Joel Johnson, Wired aprile 2011, 8 aprile 2011
GADGET SENZ’ANIMA
Il fatto è che è difficile tenere lo sguardo lontano da quelle reti. Sono intorno a ogni edificio. Ce ne sono ovunque, a sei metri di altezza sopra le teste di chi cammina sul marciapiede. Le hanno messe in maggio, dopo che in un anno sono morte 11 persone, tutte saltate giù dalle finestre o dai tetti. Queste reti spiegano chiaramente una cosa: vi potete ammazzare dove volete, ma non qui. E a quanto pare funzionano. Da quando le hanno montate, il tasso di suicidi si è nettamente ridotto. La mia guida non accenna alle reti, finché non lo faccio io. I suicidi sono il motivo per il quale sono venuto fino a qui, a Shenzhen, fiorente città industriale della Cina meridionale. Sono qui per visitare lo stabilimento Foxconn, il più grande datore di lavoro privato della Cina continentale, il colosso che sforna molti dei prodotti – schede madri, componenti di apparecchi fotografici, lettori mp3 – che generano quel mercato mondiale da 150 miliardi di dollari che è l’elettronica. Foxconn da sola è responsabile quasi del 40% di quel giro d’affari. Nel complesso, l’azienda ha circa un milione di dipendenti, la metà dei quali lavora nello stabilimento di Shenzhen, aperto 20 anni fa. Fino a pochi anni fa, però, il mondo non aveva mai sentito parlare di Foxconn. Con i suicidi è cambiato tutto. Soprattutto con l’ondata di nove persone che, tra marzo e maggio 2010, si sono lanciate nel vuoto. Negli ultimi cinque anni sono stati 17 gli operai della Foxconn che si sono tolti la vita. All’inizio pareva una serie di incidenti isolati, poi si è notato un trend spaventoso. Uno dei “saltatori” ha lasciato un biglietto nel quale spiegava di aver deciso di ammazzarsi per il bene della famiglia, così l’azienda ha eliminato il programma di risarcimento per i congiunti delle vittime. Per alcuni, i suicidi Foxconn sono una conseguenza sciagurata della fame di prodotti elettronici a basso costo. Inchieste condotte all’interno delle fabbriche hanno denunciato condizioni di pesante sfruttamento; si è tornati a parlare di straordinari forzati.
Foxconn e i suoi partner – specialmente Apple – si sono trovati a dover difendere le condizioni delle fabbriche mentre cercavano una spiegazione per quelle morti. Oggi io sono qui per testimoniare gli sforzi di controllare il fenomeno: due dirigenti Foxconn mi accompagnano a visitare lo stabilimento e con loro c’è un responsabile di Burson-Marsteller, la società di pubbliche relazioni incaricata di gestire lo scandalo dei suicidi. Ho dedicato buona parte della mia carriera a bloggare di gadget elettronici, su siti come BoingBoing e Gizmodo, recensendo e spesso tessendo le lodi di aggeggi prodotti proprio qui, in questa fabbrica. All’inizio avevo ignorato questi suicidi, che mi erano sembrati una faccenda triste ma statisticamente inevitabile. Ma quando il loro numero si è avvicinato alle due cifre, ho cominciato ad avvertire un vago senso di colpa. Certo, 17 suicidi su un milione di persone non sono poi così tanti (gli studenti dei college americani si ammazzano quattro volte tanto), eppure mi sentivo oppresso daun enorme rimorso: il rimorso esistenziale del consumista. E ora sono qui perché voglio una risposta alla domanda: il mio iPhone ha ucciso 17 persone?
I miei ospiti sono ansiosi di dimostrarmi che la risposta è “no”, quindi sottolineano la piacevolezza della vita in fabbrica. Stabiliscono subito analogie con i grandi college americani: le mense sembrano quelle di un campus. E gli appartamenti dei lavoratori, dove capita che otto operai condividano una stanza grande quanto un garage a due posti, sono «come i dormitori di un college». I viali nelle parti meno industriali del campus sono «come zone per il passeggio».
