VARI, 8/4/2011, 8 aprile 2011
ARTICOLI SUI PERMESSI UMANITARI E L’OPPOSIZIONE FRANCESE
CORRIERE DELLA SERA
VIRGINIA PICCOLILLO
ROMA — Il decreto ora c’è. Prevede un permesso temporaneo di soggiorno per motivi umanitari per tutti: clandestini e richiedenti asilo, tunisini e altri nordafricani, giunti in Italia «dall’ 1 gennaio alla mezzanotte del 5 aprile 2011» . E all’articolo 3 consente ai possessori «di un titolo di viaggio la libera circolazione nei Paesi Ue, conformemente alle previsioni della convenzione di applicazione di Schengen» . Il governo si ricompatta, fa partire da Lampedusa il primo rimpatrio aereo di 30 tunisini, inizia a ridimensionare la tendopoli da 4000 posti di Manduria, riguadagna, nel ruolo di mente operativa, il sottosegretario Alfredo Mantovano e amplia i poteri di accoglienza alla Protezione Civile di Franco Gabrielli. Ma la Francia non ci sta. E scoppiano scintille diplomatiche. Lo dichiara il ministro dell’Interno Claude Guéant: «All’interno dello spazio Schengen non basta avere un’autorizzazione di soggiorno in uno degli Stati membri ma sono necessari documenti di identità e, soprattutto, una giustificazione di risorse» . «Un segnale ostile» dichiara alla Camera il ministro dell’Interno, Roberto Maroni. E la sera a Porta a Porta aggiunge: «Se la Francia li blocca esca da Schengen» . Oggi Guéant sarà a Milano a colloquio con Maroni, che annuncia: «Tutto si risolverà» . In attesa del bilaterale Berlusconi Sarkozy del 26 aprile, meglio evitare strappi. «La Francia è un Paese amico con cui bisognerà trovare linee d’intesa» , spegne il ministro della Difesa La Russa. Ci si appella all’Europa. Il presidente del Senato, Renato Schifani, sottolinea che «il problema dell’immigrazione clandestina non è un problema italiano, è un problema europeo. Chi ritiene di doverlo recintare all’interno del nostro stesso Paese si sbaglia» , con chiaro riferimento alla Francia. Ma il portavoce Ue, Marcin Grabiec, disillude. Dare un permesso, spiega, «non implica che queste persone abbiano un permesso automatico di viaggiare» . A frontiere francesi chiuse, dunque, non ci sarebbe lo «svuotamento della vasca» auspicato dal leader leghista Umberto Bossi, che vuole una «politica dura» . E complesso sarebbe gestire l’ondata di risacca degli oltre 22mila tunisini, cui ora si sommano gli oltre duemila profughi. Già, perché il testo uscito ieri dal Consiglio dei ministri, ancora in bozza, parla di rilascio del permesso per motivi umanitari agli «appartenenti ai Paesi del Nordafrica» , «affluiti» in Italia fino alla «mezzanotte del 5 aprile» . Salvo ritocchi, resterebbero fuori anche i sopravvissuti al naufragio di mercoledì all’alba. Per quelli cui il permesso «non è stato rilasciato o è stato revocato» si dispone «il respingimento o l’espulsione» . Anche «con accompagnamento immediato alla frontiera» . Niente permesso per gli appartenenti a categorie «socialmente pericolose» o espulsi con notifica anteriore all’ 1 gennaio. Regolarizzati anche i richiedenti asilo la cui richiesta «può essere convertita» in richiesta di permesso, come si legge al comma 5 dell’articolo 2. Il permesso sarà concesso «gratuitamente» . E potrà essere richiesto entro 8 giorni alle questure che dovrebbero approntare «specifiche procedure d’urgenza» . Ma non è ben approfondito come si garantirebbero controlli atti proprio ad evitare la regolarizzazione di criminali. Virginia Piccolillo
