Michele Ainis, Corriere della Sera 7/4/2011, 7 aprile 2011
Un conflitto di attribuzione non è una guerra nucleare. Serve piuttosto a garantire l’ordine nel nostro condominio pubblico, e dunque la pace fra i condomini
Un conflitto di attribuzione non è una guerra nucleare. Serve piuttosto a garantire l’ordine nel nostro condominio pubblico, e dunque la pace fra i condomini. Perché restituisce chiarezza ai rapporti fra i poteri dello Stato, scolpendo il perimetro delle rispettive competenze. E perché le democrazie non temono i conflitti, al contrario dei regimi autoritari. Questi ultimi hanno la pessima abitudine d’occultarli, oppure di narcotizzarli. Le democrazie ne fanno viceversa uno strumento di crescita civile. E per dirimerli s’affidano alle regole giuridiche, anziché alla forza bruta. Dopotutto il diritto è esattamente questo: una tecnica di risoluzione dei conflitti. Ecco perché la Costituzione li contempla perfino al massimo livello dell’ordinamento, lassù dove torreggia la politica. Insomma sbaglieremmo a menare scandalo per la reazione parlamentare al caso Ruby, per il voto con cui la Camera si è appellata alla Consulta. L’uso di questo strumento processuale è fisiologico; semmai ne è patologico l’abuso. Nel 1961, quando lo Stato italiano festeggiava il suo primo secolo di vita, i conflitti tra poteri formavano una cifra tonda come un uovo: zero. Dieci anni dopo furono in tutto 2, vent’anni dopo 3. Ma nel 2000 ne contammo 42, e anche l’anno scorso— pur in flessione rispetto ai picchi precedenti — ne sono stati iscritti a ruolo 12. Colpa della rissa permanente fra politica e giustizia, che ha intossicato la Seconda Repubblica ben più della Prima. Ma questo clima avvelenato ci ha inoltre reso spettatori di un teatro dell’assurdo, di una fiera dell’ossimoro. Qual è infatti la materia del contendere fra il Parlamento e il tribunale di Milano? Non la competenza a processare Berlusconi, dato che le assemblee legislative non imbastiscono processi. Bensì la competenza a non processarlo, negando l’autorizzazione. Insomma il Parlamento non rivendica a se stesso un potere che altri stanno esercitando (vindicatio potestatis); lamenta piuttosto il cattivo uso del potere altrui, tale da ledere le proprie attribuzioni (conflitto da menomazione). Se infatti le telefonate del premier in questura integrano un reato ministeriale, dovrà occuparsene il tribunale dei ministri, che a sua volta può procedere soltanto se la Camera accende il verde del semaforo. Però, attenzione: in questo caso per illuminare il rosso non basta il fumus persecutionis; serve l’arrostus. Ossia serve dimostrare che Berlusconi abbia agito per tutelare l’interesse dello Stato. Da qui tre paradossi. Primo: la difesa «tecnica» del premier in realtà lo offende, lo fa passare per uno sprovveduto, per uno che beve la storiella della nipotina di Mubarak senza verificarla in sede diplomatica. Secondo: l’accusa d’incompetenza verso i giudici milanesi ne ribadisce, a conti fatti, la competenza a processare Berlusconi almeno per il reato di prostituzione minorile, che non ha niente a che spartire con gli affari di governo. Terzo: il ricorso sollevato dinanzi alla Consulta, anziché sancire il primato delle garanzie giurisdizionali, nega la legittimità della giurisdizione a processare la politica. Autorizzazione a procedere, ecco la posta in palio. Altro istituto di cui si è fatto strame (la Camera dice no 92 volte su 100). Servirebbe una riforma, servirebbe consegnare questa valutazione a un organo diverso dallo stesso Parlamento: nessuno può indossare contemporaneamente l’abito del giudice e quello della parte in causa. Vale per le Camere, vale per il Csm quando infligge sanzioni ai magistrati, vale per gli ordini professionali che dovrebbero castigare i propri iscritti. E come andrebbe costruito quest’organo imparziale? Coniugando sensibilità politica e competenze tecniche. Toh, proprio come la Consulta, dove siedono giuristi che bene o male hanno frequentato le stanze del Palazzo. Sicché la Camera, senza saperlo né volerlo, ha anticipato la riforma. Decidendo sulla competenza del tribunale dei ministri, la Consulta deciderà sull’autorizzazione a procedere verso Berlusconi. E per una volta potremo fidarci del responso.