Le mie guide sono chiaramente sulla difensiva, ma non è che stiano raccontando delle gran bugie. È tutto leggermente malandato, il posto non assomiglia esattamente a un’università privata prestigiosa, ma c’è una certa pulizia. Gli operai passeggiano chiacchierando e ridendo, o fumano sotto gli alberi, tranquilli come un qualunque gruppo di operai del mondo occidentale. Il paragone con il campus universitario, però, crolla di fronte alla vastità del luogo: lo stabilimento sembra un piccolo stato autonomo dentro un complesso cintato esteso su 2,5 chilometri quadrati di terreno, e separato dagli altri edifici di Shenzhen da reti metalliche e muri di cemento. Ospita una delle più grandi cucine industriali dell’Asia, e probabilmente del mondo.
Shenzhen si è sviluppata negli ultimi trent’anni come una delle “Zone economiche speciali” individuate da Deng Xiaoping (leader cinese de facto dal 1978 al 1992), una sorta di hot spot capitalistici che si sono rivelati esperimenti di gigantesco successo. Milioni di lavoratori hanno scommesso sulla possibilità di riuscire a trovare un impiego qui e hanno abbandonato le province occidentali, rurali e povere, per trasferirsi nei casermoni spuntati come funghi a Shenzhen. Il lavoro in fabbrica offriva l’opportunità di cambiare le loro vite e quelle dei loro familiari rimasti a casa, ma offriva poco in termini di sicurezza. Molte aziende non fornivano un alloggio, costringendo i lavoratori a trovare rifugio in quartieracci poco raccomandabili, o incoraggiandoli addirittura a dormire in catena di montaggio. E quando fornivano un tetto, di solito era solo uno stanzone stipato di cuccette.
L’epica aziendale racconta che Terry Gou, fondatore di Foxconn, fosse intenzionato a fare le cose in maniera diversa. Quando l’azienda costruì rimpianto di Longhua a Shenzhen, dunque, lo fornì di dormitori interni, locali pensati per essere più confortevoli di quelli che i lavoratori avrebbero potuto permettersi cercandoli da soli fuori. Mi dicono che Terry Gou ha fatto costruire gli alloggi nel campus perché ci teneva al benessere dei suoi dipendenti. E così hanno tirato su una fabbrica, e insieme un dormitorio. Una catena di montaggio, e contemporaneamente una mensa. Suona come magnanimità pura. Almeno fino a quando qualcuno non si mette in piedi al bordo di un tetto, guarda il campus pieno di alberi e piscine e caffè, e poi salta nel vuoto.
In quella parte di cervello in cui noi occidentali elaboriamo l’immagine archetipica di una fabbrica asiatica, lottano due visioni opposte: da una parte ci raffiguriamo distese fluorescenti di macchine pigolanti, sorvegliate da tecnici in camici immacolati, dall’altra operai scalzi chini su banconi di legno, in stanze soffocanti, invase dai fumi delle esalazioni chimiche. Quando acquistiamo un nuovo apparecchio elettronico, ci immaginiamo una fabbrica del primo tipo. La nostra piccola meraviglia fatta di vetro, metallo e plastica è la summa del progresso tecnologico; deve per forza essere stata prodotta da robot-operai con precisissimi mani a pinzetta o, in mancanza di questi, da esseri umani altamente qualificati. Quando, invece, pensiamo a una fabbrica cinese, immaginiamo una situazione del secondo tipo. Nel mondo occidentale nutriamo il doloroso sospetto che i prodotti acquistati in Cina, perfino quelli fabbricati per conto delle nostre aziende, ci arrivino grazie al sudore e al sangue di lavoratori sfruttati e oppressi.
Da quel che posso vedere, però, la realtà è più banale di quei due scenari immaginari. Ecco com’è lavorare nello stabilimento Foxconn: entri in un edificio di cemento di cinque o sei piani, ti metti un cappellino e un giubbotto di plastica e infili le soprascarpe. Risali uno scalone fino al piano cui sei stato assegnato, uno spazio aperto illuminato da una luce fluorescente e costante. Probabilmente il tuo lavoro ti impone di stare seduto o in piedi, fermo, per la maggior parte del turno. Forse devi afferrare dei componenti che si trovano in un bidone e inserirli nei circuiti stampati che viaggiano lungo il nastro trasportatore. Oppure badare a una macchina, rifornendola di un nastro che contiene minuscoli microprocessori. O, ancora, essere seduto a un bancone insieme ad altri tecnici, a sistemare i circuiti dei telefonini all’interno di scatole foderate di piombo, simili a minuscole fornaci, testando l’interferenza magnetica di ogni pezzo.