STEFANO MONTEFIORI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI— L’Italia escogita il permesso temporaneo per lasciare che i tunisini raggiungano la Francia, vera meta del loro viaggio, e Parigi risponde con cinque condizioni: al momento di essere controllati, gli stranieri dovranno essere muniti di un titolo di viaggio valido, di un documento di soggiorno in corso di validità, dimostrare di disporre di risorse sufficienti (62 euro al giorno a persona, 31 euro se dispongono di un alloggio), non costituire una minaccia per l’ordine pubblico, non essere entrati in Francia da oltre tre mesi. In mancanza di questi requisiti, saranno riaccompagnati in Italia. La circolare del prefetto Stéphane Bouillon, capo di gabinetto del ministro dell’Interno Claude Guèant, è stata inviata a tutte le prefetture di Francia mercoledì sera per evitare che l’emergenza di Lampedusa diventi un problema francese. Per muoversi «all’interno dello spazio Schengen — ha spiegato ieri il ministro— non basta avere un’autorizzazione di soggiorno in uno degli Stati membri ma sono necessari documenti di identità e, soprattutto, una giustificazione di risorse» . «Una norma dell’Unione europea e degli Stati che hanno aderito al trattato di Schengen prevede che il primo Paese raggiunto abbia la responsabilità degli stranieri che sono giunti lì» , ha aggiunto Guéant, in questi giorni impegnato in un’offensiva a tutto campo per limitare la presenza degli stranieri in Francia tanto che, rompendo con i suoi predecessori, ha intenzione di frenare anche l’immigrazione legale. «I documenti rilasciati dall’Italia sono permessi di soggiorno che valgono solo in Italia; i nostri vicini sono alle prese con un problema che capisco sia difficile da gestire ma lo ripeto, la Francia non intende subire un’immigrazione di tipo soltanto economico» , ha sottolineato il ministro, ricordando che «la Tunisia si è aperta alla democrazia, alla libertà» . «Se questi migranti non hanno le risorse per restare nel nostro Paese, in base alla convenzione di Schengen e al trattato bilaterale di Chambéry siglato tra Francia e Italia, saranno rimandati in Italia» , ha chiarito il ministro. Il trattato di Schengen viene in questi giorni evocato dal governo italiano per permettere ai tunisini di raggiungere la Francia, e dal governo francese per impedirlo. Al di là delle dispute giuridiche, è la sopravvivenza stessa del Trattato — il cui spirito è l’abolizione delle frontiere — a essere messa in discussione. Claude Guéant, 66 anni, è stato capo di gabinetto di Nicolas Sarkozy dal 2002, nel 2007 ha guidato la campagna elettorale del futuro presidente fino a diventare, dopo la vittoria, il segretario generale dell’Eliseo. Passato nel febbraio scorso al ministero dell’Interno, è da allora protagonista di misure contro l’immigrazione e l’Islam che lo hanno fatto diventare in poche settimane il falco della politica francese. Stefano Montefiori
FIORENZA SARZANINI
ROMA— L’incontro fissato per questa mattina a Milano era stato concordato già da qualche giorno su richiesta del ministro dell’Interno francese Claude Guéant. Per questo Roberto Maroni non si aspettava che alla vigilia dell’appuntamento il suo collega avrebbe reso pubblica una posizione così netta contro l’Italia. E così ai suoi collaboratori chiede di preparare con urgenza un dossier che, analizzando le norme internazionali, «dimostri come la Francia non può respingere chi varca la frontiera con il permesso provvisorio rilasciato per motivi umanitari dal nostro governo» . Nel fascicolo viene inserito anche un parere dell’avvocatura dello Stato per illustrare la base giuridica che sostiene il decreto firmato ieri dal premier. Con questa documentazione il titolare del Viminale si recherà all’appuntamento e ribadirà al collega d’Oltralpe «la determinazione dell’Italia a far rispettare le disposizioni che consentono la libera circolazione nei Paesi aderenti al trattato di Schengen» , come spiega in vista della riunione. «È inutile che i