Marco Zatterin, La Stampa 7/4/2011; Mimmo Candito, La Stampa 7/4/2011, 7 aprile 2011
LA NATO E UNA GUERRA A META’: «PRUDENTI PER SALVARE I CIVILI»
di Marco Zatterin -
Lenta, imprecisa, sorda ai lamenti della gente che muore a Misurata. Per i ribelli è «il nostro problema», sventolato con risentimento dopo dieci giorni di offensiva alleata e quaranta passati sotto i bombardamenti di Gheddafi. Appena nominato comandante militare del Consiglio Nazionale Libico, l’ex ministro degli Interni del raìs Abdulfattah Younis ha sparato sulla Nato, l’ha presentata come una pesante macchina burocratica che gli impedisce di vincere la rivoluzione. È un’offensiva che nasconde molte smanie e svela due verità. Una è che i rivoltosi vogliono più potenza di fuoco. L’altra è che le stellette di Bruxelles sono imbrigliate dall’obbligo di evitare danni collaterali, come se si potesse veramente far la guerra senza sporcarsi le mani.
Le parole di Younis non sono piaciute a nessuno nel quartier generale di Evere. «Non le condivido nella maniera più assoluta - ammette a La Stampa l’ammiraglio Giampaolo Di Paola, capo del Comitato militare dell’Alleanza -. La gente di Misurata è la nostra priorità, stiamo facendo il possibile per garantire la sicurezza dei civili». L’ex capo di stato maggiore italiano cala i numeri, ricorda che «negli ultimi giorni abbiamo colpito, nella zona fra Misurata, Ras Lanuf e Brega, sistemi di difesa aerea, blindati, depositi e lanciarazzi». Assicura che il 30% dell’arsenale del dittatore è distrutto. «I nostri aerei compiono una media di 150 sortite quotidiane - rivela - e nei prossimi giorni aumenteranno. I dati parlano da soli: il livello di impegno della Nato è fuori discussione».
La missione «Unified Protector», scattata il 27 marzo dopo una settimana di raid aerei francesi, inglesi e americani sulla Libia, è un calice dal quale il segretario della Nato, Anders Fogh Rasmussen, avrebbe fatto a meno di bere. Il danese ha passato l’inverno a ragionare sul futuro dell’altro fronte della rosa dei venti, l’Afghanistan, da cui tutti vorrebbero andarsene e nessuno può ragionevolmente farlo. Al comando di un’organizzazione indebolita dai tagli globali ai bilanci della Difesa e senza un vero scopo ora che la Guerra fredda è archiviata, Rasmussen cercava uno sbocco diverso per la sua storia. È a quel punto che le bombe hanno cominciato a colpire Bengasi.
La reazione è stata rapida, comunque. Appena ricevuto l’ordine, i generali del Comitato militare hanno preparato i piani e gli ambasciatori del Consiglio Atlantico vi hanno posto il bollino politico. Nella prima domenica di primavera la Nato ha archiviato «Odissey Dawn» e l’ha sostituita col «Protettore unificato». Con tre obiettivi: blindare l’embargo alla vendita di armi, affermare il divieto di volo sulla Libia, proteggere i civili.
Un centinaio di aerei si sono piazzati nella basi italiane, greche, francesi e spagnole. Dalle 8 del mattino del 31 marzo i piloti hanno effettuato 1006 missioni e 400 raid offensivi. Imprecisato il numero delle vittime innocenti, centinaia piuttosto che migliaia. Sempre troppi. Sul fronte libico si scopre ancora una volta che i bombardamenti chirurgici non sono una certezza.
«Le truppe di Gheddafi hanno cambiato tattica, consapevoli che è rischioso per loro, adesso, utilizzare armamenti pesanti contro i civili - riassume Di Paola -. Muovono unità leggere, si nascondono nei centri, si fanno scudo dei civili». Tutto è più difficile. Lo è a maggior ragione ora che gli americani sono partiti ma hanno lasciato i loro pezzi grossi al comando. «Gli obiettivi sono scelti in modo accurato sulla base della minaccia alla popolazione - precisa il capo militare Nato - Non lasciamo nulla al caso per proteggere la popolazione sofferente. Ma è evidente per chiunque che non è facile».
Lo pensano pure i ribelli. E lo dicono. Bruxelles respinge le critiche e promette che l’azione si farà più pressante. A Bengasi chiedono di usare i propri aerei in barba alla No fly zone. Vorrebbero sparare per uccidere. Vorrebbero far la guerra. «È comprensibile - riconosce Di Paola -, e sappiamo che si è aperto un dibattito su questo aspetto della questione libica», un tema da affrontare «con grande attenzione e che oggi trascende la missione della Nato». A Parigi si sussurra che presto potrebbe toccare anche agli scarponi e allora sarebbe guerra vera, la prima dell’Alleanza che, per statuto, ha dei generali ai cui viene chiesto di essere chirurghi e può solo bombardare per imporre la pace. Almeno sino a che qualcuno cambierà le regole.