Se devi andare in bagno, alzi la mano e aspetti che qualcuno venga a prendere il tuo posto alla catena. Hai un’ora per il pranzo e due pause da dieci minuti. I ruoli vengono scambiati dopo un certo numero di giorni, in modo da avere un addestramento completo. Sembra incredibilmente noioso. Come il lavoro in fabbrica in qualunque parte del mondo sviluppato. Dopo una decina di ore – dipende dagli straordinari – torni in dormitorio a piedi o con una navetta, e lì condividi una stanza con un massimo di altri sette dipendenti che la direzione di Foxconn ha scelto per te. Guardi la televisione in una sala comune, seduto su una panca, su uno schermo ad alta definizione ridicolmente piccolo se confrontato con gli esemplari giganteschi che tu e i tuoi colleghi producete ogni giorno. Oppure giochi ai videogame o controlli la posta elettronica nei cybercaffè del complesso, magari dividendo una postazione semiprivata “per coppie” con la tua ragazza o il tuo ragazzo. Al mattino ti dai una lavata nei bagni comuni, o fai la doccia in dormitorio, poi torni alla linea produttiva per ricominciare tutto daccapo.
Nel 2006 un’inchiesta del giornale inglese The Mail on Sunday ha accusato Foxconn di costringere gli operai a turni lunghissimi, per raggiungere quote di produzione improbabili. L’indagine ha spinto Apple a mandare dei controllori, che non hanno riscontrato casi di straordinari forzati, ma hanno rilevato come i dipendenti lavorassero «più di quanto consentito dal nostro Codice di Condotta», cioè oltre 60 ore alla settimana (da allora Apple ha continuato a fare queste verifiche ogni anno).
Nell’aprile 2010, il giornale cinese Southern Weekend ha spedito un giovane cronista a lavorare in incognito alla Foxconn, per un mese. È tornato con cupi racconti di disperazione. In ottobre un’indagine di Sacom, un gruppo per la difesa dei diritti dei lavoratori con base a Hong Kong, ha scoperto che gli operai dello stabilimento di Shenzhen lavoravano per 13 giorni di fila, 12 ore al giorno, per produrre la prima generazione di iPad. Foxconn ha negato, ribadendo il suo rispetto delle norme vigenti in Cina in materia di orari di lavoro e straordinari.
Il fatto che 17 operai si siano suicidati è una tragedia. Ma il tasso di suicidi nell’impianto di Shenzhen resta al di sotto delle medie nazionali cinesi, un dato triste ma inconfutabile, che contribuisce a discolpare Foxconn. Il lavoro in sé non è inumano; a meno che non si consideri inumano un lavoro ripetitivo, faticoso e alienante, sul quale non hai alcun controllo. Descrizione che calzerebbe anche al ruolo di un addetto agli hamburger in un qualsiasi fast food.
Il mercato di elettronica Seg è nel quartiere di Futian, sede della più vistosa concentrazione di prodotti dell’intera Shenzhen. Paul, la mia guida taiwanese, ha lavorato per gran parte dei dieci anni passati qui come assistente delle aziende di elettronica occidentali, aiutandole a procacciarsi componenti o merci presso uno delle migliaia di fornitori cittadini. Qui i prodotti di quei fornitori riempiono vetrine e pendono dagli attaccapanni, in ampi locali dai soffitti bassi, pieni zeppi di banchi di venditori. In altre zone di Shenzhen mercati del genere sono pieni di carabattole di bambù e di giacconi contraffatti; questo esplode di caricatori per iPhone, ovviamente taroccati. I negozi sono affollati, rumorosi, pieni di fumo di sigarette. Interi piani sono dedicati alle imitazioni. Il tutto ha l’aria di essere un accumulo di ciarpame, ma ha comunque qualcosa di commovente. Ogni oggetto è il frutto di un attimo di lavoro di un essere umano.
