Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2011  aprile 07 Giovedì calendario

Articoli usciti il 7 aprile 2011 in occasione delle dimissioni di Geronzi dalla presidenza delle Assicurazioni Generali CORRIERE DELLA SERA FEDERICO DE ROSA MILANO — La svolta è arrivata nella notte

Articoli usciti il 7 aprile 2011 in occasione delle dimissioni di Geronzi dalla presidenza delle Assicurazioni Generali CORRIERE DELLA SERA FEDERICO DE ROSA MILANO — La svolta è arrivata nella notte. Del tutto inattesa, nonostante il pressing di queste ultime settimane lasciasse presagire una scossa al vertice delle Generali. Ma non fino alle dimissioni di Cesare Geronzi. Che sono arrivate ieri mattina, a sorpresa, prima della riunione straordinaria del board convocato a Roma per chiarire proprio quelle questioni che nelle ultime settimane avevano portato a un’escalation dei contrasti tra presidente, management e consiglieri del Leone. Nella notte dieci firme in calce a una lettera hanno segnato il destino del presidente. Erano quelle dei consiglieri che annunciavano la decisione di sfiduciarlo. Il passo indietro è stata quindi una naturale conseguenza. La presa d’atto che il board non solo non avrebbe risolto i contrasti ma si sarebbe trasformato in un redde rationem. Così, poco prima che iniziasse la riunione, il presidente «ha ritenuto, dopo pacata riflessione, nel superiore interesse della compagnia, di rassegnare le dimissioni dalla carica ricoperta» . Poi è andato in consiglio. Al termine una nota della compagnia ha espresso i consueti ringraziamenti «per l’opera svolta» , riconoscendo però a Geronzi anche «la particolare sensibilità e l’alto senso di responsabilità dimostrati nel compiere questo gesto che mira a incidere favorevolmente sul clima aziendale» . In Borsa la notizia ha provocato uno strappo del titolo Generali, arrivato a guadagnare oltre il 4%. Pare che Geronzi non si aspettasse un gesto così clamoroso come la sfiducia. Che è stata costruita sottotraccia, senza lasciare trapelare nulla, al di là della volontà di dare una sterzata alla governance del Leone, di cui Diego Della Valle si è fatto promotore e interprete, trovando via via consensi all’intero del board, incluso quello dell’amministratore delegato di Mediobanca, Alberto Nagel. Ieri il patron del gruppo Tod’s è stato ovviamente soddisfatto per l’esito del lavoro svolto in questi mesi a Trieste per imprimere un cambiamento. Quella di ieri è quindi una giornata storica, una svolta, l’avrebbe definita Della Valle, non solo per le Generali ma per il Paese. Geronzi, che si è dimesso anche dal consiglio dei patti di Pirelli, Rcs MediaGroup e Rcs Quotidiani, manterrà la carica di presidente della Fondazione Assicurazioni Generali. Ieri, al termine del consiglio, nel palazzo romano delle Generali ha ricevuto la visita del sottosegretario all’attuazione del programma, Daniela Santanchè. Certo arrivare alla svolta non è stato semplice e soprattutto il passo indietro del banchiere romano non era scontato. I vicepresidenti Vincent Bolloré e Francesco Gaetano Caltagirone hanno tentato fino all’ultimo una ricomposizione. Ma il tentativo del finanziere bretone di spostare il mirino sul ceo della compagnia, Giovanni Perissinotto, e sui rapporti tra le Generali e il socio Petr Kellner per rispondere alle accuse di Della Valle, ha finito per esasperare ancora di più il clima. Ieri l’oligarca ceco, patron del gruppo Ppf, ha auspicato «l’inizio di una nuova fase» a Trieste «in cui la compagnia possa tornare a concentrarsi completamente sul proprio business» . Alla vigilia del board Bolloré si sarebbe convinto che ulteriori tentativi di difesa di Geronzi non solo non avrebbero trovato sponde ma avrebbero rischiato di aprire un nuovo fronte in Mediobanca, primo socio del Leone, di cui il finanziere è azionista e consigliere. Ieri sono circolate voci che davano anche Bolloré dimissionario, e invece «sono ancora vicepresidente» ha dichiarato all’uscita