francesi continuino a seguire la linea dura con questo atteggiamento ostile— — ripete Maroni perché questa volta hanno torto e anche l’Europa li ha già richiamati» . Ostenta sicurezza il ministro, ma l’agitazione che si respira al Viminale ha motivi fin troppo evidenti: se davvero Parigi dovesse dare seguito alla minaccia di respingere gli stranieri, tutti i tunisini arrivati a Lampedusa resteranno liberi di girare nel nostro Paese. Chi ha ottenuto il permesso provvisorio — e cioè oltre 20.000 persone— non potrà più essere tenuto nei Cie o nelle strutture provvisorie che sono state allestite in queste settimane. La «sanatoria» approvata con l’obiettivo di distribuire in Europa chi è arrivato dal Nord Africa in questi primi tre mesi dell’anno, rischierebbe di rivelarsi un boomerang per l’Italia. Sa bene Maroni che la vera partita a questo punto si gioca in sede europea. Per lunedì è già fissato il consiglio della Ue dei ministri di Giustizia e Interno. E in quell’occasione il tito- lare del Viminale tornerà a chiedere un’azione comune degli Stati membri, invocherà l’aiuto che la commissaria Cecilia Malmström ha annunciato di volergli fornire. Senza farsi però troppe illusioni, visto quanto è già accaduto nelle scorse settimane quando l’Italia fu quasi derisa perché aveva lanciato l’allarme sul possibile arrivo di migliaia di profughi e numerosi governi, a partire da quelli degli Stati del Nord ma anche Germania e Gran Bretagna, manifestarono la propria contrarietà a una distribuzione. Il problema dell’immigrazione mostra come con il trascorrere dei giorni Maroni sia sempre più stretto tra le pressioni della Lega che guarda alle elezioni e continua ad alzare il livello delle dichiarazioni e la necessità di non procedere con misure emergenziali che poi possono avere un effetto contrario a quello previsto. Ufficialmente si marcia insieme e con la massima sintonia, in realtà le ultime sortite di Umberto Bossi sono servite soltanto ad esasperare il clima, facendo mancare in alcuni casi anche la sponda dell’opposizione sulla quale Maroni aveva finora potuto contare. Un isolamento pericoloso, tenendo conto che l’intesa con il governo di Tunisi appare fragile e non realizzabile in tempi rapidi. Non a caso Maroni ha chiesto e ottenuto dal governo di ampliare lo stato d’emergenza a tutta Italia. Così si spiega la scelta di sostituire come commissario il prefetto Giuseppe Caruso con il capo della Protezione Civile Franco Gabrielli. Fino a qualche giorno fa si riteneva di poter affrontare la crisi usando per un tempo limitato le tendopoli allestite nelle regioni del Sud. E questo giustificava la decisione di affidare la gestione al prefetto di Palermo. Ora che la situazione appare radicalmente cambiata e c’è la necessità— se l’accordo con la Tunisia come è prevedibile non servirà a fermare gli sbarchi — di una distribuzione dei migranti su tutta la penisola. E dunque è stato lo stesso Caruso a convenire sulla necessità di trasferire le competenze organizzative a Gabrielli, che può contare anche su uomini e mezzi della propria struttura. Un’ulteriore mossa che fa ben comprendere come il problema non sia affatto risolto. Fiorenza Sarzanini
LA STAMPA
CESARE MARTINETTI
remonti alza le barriere contro i raid francesi nella finanza italiana, Guéant chiude le frontiere ai migranti di Lampedusa. Solo gli ingenui e/o i disinformati potevano credere che la Francia avrebbe aperto ai clandestini in transito dall’Italia. Bisognava non sapere che la lotta all’immigrazione (non solo clandestina) è il cuore costituente della presidenza Sarkozy, insieme alla «sicurezza» la vera benzina della sua dinamica politica nata e cresciuta nel confronto con l’estrema destra di Le Pen.
