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 2011  aprile 09 Sabato calendario

TUTTI I MIRAGGI DELLE ECONOMIE ARABE

Il miraggio di una Libya Felix, per il Fondo monetario, non è poi così lontano nel tempo. «I componenti del consiglio del Fondo si congratulano per la buona performance macroeconomica della Libia e il progresso nel rafforzare il ruolo del settore privato»: questo, testuali parole, è il rapporto pubblicato il 15 febbraio 2011. Dopo un paio di settimane il lungimirante regime di Gheddafi descritto si è trovato i caccia occidentali su Tripoli.

Gli stessi complimenti, neppure attenuati, erano stati riservati un anno prima alla Tunisia di Ben Alì, il Paese da dove fuggono a migliaia verso Lampedusa proprio per lo stato disastroso dell’economia reale, con salari venti volte inferiori a quelli praticati in Europa.

L’idea di un’economia araba in buona salute, così ben espressa nei rapporti internazionali, si rivela sempre più falsa. In Tunisia come in Egitto: qui i salari medi sono di 400-500 sterline egiziane, circa 60 euro, molto al di sotto della soglia di sopravvivenza di una famiglia, circa 1.200 sterline, 150 euro.

Le previsioni sbagliate non devono stupire: gli ex funzionari di Fmi e Banca Mondiale sono stati cooptati da regimi che volevano darsi una facciata di credibilità. Hanno così contribuito a riforme clamorosamente fallite, alle liberalizzazioni mascherate per favorire i gruppi al potere, a un impoverimento sociale generalizzato: queste, oltre alle rivendicazioni democratiche, sono le cause economiche della rivolta araba.

Non è una storia cominciata oggi, l’abbiamo già raccontata alla fine degli anni 80 quando crollavano gli esperimenti socialnazionali del partito unico, il Baath in Iraq o il Fronte di liberazione nazionale in Algeria. In quel periodo il partito unico dei vari raìs, da Assad in Siria a Mubarak in Egitto, invece di scomparire mutò pelle e si diede un’ingannevole verniciata di capitalismo, sotto la calda ala protettiva delle famiglie al potere.

L’obiettivo non era un liberismo autentico ma al contrario mantenere uno stretto controllo politico ed economico sulla società, ampliando il ventaglio dei mezzi a disposizione dei servizi di sicurezza. Non è certo un caso che i veri decisori in Egitto, Siria, Algeria, siano i generali dell’esercito o del Mukhabarat, i servizi segreti.

Bashar Assad è tenuto in piedi dagli ufficiali messi intorno a lui dal padre, promette riforme senza mai attuarne una perché il sistema non tollera mutamenti. Omar Suleiman, capo dei servizi egiziani, l’unico che Mubarak si decide a nominare suo vice quando ormai è troppo tardi, aveva il compito di sorvegliare e regolamentare anche i flussi della corruzione negli affari. In Algeria, come è noto, non esiste un vero commercio estero o interno, ma ci sono i generali del gas, quelli del petrolio, della farina o delle telecomunicazioni: sono loro che distribuiscono appalti e relative tangenti. Il presidente Bouteflika lascia fare, altrimenti viene sbalzato di sella.

È questo sistema che è stato scosso dalle rivolte in Nordafrica, mettendo in tensione anche le monarchie nel Golfo, in Marocco o in Giordania, che considerano i loro Paesi proprietà privata della Corona. Non è un modo di dire: in Marocco l’affabile e modernista Mohammed VI, in una nazione con salari medi sotto i 200 euro, è proprietario dell’80% delle terre arabili e controlla con la holding Ona, molto più del 50% di tutta l’economia, banche comprese.

Basteranno le promesse di riforme costituzionali ad accontentare i sudditi? È vero che come "comandante dei credenti" e discendente del Profeta il sovrano marocchino non è detestato come Ben Alì e Mubarak, ma secondo “Forbes” la sua ricchezza personale tra il 2000 e il 2009 si è quintuplicata: è il più grande imprenditore del Paese e si è auto-esentato dalle tasse fino al 2014. Mohammed VI non è l’unico a non amare il fisco. In Egitto Mubarak varò tempo fa l’aliquota fiscale unica del 20% sopra i 15mila euro di reddito: un vero paradiso per miliardari, poco apprezzato dai miserabili fellahin del delta del Nilo.

In questi anni non è stato importante attuare vere riforme, ma farlo credere all’Occidente e alle sue miopi istituzioni. La Libia di Gheddafi è un esempio perfetto di complicità tra un dittatore e il nostro capitalismo. Certificata dal Fondo monetario e aggravata dal fatto che il Colonnello ha realizzato una sorta di "beduinocrazia", che si distingue per l’assenza dello Stato con funzioni delegate secondo logiche tribali e di relazioni personali con il leader. Quando si parla di petrolio libico si citano Eni e Total, trascurando però che delle 15 maggiori concessioni petrolifere 11 sono state assegnate a società americane, e Gheddafi negli Usa ha investito 33 miliardi di dollari.

I regimi ancora in piedi adesso corrono ai ripari, aumentano gli stipendi pubblici e stanziano sovvenzioni ai poveri perché la disoccupazione corre a due cifre e due terzi degli occupati hanno lavori "informali" o precari. Ma in realtà è lo Stato da ricostruire, con l’abolizione dei monopoli e delle rendite della manomorta del potere per una vera liberalizzazione del sistema: finora nel mondo arabo c’è stata una grande rivolta, non ancora delle rivoluzioni, che forse come scrive Orwell, «sono destinate tutte a fallire anche se in maniera diversa».