dal consiglio. Anche Caltagirone, nominato ieri presidente ad interim della compagnia, avrebbe preso atto che non c’era spazio per tentare una ricomposizione. Per la svolta vera e propria, tuttavia, bisognerà attendere qualche giorno. Domani è in programma un consiglio delle Generali che dovrebbe procedere alla cooptazione del nuovo presidente. La carica verrà però attribuita dopo l’assemblea del 30 aprile. Ieri sono circolati diversi nomi, tra cui quello di Alessandro Profumo e del vicepresidente di Unicredit, Fabrizio Palenzona, ma secondo alcune voci la rosa sarebbe ristretta a Gabriele Galateri di Genola, Mario Monti, Domenico Siniscalco e Alberto Quadrio Curzio. Federico De Rosa SERGIO BOCCONI MILANO— La «fase finale» è cominciata fra sabato e domenica. Dopo le polemiche, le dichiarazioni aspre, l’astensione sul bilancio di Vincent Bolloré, l’iniziativa dei consiglieri che ha portato al board straordinario, nel weekend Alberto Nagel e Lorenzo Pellicioli, numeri uno rispettivamente di Mediobanca e del gruppo De Agostini, hanno messo a punto una raccolta di consensi per una soluzione che non prevedesse fasi intermedie, opzioni rivedibili o parziali: le dimissioni di Cesare Geronzi dalla presidenza di Generali. Il punto di non ritorno, hanno convenuto, è superato e bisogna riportare la compagnia alla «normalità» . La raccolta di adesioni che ha portato alla lettera «di sfiducia» con 10 firme di amministratori, che poi non è però andata agli atti perché Geronzi si è dimesso prima del consiglio, si è svolta fra lunedì e ieri mattina. Con incontri che hanno visto protagonisti «fissi» Nagel, Pellicioli e il direttore generale di Piazzetta Cuccia Francesco Saverio Vinci. In particolare martedì sera, quando tutti i protagonisti si sono trasferiti a Roma, all’ora di cena Nagel, Pellicioli e Vinci si sono incontrati con il vicepresidente del Leone Francesco Gaetano Caltagirone. E in seguito sono stati raggiunti dal segretario della Fondazione Crt Angelo Miglietta (Effeti), dall’imprenditore di Tod’s Diego Della Valle e così, con appuntamenti «circolari» che sono proseguiti fino a tarda notte. Ieri mattina, infine, l’ultimo colloquio, con Bolloré, vicepresidente del Leone di Trieste e capofila dei soci francesi di Mediobanca. Le «resistenze» , prevedibili, di Caltagirone e Bolloré, hanno lasciato spazio alla presa d’atto che all’interno del consiglio si era formata nel board delle Generali una maggioranza decisa alla svolta. Il vicepresidente francese in particolare all’inizio ha opposto resistenze ma alla fine ha seguito lo stato dei fatti. Agli stessi amministratori che qualche giorno prima hanno firmato le lettere per la convocazione del consiglio straordinario di chiarimento, i tre indipendenti nominati da Assogestioni, Cesare Calari, Carlo Carraro e Paola Sapienza, Diego Della Valle, Pellicioli, Miglietta, il partner ceco Petr Kellner, Reinfried Pohl, hanno aggiunto le firme determinanti (dato che Mediobanca è il primo azionista a Trieste con il 13,4%) Nagel, vicepresidente della compagnia, e Vinci. In più è stato considerato per certo il consenso del top management del Leone: il group ceo Giovanni Perissinotto e l’amministratore delegato Sergio Balbinot. Contattati, non hanno invece aderito all’iniziativa di Nagel e Pellicioli, l’amministratore delegato dell’Eni Paolo Scaroni e il giurista Alessandro Pedersoli, originariamente indicato per il board di Trieste da Intesa. Il primo si è limitato a prendere atto della situazione, il secondo avrebbe invece preferito una ricucitura in extremis, che però è stata giudicata ormai impossibile. Il «conto della sfiducia» alla fine non ha presentato dubbi: a favore delle dimissioni di Geronzi ci sono 12 sui 17 componenti attuali, dopo le uscite nel pieno delle polemiche dell’imprenditore di Luxottica Leonardo Del Vecchio e di inizio settimana di Ana Botin, figlia di Emilio, il patron del gruppo bancario spagnolo Santander, che ha lasciato Trieste