Dunque, né solidarietà con l’Italia, né «fraternité» con i tunisini, che pure un po’ francesi sono. Le Alpi dividono due Paesi sull’orlo di una crisi diplomatica. Il ministro dell’Interno Claude Guéant ha trasmesso ieri da Paris tambureggianti bollettini di guerra; Maroni ha chiamato tutto questo «ostilità». Parigi dice no allo sbarco dei lampedusani sul territorio della République. E annuncia: «ridurremo anche l’immigrazione legale». Altro che aperture umanitarie.
È la prima volta che un proclama così radicale viene diffuso dall’Eliseo. È l’effetto di quella che nel dibattito francese si chiama la «lepenizzazione degli spiriti». Tra un anno si vota, Sarkò è già in piena campagna elettorale, la monarchia repubblicana non dà tregue, i sondaggi sono spietati, la delusione dei francesi è di massa, il presidente è circondato.
Da una parte lo spettro del socialista Dominique Strauss-Kahn, strafavorito (ma sarà davvero lui in lizza?); dall’altra Marine Le Pen, figlia del totem della Francia nera, nuova e seducente Marianna per un partito sdoganato il 21 aprile 2002, quando contro ogni previsione, il padre Jean-Marie arrivò al ballottaggio presidenziale superando niente meno che il primo ministro socialista Lionel Jospin. Questa volta il candidato numero uno all’umiliazione è lui, Sarkozy. E dunque, dàgli agli stranieri, sulle cui paure la bionda signora ha scalato sondaggi da brivido.
Ma il fronte sarkozysta è doppio: in difesa all’interno, all’attacco sul mondo. Con l’avventura libica, partita su impulso di Parigi, il presidente ha indossato il «képi blanc» e scommette sulla «grandeur» perduta per ricollocare la Francia dopo le figuracce tunisine per la vicinanza con il deposto Ben Alì. La rivolta egiziana e quella in Cirenaica hanno spinto il presidente a offrirsi come punto di riferimento, scommettendo sul contagio «rivoluzionario» nel mondo arabo. È stato il primo a riconoscere i ribelli di Bengasi. Ma con spregiudicatezza sta contemporaneamente stringendo i legami con la monarchia saudita e gli Emirati Arabi Uniti disorientati dagli ondeggiamenti americani sulla Libia. L’Italia (ignorata dall’Eliseo) a tutti questi movimenti è estranea e sostanzialmente ostile. Ha chiesto - e ottenuto - la ripartizione delle responsabilità militari con un comando Nato. Ma ha il suo daffare a gestire passato e presente con Gheddafi. Ed è in prima linea sul fronte antico del mare.
Oggi a Roma il fedelissimo Claude Guéant (l’uomo che «mormora all’orecchio di Sarkozy») farà capire se c’è margine di negoziato tra i proclami e la politica. Di certo le regole dettate ieri ai suoi prefetti lasciano poco spazio ai permessi a tempo che saranno concessi dall’Italia. C’è poco da illudersi: il trattato bilaterale ItaliaFrancia del ’97 prevede la restituzione dei clandestini. E poi le regole europee non ci aiutano: far parte dello spazio Schengen significa essere responsabili delle proprie frontiere per conto dell’Unione europea. Si potrebbero gestire meglio insieme, ed è questo che Maroni chiederà a Guéant. Ma senza troppe illusioni perché come ha scritto su La Stampa di lunedì Giovanna Zincone, «non siamo nei tempi migliori per giocare la carta della solidarietà europea».
Anche perché tra Francia e Italia è in corso da tempo una guerra fredda che ha per teatro soprattutto la finanza. In Edison, dove Edf vorrebbe mano libera ed ha già silurato l’ad Umberto Quadrino. In Parmalat, dov’è in corso la scalata Lactalis. Nelle assicurazioni, sia Generali che Premafin Fonsai, dove si muove il guascone super-sarkozysta Vincent Bolloré. Tremonti, «colbertiano» convinto, si è preso il ruolo di difensore dell’interesse nazionale. I francesi, naturalmente, non ci stanno.