Paul in questi anni ha visitato un bel po’ di fabbriche, a Shenzhen. Gli chiedo di Foxconn, e lui mi ripete ciò che ho già sentito da altri: Foxconn avrà i suoi problemi, ma è uno dei posti di lavoro migliori della zona. «In termini di infrastrutture, è di gran lunga la migliore fabbrica della Cina», mi dice. Ci fermiamo a mercanteggiare per cinque iPhone falsi e malfunzionanti (il mitico modello bianco) che voglio regalare per scherzo ai miei amici. «Ma quanto, di tutto quello che hai visto, è pura facciata?», chiede Paul, riferendosi ai monitor a cristalli liquidi che ornano le catene di montaggio e a tutte le altre esibizioni di modernità che portano ben pochi benefici ai lavoratori. E che mi dice Paul del Cyberfox Café, l’Internet bar interno a Foxconn, dove pochi giorni fa ho mangiato una scodella di ottima zuppa di melone amaro? «Potrebbe sembrare grande. Se consideriamo il numero dei dipendenti, però, ci rendiamo conto che non arriva neppure a servire il 5% dei lavoratori».
Anche se è uno dei posti di lavoro migliori di Shenzhen (almeno per quel che riguarda il lavoro non qualificato) a metà del 2010, dopo l’ondata di suicidi, i dirigenti di Foxconn hanno capito chiaramente che la loro non era più un’azienda anonima, come tante altre. Foxconn attualmente è un’icona multimiliardaria della globalizzazione, e loro sanno di essere oggetto della curiosità e del giudizio internazionali.
Gli alloggi dello stabilimento sono stati affidati di recente a società di management dotate di maggiore esperienza nella gestione dei bisogni fondamentali dei lavoratori. Foxconn si augura che questi consulenti esterni siano più rapidi ed efficaci nel rispondere alle lamentele degli inquilini, ma i detrattori fanno notare che forse l’azienda conta di esternalizzare anche una parte delle colpe e delle accuse (ora, quando Foxconn costruisce nuovi stabilimenti in Cina, gli alloggi vengono gestiti in società con il governo locale).
Foxconn ha messo in piedi perfino dei centri con psicologi e consulenti del lavoro. Ne ho visitati due. Il primo, affacciato su un viale affollato, l’ho trovato pieno di gente. Il personale è in grado di aiutare i lavoratori della fabbrica a rimpiazzare le chiavi elettroniche dell’alloggio quando le perdono, oppure a comprare tessere telefoniche prepagate per chiamare casa con il cellulare. Il secondo, in posizione più defilata, era un vero e proprio centro di sostegno, con stanze per la musicoterapia, un servizio di counseling personale e aree per il relax. Peccato che, quando ci sono andato, era deserto. In una stanza c’era un pupazzo “sempreinpiedi” a grandezza naturale, e con l’espressione corrucciata, che potevi percuotere con una mazza da baseball imbottita (ne ho approfittato per scaricare un po’ di tensione).
Lo sforzo più ambizioso per risollevare il morale operaio è un negozio di elettronica dall’aria piuttosto modesta che si trova accanto a un fruttivendolo, all’interno del complesso Foxconn di Shenzhen. Si chiama Diecimila cavalli al galoppo e qui dentro si possono comprare pentole cuociriso, ventilatori da scrivania e telefonini. Questo è, a detta dei dirigenti Foxconn, il futuro dell’azienda. Negli stabilimenti Foxconn ci sono già degli outlet in cui gli operai possono acquistare prodotti dell’azienda a prezzi scontati, ma Diecimila cavalli al galoppo vuole essere un negozio di elettronica per il resto della Cina. Foxconn intende offrire ai dipendenti la possibilità di aprire punti vendita in franchising, garantendo addirittura un piccolo capitale iniziale.
L’idea è quella di consentire ad alcuni dipendenti particolarmente stakanovisti e fortunati di tornare a casa, in particolare verso le province povere della Cina occidentale, portando con sé un pizzico di spirito imprenditoriale. I lavoratori ottengono il risultato di avviare un’attività propria; ma anche Foxconn ci guadagna rifornendo di merci quei negozi. Finora il franchising è stato concesso a 60 dipendenti e a parecchi altri esterni.