alla vigilia del confronto finale dopo essere stata chiamata nel board della compagnia dall’ex presidente Antoine Bernheim. A preannunciare la situazione, probabilmente non del tutto attesa, a Geronzi è stato ieri mattina Caltagirone. Poi Nagel e Pellicioli hanno presentato la lettera. E il breve negoziato ha avuto inizio. Il presidente ha manifestato una certa sorpresa ma la sua reazione è stata descritta come estremamente professionale. Caratterizzata da compostezza e forse attraversata anche da un certo sollievo. Lascerà tutte le cariche, comprese quelle nei consigli e nei patti delle società partecipate. Ma conserverà la presidenza della Fondazione Generali. Una simile «fase finale» non era proprio stata messa in conto da nessun osservatore delle vicende del Leone. Lo stupore per l’inusuale situazione di conflittualità che si era creata negli ultimi mesi, così poco in sintonia con le tradizioni della compagnia triestina che pure nei decenni ha visto passaggi di testimone ai vertici anche bruschi e inattesi, non ha comunque sollecitato fino a ieri ipotesi di una simile soluzione. Costruita da Mediobanca, che ha svolto così il proprio ruolo istituzionale, muovendo in modo silenzioso e discreto a favore di un cambio culturale e generazionale; che ha visto il supporto di Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit con ampi e consolidati rapporti con il mondo della politica e quello delle Fondazioni; e che è stato seguito con attenzione e per versi «accompagnato» dal ministro delle Finanze Giulio Tremonti, che aveva dato il proprio via libera al passaggio di Geronzi da Mediobanca a Generali e oggi ha guardato con favore alla sua uscita dalla più grande compagnia di assicurazioni italiana. Sergio Bocconi GIU.FER. MILANO— Alla fine i francesi hanno scelto Mediobanca. E l’amicizia per il presidente Cesare Geronzi, che pure resta, si è inchinata al pragmatismo. Question d’argent. Gli azionisti d’Oltralpe, che custodiscono il 10%nel patto di Piazzetta Cuccia e di cui Vincent Bolloré è capofila con un pacchetto del 5%e l’autorizzazione a salire fino al 6%, non hanno fatto altro che difendere il proprio investimento. Con molto realismo i francesi hanno puntato su Mediobanca e sul suo sviluppo, e quindi sulle Assicurazioni Generali, che ha nella banca d’affari il primo azionista con il 13,47%. Una partecipazione centrale per gli equilibri della compagnia assicurativa che venerdì affronterà il passaggio della successione. Continuare da soli nella crociata contro il management di Generali avrebbe esposto i francesi al rischio di trasferire il conflitto anche in seno a Piazzetta Cuccia. Perciò tant pis per il presidente, che pure fin qui era stato sostenuto a spada tratta. Con atti tanto inconsueti per il mondo austero del Leone quanto plateali, culminati con l’astensione dal voto sul bilancio 2010 da parte di Bolloré, vicepresidente della compagnia dall’aprile del 2010, ma solo in quanto azionista di Mediobanca. In Generali infatti l’uomo d’affari d’Oltralpe possiede solo una piccola partecipazione. Giu. Fer. S.BO. MILANO — A rileggerla oggi, quella frase, si capisce come la storia a Trieste non è andata secondo gli intendimenti di Cesare Geronzi. È il novembre 2010 e il banchiere spiega così nel corso di una lectio magistralis alla Sapienza il suo arrivo alla presidenza del Leone: «Mi ci hanno mandato, i soci hanno voluto dimostrare la loro fiducia dopo che avevo portato la pace per Mediobanca e Generali» . Questa volta no. Geronzi è stato spinto alle dimissioni proprio perché la situazione conflittuale che si è creata negli ultimi mesi al vertice della compagnia di assicurazioni richiedeva una soluzione immediata. Un ritorno alla pace, appunto. Il banchiere ha accusato il colpo. Ed è la prima volta che accade: Geronzi ha attraversato decenni di grande finanza italiana acquisendo passo dopo passo una crescente influenza. Spesso trasversale, sia nel mondo delle banche sia in quello