato, a base barbera, grignolino e freisa – consente di ottenere in cantina sia prodotti più adatti all’invecchiamento che bottiglie più pronte al mercato». Cresce il comparto dei vini under 12, con un tenore alcolico sotto i dodici gradi e in qualche caso si arriva a 11 come nel Già di Fontanafredda. Oscar Farinetti, che ieri a Verona ha presentato la sua traversata atlantica nel nome del Barolo a bordo di una barca a vela condotta da Giovanni Soldini, non sottovaluta i vini leggeri: «Visto il successo del Già figlio di uve barbera, dolcetto e nebbiolo vinificati e poi dealcolizzate proporremo il prossimo anno anche un Già bianco figlio di uve friulane». Vino più leggero anche alla Cantina sociale di Vinchio e Vaglio, celebre per la sua Barbera d’Asti selezione Vigne vecchie. Ora l’enologo Giuliano Noè ha fatto nascere Arengo che si ferma a 12 gradi «naturali» ed è pronto a pochi mesi dalla vendemmia. E al Vinitaly in questi tempi di bombe e raid è accolto come una mascotte anche un vino della Bosnia Erzegovina, figlio delle vigne ripiantate dopo il conflitto nei Balcani del 1992. Lo propone il produttore umbro Arnaldo Caprai, il re del Sagrantino, che ospita nello stand i produttori bosniaci. Una goccia nel mare del vino mondiale, ma una goccia che ha il sapore inconfondibile della pace. SERGIO MIRAVALLE *** “Addio cabernet e merlot Meglio i vitigni nostrani” - Ma vi conoscete? «Conosco suo papà», dice Raffaella Bologna davanti alla bottiglia di Monella 2010 che compie 50 anni. «Io invece - ribatte Giuseppe Vajra di Barolo, 24 anni - conosco tuo marito Norbert, che incontro spesso in giro per il mondo». Nel frattempo arriva Sebastiano di Marsala, 33 anni, figlio di Marco De Bartoli, che ha una simpatia per una produttrice di Barolo (e sembra fatta apposta per suggellare l’Unità d’Italia). E’ il quadretto che ho vissuto ieri mattina allo scoccare d’apertura di Vinitaly. Nei discorsi ufficiali non c’è traccia, eppure questo è il Vinitaly di una seconda generazione - dopo quella degli Anni Novanta - che sta portando vento nuovo in Enolandia. E se l’export ha segnato un’impennata per l’Italia in questi anni critici, lo si deve alla mentalità di giovani non più piegati su «mogli e buoi dei paesi tuoi». Ma cittadini del mondo, che hanno abbracciato la globalizzazione come criterio di confine. Eppure, paradossalmente, sono quelli che più insistono sull’identità nostrana. Giuseppe Martelli, presidente degli enologi italiani, dice che l’Italia all’estero vince perché l’offerta dei nostri vini è ampia e non fossilizzata solo sui vitigni che ci sono in tutto il mondo. Gli stessi che questi giovani hanno riscoperto, rimandando al mittente quelle analisi per cui ci si doveva accodare ovunque a piantare merlot e cabernet. I fratelli Domenico, Francesco e Michele Zonin, figli di Gianni, trentenni, fin da piccoli hanno imparato a girare il mondo. Domenico è rimasto folgorato dal Bordeaux, da cui ha imparato a ragionare in grande, mentre Francesco, laureato in economia, prende 15 aerei al mese, conosce tre lingue e, se gli chiedi su cosa è diverso da suo padre, risponde: «Dal polso del mercato: la nostra idea è più ampia». Gli Zonin, ieri sera, hanno festeggiato 190 anni di viticoltori a Gambellara, ma oggi per Francesco non si potrebbe fare a meno, nel marketing del vino, dei «focus group» e delle indagini sui consumatori in tutto il mondo: «E’ un approccio più moderno – dicono Francesco e Domenico - ma sempre con uno sguardo al passato». Se poi gli chiedi se la crisi fa paura, ti rispondono che «in famiglia abbiamo imparato che è inutile aver paura; in fondo rapp r e s e n t i a m o una fetta di mercato per cui si può cercar gloria ovunque». Ad esempio in Cina, che - dice Giuseppe Vajra, fidanzato con Sophie, di origine olandese che si è appena laureata a Pollenzo in Scienze Gastronomiche - «è come una prateria vergine, come una promessa che sta per svilupparsi». La pensa allo stesso modo Angelica Adami di Cà Pigneto di Negrar che produce l’Amarone: «In Cina amano il nostro vino, ma soprattutto lo vogliono nelle grandi bottiglie, in magnum». Mondi nuovi, come il recente apprezzamento dei consumatori brasiliani che, ricorda il marito Nicolò Godi, ortopedico, si sono avvicinati con le Olimpiadi ed ora non rinunciano più al vino italiano. L’orizzonte è dunque il mondo, ma con uno sguardo sempre fisso agli Stati Uniti. «Lì non hanno i pregiudizi sul consumo del vino che abbiamo noi – dice ancora Vajra, che fa 10 viaggi l’anno all’estero – c’è molta passione e freschezza». Per Eleonora della Barale di Barolo, 29 anni 6 viaggi l’anno all’estero e 4 lingue, è interessante anche la Scandinavia: «Vogliono i vini corposi, e impazziscono per il Barolo», mentre il fidanzato Sebastiano è certo che il mercato che continua ad amare il Marsala rimane quello inglese. Verso sera, dopo questa inebriante ventata di freschezza, penso che con questi giovani la tradizione è viva e salva. Poi, uscendo da uno dei padiglioni della fiera, su una parete bianca leggo una frase di Peter Drucker: «Il modo migliore per predire il futuro è crearlo». E’ proprio quello che stanno facendo ora. PAOLO MASSOBRIO