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«A CHE SERVONO I BLITZ SE GLI AEREI NON BOMBARDANO?» - di Mimmo Candito
Colonnello, se potesse parlare al comandante delle operazioni della Nato, che cosa gli chiederebbe? «Ah, ma sul piano militare davvero non avrei nulla da dirgli. Lui sa benissimo che cosa andrebbe fatto, dove e come bombardare, quali obiettivi colpire. No, no, non ho nulla da dirgli. Ma sul piano umano, invece, saprei bene che cosa chiedergli, e basterebbero poche parole: Ammiraglio, si metta una mano sulla coscienza! Basterebbe, non gli direi altro, ma lo guarderei diritto negli occhi e lui non potrebbe non capire».
Il colonnello Abdul Salam Kemati, della tribù dei Kemati, 44 anni, tre figlie, è il comandante generale della base di Benina, alla periferia di Bengasi. L’aviazione della Libia ribelle è tutta ai suoi ordini. Ma la no-fly Zone gli impedisce di far levare in volo i suoi piloti, a difendere le città che Gheddafi bombarda.
«Non abbiamo una grande aviazione, soltanto i Mig-23 del 1977 e gli elicotteri da combattimento M-135, anche questi degli Anni 70 e anche questi di fabbricazione sovietica. Sono velivoli vecchi, i giovani piloti nemmeno saprebbero usarli. Ma con questi aerei e questi elicotteri abbiamo saputo attaccare la colonna di carri e di blindati che avanzava a distruggere Bengasi e l’abbiamo fermata ad Ajdabya. Poi è arrivata la Nato, e ora siamo lì con le mani in mano a guardare che cosa accade».
Il colonnello ha appena terminato la sua giornata di lavoro alla base. Ci incontriamo in casa di amici comuni, ci siamo levati le scarpe, beviamo piccoli bicchieri di tè. È stanco, ma soprattutto è amareggiato.
«Nei primi giorni, gli aerei francesi e inglesi, e quelli della Nato, hanno fatto un lavoro straordinario. Su 100 missioni che lanciavano sulla Libia, almeno 90 erano di strike, attaccavano e colpivano e distruggevano. Ma oggi, su 100 missioni che lanciano - e i miei radar lo vedono bene - forse 5, nemmeno 10, sono di strike; il resto è puro sorvolo, mentre a terra, a Zawyia, a Misurata, gli uomini muoiono sotto le cannonate di Gheddafi».
Il colonnello ha una bella faccia aperta, la barba nera, qualche chilo in più di quelli che la sua uniforme dovrebbe consentirgli. E il tè è molto zuccherato.
«La Nato dice che ha distrutto il 30 per cento dell’armamento di Gheddafi. Sarà certamente vero, ma è stato fatto nei primi due giorni di strike. L’inazione dei giorni che sono seguiti hanno consentito al raiss non solo di sostituire il materiale distrutto, ma anche di aggiungerne di nuovo e ancora più potente. Sono stati scoperti convogli di cisterne e di armi che venivano dall’Algeria, e si sa di 500 pick-up che sono stati fermati alla frontiera con la Tunisia: Gheddafi sta sostituendo i suoi carri armati con questi pick-up armati di Duchka e di cannoncini, che sono meno individuabili dagli aerei e che agiscono con grande rapidità».
Il tè è buono, fumante, e il piccolo bicchiere bisogna tenerlo dal bordo, per non scottarsi. Il colonnello beve, lento, parla solo arabo. Sorseggia, poi fa un gesto largo con l’altra mano, a disegnare un orizzonte che solo lui vede.
«I miei radar possono scandagliare un orizzonte di 800 chilometri, e io vedo quello che ci passa dentro. Io, con i miei vecchi aerei, non potrei farlo, non avrei autonomia, ma i caccia della Nato possono, eccome se possono, fare quello che io non posso: attaccare i bersagli a Misurata e sulle montagne di Zintan come primo punto, e poi, secondo punto, colpire i posti di passaggio dei rifornimenti di Gheddafi: Ghata per i convogli che vengono dall’Algeria, Ubari per i convogli dal Ciad e dal Niger, e Cufra per i convogli che vengono da quest’altra parte. In pochi giorni, le forze del raiss resterebbe all’asciutto».
Qui, a differenza che nell’Ovest di Gheddafi, la benzina c’è e c’è anche il petrolio. È appena cominciato il pompaggio di un milione di barili da spedire in Qatar per la raffinazione. Ma, dice il colonnello senza scarpe, non ci sono invece le armi, e se qualcosa è arrivato è ancora troppo poco.
«Con i miei aerei non potrei nemmeno attaccare su Misurata, non avrei carburante per il rientro», e allarga le braccia sconsolato.
L’incontro è finito, scambia qualche breve parola di cortesia. Mentre stringiamo la mano, gli suona il telefonino nella tasca della giacca militare.
Ascolta, poi sorride, e dice all’interprete di tradurre: «Dalla base mi comunicano che aerei inglesi hanno appena bombardato i carri di Gheddafi a Misurata. Il comandante della Nato deve aver ascoltato le mie parole». Sorride, e stringe forte la mano. Sembra un finale posticcio, e invece è la storia semplice di una intervista. Certe cose non accadono soltanto nei film.