della politica. Quando Beniamino Andreatta disse di lui ai suoi colleghi parlamentari «ne sentirete parlare» , Geronzi era un quarantenne con una posizione ambita alla Banca d’Italia, dov’era entrato nel 1960. È l’uomo del fixing e il governatore Guido Carli lo spedisce in Svizzera a imparare. E per lui, nato a Marino nei Castelli romani nel febbraio del 1935, Via Nazionale è il vero trampolino di lancio. Qui fra gli altri incontra Antonio Fazio, con il quale avrà un lungo sodalizio interrotto solo nel 2005 quando l’ex Governatore sceglie Gianpiero Fiorani della Lodi come suo banchiere di fiducia. Rinaldo Ossola lo porta al Banco di Napoli. E da qui passa alla Cassa di risparmio di Roma. Un «trasloco» che segna la sua vera ascesa. Banca pubblica che ha in Giulio Andreotti un punto di riferimento, sotto la regia di Geronzi diventa pivot di una serie di operazioni e privatizzazioni che, aggregando il Banco di Santo Spirito e il Banco di Roma, porta alla costituzione della Banca di Roma, di cui diventa presidente. Ma il banchiere non si ferma e la tappa successiva è la nascita di Capitalia (Banca di Roma, Bipop e Banco di Sicilia) che Geronzi affida al giovane top manager (ex Mediobanca) Matteo Arpe per una profonda ristrutturazione. Ma i rapporti fra i due si incrinano e nel 2007 il presidente accusa il capoazienda di muoversi in eccessiva autonomia. Ne segue la rottura e l’ultima «fusione» di Geronzi, che consegna Capitalia alla Unicredit di Alessandro Profumo. Passo che lo conduce alla presidenza di Mediobanca prima nella sua governance dualistica poi nella versione ritornata tradizionale dopo un negoziato che ha portato nel board i top manager della banca d’affari. Infine, l’ultimo passaggio: quello a Trieste. Fino all’ultimo Geronzi nega l’interesse per la presidenza della più grande compagnia di assicurazioni d’Italia. Ma alla fine si trasferisce al vertice del Leone. Tuttavia, mentre in Mediobanca i rapporti con i manager e in particolare con l’amministratore delegato Alberto Nagel restano distanti ma senza che si consumino sensibili rotture, in Generali la storia del banchiere di Marino si scontra con l’orgoglio triestino. Le differenze nel dna non vengono «mediate» dalla diplomazia, e abbastanza velocemente i rapporti con il group ceo Giovanni Perissinotto e con il direttore generale Raffaele Agrusti passano dalla diffidenza a una sotterranea rottura. Che poi diventa manifesta soprattutto dopo l’intervista al Financial Times dove Geronzi, presidente senza deleghe operative, prefigura per Generali un ruolo di società di sistema citando fra le operazioni possibili anche la partecipazione al Ponte sullo stretto di Messina. Le vicende che portano alle dimissioni di Geronzi fanno parte della cronaca più recente e segnano per il banchiere fra i più influenti d’Italia una battuta d’arresto di significato importante anche per la grande finanza italiana. Ma ad attendere Geronzi ora ci sono anche altri banchi di prova. Tra fine maggio e i primi di giugno dovrebbe andare a sentenza di primo grado il processo per il crac Cirio, nel quale il pm ha chiesto per il banchiere otto anni di reclusione. Un’eventuale condanna a questo punto non avrà più riflessi sulla «reputazione» internazionale della compagnia. E del resto non avrebbe avuto ripercussioni formali nel caso Geronzi fosse rimasto in sella: i criteri di onorabilità che sono in vigore nel settore bancario, e che hanno portato Geronzi, in seguito ai casi Parmatour e Ciappazzi, alla sospensione (seguita da riammissione) quando era alla presidenza di Capitalia e vicepresidenza di Mediobanca, non sono stati estesi anche alle compagnie di assicurazioni. S. Bo. F.D.B. La sconfitta di Cesare Geronzi segna una data storica, diremmo epocale se l’aggettivo non fosse abusato, nelle vicende del malcerto capitalismo di relazioni di questo paese. Il presidente uscente delle Generali è uomo di grande cortesia e al telefono a tarda sera dissimula tutta