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 2011  aprile 07 Giovedì calendario

UNA FOSSA COMUNE NEL CANALE

L’ Isola Bianca è il miraggio dell’umanità dolente che scommette la vita inseguendo il sogno d’un benessere negato dove povertà e guerre sono l’insopportabilenormalità. Chi arriva dal mare aggrappato ad una delle carrette incredibilmente galleggianti, intravede la sagoma di Lampedusa e si illude di averla sfangata. Anche ingannato dalla «fortuna» di essere riuscito a vincere la fame, la sete, le ustioni inflitte dal sole del Sahara e la lunga permanenza nelle «stazioni di sosta» del Nord Africa, in attesa dell’improbabile «comandante» che ha promesso il biglietto di sola andata verso l’Europa. Una promessa che spesso costa al passeggero quanto tutto ciò che possiede.

E invece è proprio quel tratto di mare, l’ultimo prima della terraferma, che ingoia il sogno dei migranti disperati. Un gorgo scuro che da più di quindici anni si nutre, come il mostro delle favole crudeli, di corpi già debilitati da una vita infame. Il Canale di Sicilia: cimitero comune di anonime vittime sacrificate sull’altare delle «diversità incolmabili» generate dalle sperequazioni economiche, politiche e sociali. Ogni volta assistiamo alla rappresentazione della morte collettiva e alla conseguente indignazione.

A Lampedusa nessuno crede più che il naufragio del giorno prima possa essere considerato «l’ultima tragedia». Ormai tutti sanno che ce ne saranno ancora altri, che i commercianti di uomini non esiteranno a caricare barche destinate al macero, all’ultimo viaggio, con una «merce» umana esposta a un incertissimo destino. E’ accaduto pure di mettere in mare barconi senza marinai, una bussola a qualcuno dei passeggeri e il consiglio fugace: «Questa è la rotta, seguitela».

C’è stato un momento - un decennio fa - che l’Isola riusciva ancora a inorridire. Il racconto dei pescatori, che tornavano con le reti piene di pesci pescati insieme coi resti di una umanità condannata alla morte anonima, si snodava quasi sottovoce. Per non creare psicosi collettive, come una certa riluttanza a consumare pesce locale. Eppure c’è chi ricorda ancora la descrizione di corpi mutilati e gettati nuovamente in mare per sfuggire all’ottusa burocrazia poliziesca, capace di infliggere un supplemento di «costo» ai pescatori/ soccorritori che - fedeli alla legge della solidarietà del mare - raccoglievano morti e vivi.

Secondo un calcolo di «Fortress Europe», sarebbero 4249, uomini, donne, bambini, giovani e anziani, i corpi inghiottiti dal Canale di Sicilia, lungo la rotta fra Tunisia, Libia, Egitto e Malta, che quasi mai interviene per soccorrere. Solo una sparuto numero di questi ha trovato ospitalità nel «cimitero degli sconosciuti»: una manciata di terra, una cassa di legno grezzo, un numero impresso su un foglio bianco e - quando va bene - un fiore di plastica che presto sarà divorato dalla salsedine.

E il resto? Quelli partiti dalla Somalia nel 2003 e mai arrivati? E la barca partita da Chott Meriem, in Tunisia? Eppure col telefonino in tanti avevano chiamato i parenti più fortunati per dire che «ce l’avevano fatta», cioè si erano imbarcati. E tutti quelli avventuratisi tra febbraio e marzo? Ne mancano più di 600 all’appello e per lenire l’enorme ferita vengono destinati nellimbo dei dispersi. Cioè non sono né vivi né morti. Aiuta la statistica rifugiarsi nell’ambiguità del termine. E’ dalla fine degli Anni Novanta che si accumulano dispersi su dispersi e ogni volta si ricorre al rito del lavaggio della coscienza con l’ammissione collettiva che «La tragedia poteva essere evitata».

Lampedusa si sta abituando a tutto, divisa tra la paura dell’esodo biblico che potrebbe invaderla completamente e il senso di pietà verso uomini, donne e bambini che si sottopongono ad una prova estrema nella speranza di farcela. C’è esperienza più crudele di dover gettare in mare i corpi di compagni di viaggio uccisi dalla fame e dalla sete? Tutti ricordano ancora lo scempio del 2003, a Lampedusa. Un barcone recuperato miracolosamente consegna quindici migranti ridotti allo stremo da una traversata durata 18 giorni. Ma nel fondo dello scafo i reperti di una strage lenta: una borsa, una falsa griffe, foto di bambini sorridenti, documenti senza più i titolari, una boccetta di profumo. Più di sessanta mancano all’appello, altri 13 sono a bordo, morti. «Li abbiamo tenuti sopra di noi, per proteggerci dal freddo», ammettono i superstiti. Ma, fra tanto orrore, uno squarcio di luce quando qualcosa si muove in mezzo al mucchio di cadaveri. Come Lazzaro, emerge Fatima che sembra un fantasma. Ce la farà miracolosamente e oggi vive a Palermo. Oggi c’è pocospazio per il lieto fine: le ha provate tutte, questa umanità dolente. Persino le donne e i bambini si sono aggrappati alle reti delle tonnare per essere soccorsi. Sono arrivati genitori senza figli e bambini senza genitori, affidati al mare e alla umana pietà. Ma è veramente salvo chi sfugge alla fossa comune del Canale?