In questa tenaglia di interessi e di simboli si consuma un grande strappo, sulla pelle di migliaia di migranti tunisini che parlano francese e vogliono la Francia e del sistema italiano che non può reggere l’invasione, sempre più drammatica, come dice il naufragio dell’altra notte. Anch’esso un simbolo, luttuoso, del naufragio europeo.
LA STAMPA
ALBERTO MATTIOLI
Parlare a Roma perché Parigi intenda. Il pugno di ferro contro l’immigrazione serve soprattutto per riconquistare a Nicolas Sarkozy l’elettorato di destra, in libera uscita verso il Front national di Marine Le Pen. Claude Guéant, ministro degli Interni, primo flic di Francia, consigliere numero uno del Presidente e bestia nera di Roberto Maroni, è stato scelto per questo. E questo sta facendo.
Da quando è stato nominato, il 27 febbraio scorso, il grigio burocrate che diceva di sé «faccio la cura del silenzio», il superpoliziotto tutto distintivo e niente chiacchiere, ha iniziato ad aprire bocca. Da allora, non l’ha più chiusa. Debutta facendo una gita a Mentone e ammonendo l’Italia a bloccare i clandestini. Prosegue dichiarando che «a forza d’immigrazione illegale, i francesi hanno talvolta l’impressione di non essere più a casa loro». Insiste dicendo che troppi musulmani sono «un problema». Definisce «una crociata» l’intervento in Libia. Polemiche terrificanti, ma lui tira diritto. Con il Front National che vince le amministrative e vola nei sondaggi, Guéant insegue madame Le Pen sul suo stesso terreno (e lei, sorniona, dopo l’uscita sui francesi stranieri in patria gli manda la tessera onoraria del Fn).
Si spiega così la fermezza verso l’Italia. L’ultima famigerata circolare, Guéant l’ha emanata prima ancora che Berlusconi firmasse il decretino sul permesso di soggiorno temporaneo ai tunisini. E, giusto per mettere i puntini sulle «i», in allegato c’è una descrizione dei permessi di soggiorno rilasciati da un Paese a caso della Ue: l’Italia. La Francia, giura Guéant, non si farà sommergere dall’«ondata migratoria» (anche perché, dicono diplomatici beneinformati, non c’è poi tutta questa certezza che Marocco e Algeria non facciano la stessa rivoluzione della Tunisia, e allora altro che ondata, sarebbe uno tsunami. E stavolta con la Francia in prima linea). Pugno di ferro contro l’immigrazione irregolare, ma anche contro quella legale: «E’ tempo di ridurla», annuncia Guéant. Perché i permessi di lavoro (20 mila all’anno) e i ricongiungimenti familiari (15 mila) sono troppi. Mentre sono troppo poche duemila espulsioni all’anno: «Spero francamente che faremo di più», promette.
E dire che uno degli uomini più potenti del Paese non è mai stato eletto. Ha fatto tutta la carriera nell’ombra come gran burocrate, cul di pietra, eminenza grigia. Non per niente, nelle segrete stanze è soprannominato «il Cardinale». Claude Guéant è un perfetto modello delle classi dirigenti della République: un tecnocrate attento agli equilibri politici, al servizio dello Stato e anche di chi lo governa. Classe ‘45, famiglia borghese tipica con mamma maestra e papà impiegato, passa naturalmente dall’Ena, la mitica Ecole National d’Administration. Nel Sessantotto, mentre i suoi coetanei cercano di portare la fantasia al potere, capisce che il potere non è una fantasia ed entra agli Interni.