la delusione per l’andamento del consiglio che l’ha sfiduciato. Non sembra esserci traccia nel suo umore delle lunghe e drammatiche ore trascorse in quella piazza Venezia, così carica di suggestioni storiche, che nel suo disegno doveva diventare il quartier generale di una multinazionale di sistema. Disegno detestato e osteggiato dal management, da molti consiglieri, e infine dall’azionista Mediobanca e considerato da molti il modo per difendersi, passando da una banca a una assicurazione con requisiti di onorabilità più laschi, da una possibile condanna penale nel caso Cirio (otto anni richiesti). Trieste, la sede storica delle Generali, è lontana, lontanissima. Un altro mondo, forse quello che lui non ha capito. Una compagnia di assicurazioni, che non a caso ebbe tra i suoi dipendenti Franz Kafka, è radicalmente diversa da un istituto di credito, per giunta romano. Geronzi ricorda che le Generali sono state sempre terreno di battaglie aspre per i presidenti di carattere che hanno voluto svolgere il loro ruolo. E, al contrario, un’oasi per quelli di campanello o per vanesi parrain d’Oltralpe. Si riferisce a Cesare Merzagora, che fu anche democristiano presidente del Senato? Sì, ma non c’è bisogno di tornare così indietro, dice. Il caso più vicino è quello dell’inusuale decisione di Banca d’Italia, azionista delle Generali, e del governatore Antonio Fazio, amico per anni dell’ex numero uno di Capitalia, di astenersi nell’assemblea che nel 2001 portò alla sostituzione di Alfonso Desiata con Gianfranco Gutty. «Il destino dei presidenti che, come me, hanno cercato di capire le cose» . Le Generali muovono una massa di investimenti rilevante. Coagulano interessi e, sottolinea, molti, troppi conflitti d’interesse. O interessi contrapposti. Gli scontri fanno parte della storia della più grande compagnia d’assicurazioni italiana ma, aggiunge sempre con quella serenità che sembra non abbandonarlo mai, «diciamo che non potevo accettare che scendessero a livelli così beceri. Non ho voluto scrivere una delle più brutte pagine della storia dell’establishment italiano» . Geronzi ricorda, dando la sensazione di essersi liberato di un peso ormai insopportabile, le decisioni della sua pur breve esperienza di assicuratore. In particolare: il comitato di valutazione degli investimenti e quei momenti, contestati, di controllo della gestione, attuati in seguito alle lettere o alle richieste delle autorità di vigilanza, l’Isvap e la Consob. E alla fine, commenta: la verità è che la compagnia è eterodiretta. L’accusa non è lieve. Tutto finito? «No, non è ancora stato scritto il capitolo finale» . L’ «arzillo vecchietto» , definizione usata in pubblico dal suo rivale, ieri vincitore, Diego Della Valle, non sembra rassegnarsi alla pensione. Non parla dei suoi molti nemici, ex alleati, si limita a dire, con una punta di perfidia, che il nuovo che avanza è formato da una «gioventù anziana» , dalla quale non c’è da aspettarsi granché. Chi vivrà vedrà. GIULIANA FERRAINO MILANO— La nuova stagione delle Generali comincia subito. Entro domani sera sarà scelto il nuovo presidente al posto del dimissionario Cesare Geronzi, che andrà a guidare la Fondazione del Leone. I consiglieri avrebbero già individuato una rosa di candidati potenziali, tutti al di fuori del board del gruppo assicurativo. Per risolvere la successione è stato convocato un nuovo consiglio di amministrazione domani a Roma, alle 18. Ma il toto nomine già impazza. L’ipotesi più accreditata indica Gabriele Galateri di Genola, attuale presidente (in scadenza) di Telecom Italia e in procinto di traslocare con lo stesso ruolo in Telco, la holding di controllo della compagnia telefonica. Ma Galateri è soprattutto l’ex presidente di Mediobanca, colui che ha riportato la pace dopo lo scontro culminato con l’uscita di Vincenzo Maranghi e ha poi accompagnato la svolta nella governance della banca d’affari. Da presidente di Piazzetta Cuccia, con Alberto Nagel e