Federico Rendina, Il Sole 24 Ore 9/4/2011, 9 aprile 2011
TASSA ATOMICA SULLE AZIENDE
Prigionieri del nucleare: lo abbiamo abbandonato 25 anni fa, continuiamo a pagare i costi delle vecchie strutture che non riusciamo a smantellare, promettiamo un rinascimento con le nuove centrali di terza generazione che però tornano nel cassetto un po’ per l’incapacità di dare forma al progetto e un po’ per i timori aggiuntivi che ci vengono dai disastri giapponesi.
Timidi più di chiunque altro in Europa e nel mondo nell’uso del carbone, da sempre economico e oggi, grazie alla scienza, persino pulito. Schiavi, in tutto ciò, del gas metano, la fonte egemone del nostro fabbisogno energetico. Ormai lo importiamo quasi per intero. Incapaci di usare i nostri (consistenti) giacimenti.
Ed ecco la sciocchezza nella sciocchezza: potremmo, grazie alla nostra posizione geografica, trasformarci perlomeno in un lucroso hub metanifero per tutto il continente europeo, crocevia per i vecchi e nuovi gasdotti che arrivano dal Nordafrica e dall’Est, attutendo almeno un po’ i nostri costi globali dell’energia. Ma non riusciamo a fare neanche questo.
Le rinnovabili? Il futuro, più o meno lontano. Corriamo con gli incentivi. Troppo, per le nostre già carissime bollette, che devono sopportarne gli oneri. Corriamo male, visto che gli apparati, dai pannelli agli strumenti di controllo, li facciamo arrivare quasi tutti dall’estero. Senza riuscire a creare, come ha fatto la Germania, una vera filiera industriale nazionale.
Ecco a voi l’Italia della sovrattassa da insipienza energetica. Che punisce tutti. Una sanguisuga di cui farebbero volentieri a meno le famiglie. Una mortificazione, non una sola, per il tessuto delle imprese costrette a fare i conti con un tributo spesso intollerabile alla competitività.
La radiografia tecnico-economica di tutto ciò, che Il Sole 24 Ore ha aggiornato con la collaborazione di Nomisma Energia, ha contorni sconfortanti. Ma fortunatamente contiene anche buoni stimoli per invertire la tendenza, per recuperare. Per cambiare passo.
Le ultime medie ponderate ci dicono che la nostra industria paga un’elettricità da record europeo: 0,12 euro per chilowattora per consumi compresi tra due e 20 gigawattora l’anno. Ci battono solo a Cipro (0,14 euro/kWh), a fronte di una media Ue 27 di 0,09.
Molto più giù, con 0,10 euro, è la Germania, che con il nucleare e il carbone è riuscita a finanziare i poderosi incentivi pubblici dedicati negli scorsi anni alle energie rinnovabili. E lo ha fatto nella maniera giusta. Tant’è che è riuscita a creare una vera filiera industriale.
Solo un po’ meno sfavorevole, nel confronto europeo, la situazione per le famiglie italiane. Con 0,2 euro a chilowattora per i consumi tra 2.500 e 5.000 kWh l’anno, siamo al quinto posto tra i più cari dopo Danimarca, Germania, Belgio e Norvegia, rispetto a una media europea di poco meno di 0,17 euro a chilowattora.
Ma non siamo ai vertici del salasso, nelle case degli italiani, solo grazie al sistema di sovvenzioni incrociate che garantiscono a tutti una tariffa sociale (nella maggior parte dei casi palesemente iniqua) per i consumi più bassi. Uno sconto che però ha tutte le fattezze del sussidio da partita di giro, visto che è finanziato con ulteriori sovracosti per le fasce di consumo più alte.
Mali da egemonia dal gas, poco carbone e zero nucleare? Sicuramente sì, anche se qualcosa va ancora addebitato alla non completa creazione di uno scenario concorrenziale tra imprese energetiche. Emblematico, oltre al caso della Germania che finanzia le rinnovabili con l’atomo e il carbone, quello della Francia.
Con il pieno ammortamento del vecchio nucleare, che ora copre ben l’86% della richiesta elettrica nazionale, i cugini d’oltralpe garantiscono alle loro imprese il kilowatt a 0,07 euro. Nucleare già antico e ampiamente riassorbito sul fronte degli investimenti, naturalmente.
Ben altra cosa, va detto, rispetto alle incognite anche economiche di una ricostruzione dell’energia atomica da zero, per chi come noi ha affrettatamente abbandonato il buon nucleare che avevamo prima del referendum post-Chernobyl del 1987.
«Se in passato - commenta Davide Tabarelli, presidente di Nomisma Energia - avessimo diversificato maggiormente sul nucleare e sul carbone, come Francia, Germania e Inghilterra, avremo tariffe elettriche inferiori in media di almeno 3 centesimi di euro a chilowattora, che moltiplicato per 330 miliardi di kWh di consumo annuo determinano oggi un maggiore costo di quasi 10 miliardi l’anno spalmato sulle imprese e sulle famiglie». Ecco perché, tra l’altro, «gli aumenti per finanziare le rinnovabili da noi sono così difficili».
Penalizzazione nella penalizzazione: ci siamo resi schiavi come non mai degli idrocarburi, che importiamo oltre misura. Perché a guardar bene potremmo perlomeno attingere a quel che il nostro territorio potrebbe direttamente darci. Ma non lo facciamo.
Siamo il Paese che più dipende dai consumi di petrolio e gas in Europa. Importiamo sempre di più, in quantità e in percentuale rispetto alle risorse nazionali. Che non riusciamo, o non vogliamo, sfruttare.
Ed ecco che la produzione di gas nostrano sta inesorabilmente scendendo verso i 7 miliardi di metri cubi l’anno, contro consumi in crescita (di nuovo, dopo la contrazione determinata dalla crisi globale) oltre gli 80 miliardi.
La produzione potenziale di gas tutto italiano potrebbe essere di almeno 20 miliardi di metri cubi l’anno, un quarto dei consumi e oltre. La produzione di petrolio è ferma a 5 milioni di tonnellate l’anno, a fronte di consumi superiori ai 70 milioni di tonnellate.
Anche qui la produzione potrebbe per lo meno raddoppiare, grazie soprattutto al più grande giacimento di petrolio in Europa, quello che abbiamo proprio noi in Basilicata.
Lo sblocco? Ci si è provato. Ci si sta provando per l’ennesima volta in questi giorni con un nuovo decreto che ricalibra i controlli e le verifiche geologiche e ambientali a fronte di un teorico allentamento dei divieti assoluti. E intanto rimangono nel pantano piani d’investimento per oltre 5 miliardi di euro.