La carriera è rapida ma non folgorante: scoperto dal ministro Charles Pasqua, un altro duro, nel ‘93 Guéant collabora con il giovane sindaco di Neuilly che va di persona a parlamentare con il pazzo che ha preso in ostaggio una scolaresca. Il primo cittadino si chiama Nicolas Sarkozy e non si dimenticherà di quel poliziotto grigio ma efficiente. Nel ‘94, Guéant è direttore della Polizia nazionale, nel ‘98 prefetto. Nel 2002, Sarkozy sceglie il perfetto prefetto come suo capogabinetto, prima alle Finanze e poi all’Interno. Nel 2007, Guéant è il direttore della campagna che porta Sarkò all’Eliseo, dove si installa anche lui come segretario generale. E subito fa capire che il potere gli piace: riduce la titolare degli Interni, Michèle Alliot-Marie, alias Mam, a una sua portavoce e deborda anche sugli Esteri: sui dossier di Africa e Medioriente, l’ultima parola è la sua. Con Sarkozy è antitetico ma complementare. Il Presidente lo stima, però non sono dello stesso genere. E infatti Sarkò, che dà del tu ai collaboratori più stretti, con Guéant è sul «voi» fisso.
Arriva finalmente il grande momento. Le figuracce a ripetizione dell’Alliot-Marie, nel frattempo traslocata agli Esteri e ribattezzata «Mam-la-gaffe», obbligano il Presidente all’ennesimo rimpasto. Per l’occasione, da place Beauvau, il Viminale francese, va via Brice Hortefeux, fedelissimo di Nicolas ma, quanto a gaffe, formidabile anche lui («Gli arabi? Quando ce n’è uno va bene, tanti sono un problema», segue condanna per razzismo) e arriva, anzi torna, Guéant. Il resto è noto, anche a Roma. Ma per il momento, nonostante queste bombe sull’immigrazione e quelle meno metaforiche sulla Libia, i sondaggi, per Sarkozy, restano pessimi.
PIERANGELO SAPEGNO
Questo Taoufik Khiari sta proprio dove uno si aspetta di trovarlo, vicino alla stazione, boulevard Gambetta, seduto in un dehors con una piccola borsa per terra, le scarpe con le suole slabbrate e la barba tagliata di fresco, come se avesse appena fatto la doccia. A Pierre Costa - un passato da fotografo tra qui e Antibes speso a immortalare matrimoni - ha raccontato di averci provato cinque volte in meno di una settimana, a venire qui da Ventimiglia, e che ogni volta la polizia francese l’ha fermato e rispedito indietro. Tranne questa, la quinta. La prima, se n’era sceso a Nizza dal treno dopo essersi nascosto nella toilette, e s’era già incamminato respirando l’aria della sera quando l’avevano bloccato due gendarmi appena fuori dalla stazione. La quarta, aveva tentato a piedi ed era stata la peggiore: «Mi hanno dato due calci nel sedere e mi hanno ricacciato indietro. Tutto a piedi». Si guarda la scarpa con la suola che penzola e fa il gesto di riattaccarla con le mani. «Venti chilometri avrò fatto, forse di più. Ho le piaghe, un male terribile».
Il suo amico Chokri gli dice che con la polizia qui in Francia è dura. Ma che non è vero che i francesi non li vogliono. Oddio, noi non ne siamo così sicuri. E’ da più di un mese che il ministro dell’interno Claude Géant tuona contro questa immigrazione. Oggi ha appena messo dei paletti severissimi per annullare le concessioni dei permessi di soggiorno. E Khiari è qui che scruta intorno con terrore qualsiasi divisa nel raggio di cento metri. Il prefetto Francois Lamy ha detto che in neanche dieci giorni «sono state fermate 600 persone: 500 rispedite in Italia, e 100 in Tunisia». Da Parigi sono scesi centinaia di agenti per rinforzare i controlli. Pattugliano il mare e tutti i treni in arrivo dall’Italia. E addirittura in 300 sorvegliano il passaggio alla frontiera. Però, Taoufik è arrivato lo stesso col treno, e adesso è già partito con il canto delle sirene, e giura che la Francia è un Paese bellissimo, che loro gli sono molto attaccati anche perché parlano la stessa lingua, e che qui non è come l’Italia: «C’è meno disoccupazione», dice, «qualcosa si può trovare». E poi, sorride, «ci sono i miei amici». Loro lo abbracciano, lo toccano, lo accarezzano. Sicuro che non ti beccano più?, gli chiediamo. Guarda Chokri come se toccasse rispondere a lui. Adesso lo caricano in macchina e vanno via.