Renato Pagliaro, entrambi direttori generali, Galateri ha ricoperto anche la carica di vicepresidente del Leone. Tra i candidati circola anche il nome dell’economista Alberto Quadrio Curzio, docente di economia politica delle istituzioni presso la facoltà di scienze politiche dell’Università Cattolica di Milano. Un’altra possibilità presa in considerazione in queste ore è quella di Mario Monti, ex commissario europeo (prima al Mercato interno, poi all’Antitrust) e attuale preside dell’Università Bocconi. L’attivismo delle ultime settimane ha però fatto guadagnare una candidatura potenziale anche a Fabrizio Palenzona, vicepresidente di Unicredit per conto della Fondazione Crt. La banca di Piazza Cordusio è il primo azionista di Mediobanca, a sua volta socio di riferimento delle Generali. E il Leone è tra l’altro uno degli ultimi investimenti della Fondazione Crt, che ha anche un rappresentante in consiglio (Angelo Miglietta). Non mancano, però, altre ipotesi. Come quella che per la presidenza delle Generali suggerisce il nome di Domenico Siniscalco, ex ministro dell’Economia, oggi presidente di Assogestioni e vicepresidente di Morgan Stanley International, dove riveste anche il ruolo di Country Head per l’Italia. Un altro profilo di mercato è anche quello di Alessandro Profumo, ex amministratore delegato di Unicredit, finito anche lui nel carnet dei candidati possibili, ma forse troppo operativo per un presidente senza deleghe. Giuliana Ferraino MASSIMO MUCCHETTI Non è finita a tarallucci e vino, ma con un incasso di 20 milioni. In proporzione, i 12 mesi di presidenza non esecutiva di Generali hanno reso a Cesare Geronzi il triplo dei 15 anni di Alessandro Profumo in Unicredit. Ma gli amministratori di Generali, che lavorano con i capitali di un azionariato diffuso, avranno considerato il costo di ulteriori tensioni tra il presidente e il top management. Geronzi conclude un’avventura ventennale, di cui vale la pena ricordare l’esordio e il culmine. L’esordio risale ai primi Anni 90 quando, auspice il governatore Carlo Azeglio Ciampi, Geronzi porta Cariroma ad acquisire dall’Iri il Santo Spirito e il Banco di Roma. Ecco il cireneo che porta la croce per la stabilità degli intermediari, fine ultimo della Banca d’Italia. Ma quelle croci fanno del ragioniere di Marino l’ecumenico banchiere dei partiti e dei giornali. Il rendiconto del dare e l’avere in materia è ignoto. Certo è che Geronzi, matrice democristiana, conquista il Psi con l’acquisizione delle due banche Iri; poi Silvio Berlusconi, sistemando Mediolanum; infine l’ex Pci dalemiano e il "manifesto", ristrutturandone i debiti. Sui giornali si affaccia con la concessionaria di pubblicità Mmp, in società con la Stet di Ernesto Pascale, per sostenere testate di partito, religiose e d’informazione. Capitalia prende anche quote in Class Editori e Rcs MediaGroup mentre il rapporto con L’Espresso è garantito fino alla sua scomparsa da Vittorio Ripa di Meana, legale suo e di Carlo De Benedetti. Più tardi, quando Profumo e Renato Pagliaro, ora presidente di Mediobanca, manifesteranno riserve sulla presenza delle banche nei media, Geronzi ribadirà il suo favore. E si rivelerà talvolta meno pronto all’accordo con Palazzo Chigi di alcuni industriali. Il momento dello splendore, a dispetto dei conti, il banchiere lo raggiunge nel 2003 quando, con l’aiuto di Profumo e di un altro governatore, Antonio Fazio, riesce a defenestrare Vincenzo Maranghi in Mediobanca. Il delfino di Enrico Cuccia, pago della liquidazione di legge e delle ferie arretrate, caccia chi l’aveva offeso proponendogli una ricca buona uscita. Ma è proprio da quel successo che inizia la sotterranea erosione delle basi materiali del suo potere. In Capitalia cresce la stella di Matteo Arpe: anno dopo anno, Arpe gli toglie il potere di fare credito attraverso dirigenti proni. Fuori, nel 2005, si consuma la rottura con Fazio: ironia della storia, Geronzi si trova dalla stessa parte