Per Foxconn, Diecimila cavalli al galoppo rappresenta un grande progetto, e la possibilità per l’azienda di convertirsi al commercio diretto, sfruttando il fior fiore della forza lavoro allevata in Cina. Ma il negozio offre anche un altro vantaggio, un vantaggio non preso in considerazione fino a poco tempo fa: la fidelizzazione del dipendente. Negli ultimi anni nell’interno della Cina sono spuntate moltissime fabbriche e gli operai non si trasferiscono più in massa a Shenzhen, come facevano dieci anni fa, quando la città era una delle poche a offrire posti di lavoro. «Ora che nelle regioni interne le possibilità di occupazione sono cresciute, molta gente che sarebbe emigrata preferisce restare a casa, anche a costo di guadagnare meno, pur di non lasciare la famiglia», spiega Benjamin Dolgin-Gardner, direttore generale della Shenzhen CE and IT Limited. Perfino Foxconn sta costruendo un impianto nella provincia di Hunan, allettata dagli incentivi fiscali e dai contributi multimiliardari offerti dal governo locale.
In pochi anni Shenzhen potrebbe abdicare al suo ruolo di grande fornace ardente del sogno cinese. Ma questo porterà a un’espansione della classe borghese – con i benefici che ne derivano – oppure vedremo solo uno spostamento verso l’Occidente più povero, per migliaia di chilometri, del solito vecchio sistema?
Per molti versi, gli operai non specializzati cinesi che trovano lavoro negli stabilimenti della Foxconn sono i più fortunati. Ma occorre che tutti gli sguardi restino puntati sull’azienda: gli sguardi dei giornalisti internazionali e locali, degli ispettori e di tutte le aziende partner. Il lavoro sarà anche umano, ma gli straordinari selvaggi non lo sono. Dovremmo appoggiare i diritti dei lavoratori cinesi con lo stesso vigore con cui sosteniamo lo sviluppo economico della grande Repubblica Popolare. Siamo stati tanto bravi a esportare le nostre necessità produttive, è ora di dimostrarci altrettanto capaci di esportare le conquiste dei nostri sistemi sindacali.
Nella mia carriera ho scritto migliaia di post e milioni di parole sulle cose. Di solito erano cose con dentro l’elettricità. Far questo di mestiere, sia pure a intermittenza, per quasi dieci anni, ha alterato molto profondamente la mia percezione del mondo. Non riesco più a vedere il mondo materiale come un insieme di oggetti, ma vedo interfacce, storie e materiali.
E provo anche un certo senso di colpa perché sono ormai completamente immerso in un materialismo che, direttamente o indirettamente, contribuisco a propagandare. Non so se ho davvero diritto alle grandi quantità di materia e di energia che ogni giorno consumo. Ho a lungo ritenuto che fosse normale, ma ora so che il pianeta non è in grado di reggere il mio stile di vita, moltiplicato per sette miliardi di individui. E credo che questa mia intuizione sia condivisa, magari anche solo inconsciamente, da tutti noi occidentali.
Ogni cosa che tocchiamo e consumiamo – come la carta su cui è stampata questa rivista, o il monitor su cui compare questo articolo – non è solo effimero ma è non rimpiazzabile, nel senso letterale della parola. Ogni bene ha un costo, che non è ripagato dal suo prezzo: è una risorsa che svanisce. Noi dissipiamo mucchi di energia che basterebbero per milioni di anni, dissipiamo risorse vitali del nostro pianeta per produrre non solo oggetti necessari alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere, ma anche oggetti buoni soltanto a soddisfare la nostra brama innata di possesso. È un senso di colpa che tentiamo di tenere a bada con la speranza che la nostra cultura consumistica stia rendendo migliori le condizioni di vita. Quelle nostre, naturalmente; ma anche, sia pure in misura minore, quelle di coloro che non possono permettersi tutto ciò che noi compriamo, consumiamo o possediamo.
Ma non appena questa piccola rassicurazione viene anche leggermente messa in dubbio, quando si spezza quel filo che lega il nostro consumo ai milioni di esseri senza nome che ci consentono il nostro stile di vita, ci troviamo a guardare un abisso – un futuro senza fine, su un pianeta vuoto ed esausto – veramente intollerabile.
Se 17 persone si sono uccise, mi chiedo, ho fatto loro del male con i miei desideri? Anche solo un pochino?
E naturalmente la risposta, inevitabile e non misurabile, è: sì.
Solo un pochino.
Joel Johnson