I capelli di Tafouik, 22 anni, in fuga da Biserta, sono tagliati come quelli di un marine, rasati sulle orecchie. E molti dei ragazzi che abbiamo incontrato li hanno così: vien da pensare a dei militari o a degli ex poliziotti. Nessuno di loro racconta cosa facesse a casa. Rispondono tutti che erano disoccupati. Come Soufiane Souaya, da Mahdeja, Tunisi, che dice di avere un diploma da perito, e che quasi tutti quelli che stanno scappando adesso dal suo Paese hanno studiato e hanno una laurea: «Almeno l’80 per cento, direi. Siamo giovani e istruiti. Non siamo una immigrazione rozza e ignorante».
Anche lui assicura che a Ventimiglia sono rimasti in pochi. Racconta di un gruppo che ha preso il treno fino a Torino e poi da lì ad Aosta, e che così sono riusciti a entrare in Francia: c’era qualcuno che li aspettava e li portava. Lui dice che non vuole fermarsi qui: «Sto passando dalla Francia solo per andare in Belgio». Ma mica perché conosce qualcuno: «Anzi, qui ho dei conoscenti, non là». Ma a Bruxelles è convinto che si trovi più facilmente lavoro. «Io ho studiato, parlo benissimo tre lingue: l’arabo, il francese e l’inglese». Perché non l’Italia? La sua risposta è il solito ritornello: «Primo, per la lingua. E poi per la disoccupazione».
Yassine Mkacher, invece, un altro ragazzo con i capelli a spazzola, è andato ad Antibes e spera di trovare un lavoro nell’edilizia. Lui è venuto in macchina, «ma non come quei 4 che hanno beccato alla frontiera nascosti nel bagagliaio» di una Citroen Xara dopo aver pagato 300 euro. Lui era seduto accanto al guidatore e dice che l’ha aiutato la faccia pulita e la carnagione che non è così scura. Poi c’è Bechir, che è fuggito da Sidi Bou Said. Quando è arrivato, due giorni fa, erano in sei e appena scesi dal treno si sono messi a correre come dei matti, «perché l’importante è arrivare nei vicoli di Nizza prima che ti prendano». Ce l’avevano tutti fatta. «Ma poi quelli della polizia ti perquisiscono dovunque ti trovano. Basta un ticket qualsiasi di un bar italiano e sei fregato. Ti rispediscono indietro». Gli altri cinque amici hanno fatto tutti quella fine. C’è un clima incredibile, dice, «una vera e propria caccia all’uomo, anche se qui magari è più facile mimetizzarsi».
Pierre, adesso, ci porta ai Balzi Rossi, fra queste rocce a strapiombo sul mare, per farci vedere dove un tempo passavano e da dove ancora oggi qualcuno ha tentato di entrare rischiando la vita. Dice: «secondo me ha ragione Taoufik, sono riusciti a venire quasi tutti, in un modo o nell’altro». Fra queste liti, loro continuano a passare. Con le scarpe rotte, come Taoufik, o perdendo i pezzi e gli affetti per strada, come Bechir, ma senza fermarsi.