di Diego Della Valle, il suo grande accusatore di oggi, contro l’Unipol che vuol scalare Bnl e contro Ricucci che rastrella azioni Rcs, peraltro senza speranze secondo Guido Rossi. La nomina a governatore di Mario Draghi non migliora le cose. Le sospensioni provvisorie dagli incarichi, dovute ai guai giudiziari, e la cessione di Capitalia a Unicredit per tagliare la strada ad Arpe completano il processo. Le presidenze di Mediobanca e poi di Generali alimenteranno la leggenda dell’uomo che con il telefono dirige l’alta finanza, ma Cuccia— che era Cuccia— ricordava come l’influenza di Mediobanca derivasse metà dai consigli, metà dai denari. A Milano e Trieste Geronzi non ha mai avuto le chiavi della cassa. In questi ultimi anni, la sua forza è stata soprattutto il rapporto con Giovanni Bazoli. Al presidente di Intesa Sanpaolo ha offerto una sponda con la Banca d’Italia di Fazio e con i governi del centrodestra ricevendone in cambio un’altra per non rimanere schiacciato dai suoi storici rapporti con il mondo berlusconiano. Ma non si può costruire l’equilibrio del sistema senza riuscire a garantire nelle società di provenienza. Tanto più che Geronzi era salito al Nord proponendosi come il pacificatore di Milano. Bazoli ha costruito la prima banca italiana senza recidere il legame con il mondo cattolico del Nord oggi rappresentato dalle fondazioni. Ha assorbito la laica Comit. Il fatto che questa avesse problemi e, in precedenza, avesse cercato di prendersi la Cariplo non gli evitò l’irritazione di piazzetta Cuccia. Ma quando, anni fa, ebbe la possibilità di comprare le azioni Mediobanca dei francesi, allora pari al 25%, lasciò perdere. Geronzi, invece, ha preteso di comandare in due aziende, Mediobanca e Generali, che poco hanno in comune con la sua cultura e il suo stile. E questo, alla fine l’ha perduto. Un uomo con una tale biografia non lascia eredi. Ma pone due domande. La prima: senza Geronzi, potrà sopravvivere il geronzismo? La risposta è no. C’è, è vero, Fabrizio Palenzona. Ma l’uomo ha un’altra storia, iniziata con una piccola impresa di autotrasporto e la sinistra sociale democristiana del Nord e poi proseguita fino alle relazioni con Gianni Letta e con Giulio Tremonti, restando tuttavia nel centrosinistra. La finanza l’ha imparata da Maranghi, principe della banca privata. Gode della fiducia della Fondazione Crt, pur essendone fuori da anni, perché Unicredit è merito di Profumo, ma anche suo e di Paolo Biasi, il presidente della fondazione Cariverona. La cartina di tornasole delle novità potrebbe essere Rcs Mediagroup, che il vicepresidente di Unicredit si augura diventi una public company con i giusti statuti a protezione dell’indipendenza del "Corriere"o vada a un editore puro: una posizione in contrasto con Della Valle, il grande accusatore di Geronzi che in Rcs vorrebbe crescere. La seconda domanda è: che cosa cambia in Generali e Mediobanca? La risposta è: parecchio. A lanciare l’offensiva pubblica contro Geronzi è stato il signor Tod’s. Ma la base materiale della svolta risale alla caduta di Profumo, che riporta Unicredit nei giochi finanziari. Il primo passo pesante è stato il salvataggio del gruppo Ligresti, da sempre legato a Geronzi e potenzialmente alleato di Bolloré e Groupama, soci rilevanti di Mediobanca. Ora in piazzetta Cuccia si preparano a ridefinire i rapporti con i soci francesi. Se ci sarà accordo sul prezzo, qualche imprenditore italiano potrà comprare. In ogni caso, in Mediobanca già sono presenti le fondazioni bancarie, che potrebbero garantire l’appoggio esterno a un patto di sindacato anche meno largo dell’attuale in cambio di una più proporzionata presenza in consiglio. Giovanni Perissinotto e Alberto Nagel possono tentare di costruire una rete di azionisti dipendenti dalla compagnia e dalla banca o per i denari ricevuti o per un buon affare procurato. Ma sarebbe un ritorno al passato quando l’asse Mediobanca-Generali aveva il monopolio della finanza