ROBERTO GIOVANNINI
Era tutto contento, Bilal, martedì notte, quando con i suoi 104 compagni di viaggio su un barcone scassato era riuscito a mettere piede sulla banchina di Lampedusa. Se ne voleva andare in Austria, a far l’amore con la sua ragazza per giornate intere, e dimenticare «quello stronzo di Ben Ali». Ieri sera, verso le 20, lui e altri 29 ragazzi tunisini – tutti tra i venti e i trent’anni, con giubbini, jeans, imitazioni di Nike ai piedi – sono stati portati in pullman all’aeroporto, scortati da 60 agenti, e imbarcati su un aereo. Erano contenti, avevano salutato gli amici. Gli avevano detto che il volo li avrebbe portati in Italia, verso la bella vita conquistata con un viaggio orribile pagato 400 euro, tutti i loro risparmi. Prima della partenza però gli avevano tolto i telefoni cellulari. L’aereo è decollato mezz’ora dopo. Ma non era diretto verso l’Italia. La destinazione dell’ aereo era Tunisi, l’obiettivo era il rimpatrio nel paese da cui erano riusciti a scappare per sole 36 ore. Un rimpatrio che per molti è la rovina. E problemi giudiziari, visto che l’espatrio senza permesso è un reato per la legge tunisina.
E’ stata la prima tappa dell’operazione decisa dalle autorità all’indomani dell’immane tragedia avvenuta al largo di Lampedusa. Oggi è prevista la seconda, con il rimpatrio sempre via aereo degli altri 74 giovani tunisini. Ma non è affatto detto che tutto fili liscio, nonostante il palese tentativo delle forze dell’ordine di non dare nell’occhio e non far capire la nuova situazione alle vittime del rimpatrio. In aereo da qui a Tunisi ci si impiega solo mezz’ora, è probabile che i trenta migranti siano riusciti ad avvertire in qualche modo quelli rimasti sull’ isola della loro sorte.
Il piano deciso a Roma e attuato in serata a Lampedusa in pratica applica l’accordo raggiunto tra l’Italia e la Tunisia: chi è arrivato prima del 5 aprile avrà il permesso temporaneo di soggiorno, chi è arrivato dopo – è il caso dei 104, i primi ad essere imbarcati – devono essere rimpatriati. Il discorso non riguarda i migranti provenienti dai porti della Libia, ovvero gli africani che quasi tutti hanno diritto all’asilo. Stesso diritto spetta anche ai minorenni, che però ieri sono stati tutti quanti portati via dall’isola verso la Sicilia. In serata, la nave «Flaminia» della Tirrenia, era ormeggiata al molo di Cala Pisana: quasi sicuramente l’intenzione delle autorità è quella di imbarcare nel corso della notte il maggior numero possibile di migranti tunisini rimasti. Ieri erano 1160 i migranti chiusi all’interno del centro di accoglienza, costretti a sopravvivere in condizione assolutamente dure. Un’altra motonave, la «Excelsior», si sta dirigendo verso Lampedusa. Servirà o per completare le operazioni di «svuotamento» di Lampedusa prima della prevista visita di domani di Silvio Berlusconi, oppure per fronteggiare nuove emergenze legate a nuovi sbarchi.
Ieri non hanno dato alcun frutto le ricerche di possibili naufraghi del disastro che è costato la vita a forse 200 migranti africani. I piloti dell’elicottero delle Fiamme Gialle impegnato nei soccorsi hanno visto soltanto uno zainetto galleggiare; mercoledì, invece, avevano visto decine di cadaveri, compreso quello di un neonato con una tutina bianca di ciniglia. In mattinata 50 dei 53 superstiti sono partiti in aereo per Brindisi, compresi i duefidanzati camerunensi, Peter e Mimi, protagonisti di una storia – una delle poche – a lieto fine. E per poco si è riusciti ad evitare un’altra tragedia in mezzo al Mediterraneo. Un barcone carico di circa 200 migranti è stato soccorso da un pattugliatore maltese nelle acque territoriali di Malta; il mare era a forza 4, sempre battuto dal maestrale, sia pure meno intenso. I migranti sono stati trasbordati sulla motovedetta e portati a La Valletta.