italiana. Il mondo è cambiato. E i due capi azienda parlano di sviluppo e di modernità. Certo è che, senza più il "corpo estraneo"Geronzi, cade anche ogni possibile alibi se le performance non saranno all’altezza. Massimo Mucchetti MARIO GEREVINI MILANO— Ieri un tizio di Paderno d’Adda, in provincia di Milano, ha guadagnato quasi un milione e mezzo di euro dopo le dimissioni di Cesare Geronzi. Che cosa ha fatto? Nulla. Semplicemente c’è stato un balzo del 4%dei titoli (che poi hanno chiuso con un +2,97%a 15,93 euro). D. F., 40 anni, un perfetto sconosciuto (per questo omettiamo il nome) ha una montagna di milioni in titoli Generali: esattamente 34 milioni di euro ai prezzi di ieri. Vuol dire che a ogni impercettibile colpetto del titolo (+0,1%o -0,1%) guadagna o perde 34 mila euro. Roba da cardiologo per una persona normale. I milionari in azioni Generali sono tanti (per esempio Veronica Lario, moglie di Silvio Berlusconi) ma a livello del riccone di Paderno d’Adda di solito si trovano solo fondi di investimento, banche, assicurazioni. E a proposito di movimenti di un certo livello ci sono alcune novità che potrebbero emergere nell’assemblea ormai alle porte dove tuttavia i primi azionisti non dovrebbero riservare sorprese (Mediobanca 13,5%, Bankitalia 4,5%e poi poco sopra il 2% Balckrock, De Agostini, Effeti, Caltagirone e Kellner). A libro soci, per esempio, risulta che Bnp Paribas abbia almeno l’ 1,5%, Société Générale arriva all’ 1%e poco sotto c’è Cnp Assurance, per un totale (ma l’accorpamento è arbitrario) del 3,5%. Ma per le banche occorre fare la tara a eventuali portafogli di depositari. Come, per esempio, nel caso di Unicredit che l’anno scorso dopo aver comunicato l’addio al Leone e la cessione di gran parte della quota (2,26%) a Effeti (joint tra Fondazione Crt e Ferak) ha raccolto in Lussemburgo un pacchetto appena sotto il 2%e con quello è andato a staccare il dividendo. «Solo depositanti» , dicono in piazza Cordusio. Facciamo i conti? 500 milioni il valore delle quote dei «depositanti» lussemburghesi, non male. I cinesi, invece, sono entrati per conto proprio, hanno tirato fuori 250 milioni e si sono portati a Pechino, sede della People’s Bank of China l’ 1%di Generali. Mai erano comparsi finora a Trieste. Pbc è l’istituto centrale che governa le politiche monetarie ma è ritenuto anche l’investitore istituzionale con le maggiori disponibilità al mondo. Era già entrata in Unicredit con un investimento di 100 milioni. E il Banco Madesant che risulta avere anch’esso l’ 1%? Così dice poco ma se risaliamo alla casa madre si capisce meglio: è il Santander di Emilio Botin (la figlia Ana si è appena dimessa dal cda del Leone). E il Ministero dell’Economia? Giulio Tremonti che è a caccia di soldi forse si è dimenticato di quel pacchettino di Generali che oggi ha la stessa consistenza di quello del quarantenne di Paderno d’Adda: 32 milioni. Ma il Ministero dell’Economia ce l’ha da una vita, anche quando il titolo era oltre i 30 euro, cioè il doppio di adesso. E non l’ha mai toccato. Chissà se invece Veronica Lario (Miriam Bartolini all’anagrafe) ha mosso i suoi titoli. Ha tre milioni di euro investiti a Trieste ma, ovviamente, non è la sola vip. Luca di Montezemolo, per dire, ha un milioncino sul conto di Banca Intermobiliare. E poi a Milano, in via Brera, una signora di 96 anni e mezzo custodisce un tesoretto da 7 milioni di euro, tutto in azioni Generali. Gli eredi probabilmente non lo sanno. Mario Gerevini mgerevini@corriere. it © RIPRODUZIONE RISERVATA LA STAMPA FRANCESCO MANACORDA Cesare, alla tua età e con la tua storia non ti conviene rimanere in un ambiente dove non puoi lavorare». «Guardate, io non sono il tipo che va in consiglio a scontrarsi... Se le cose stanno così, nell’interesse della compagnia, preferisco presentare le mie dimissioni». Ufficio di Cesare Geronzi al terzo piano di piazza Venezia, le nove e trenta di ieri mattina. Di fronte al presidente delle Generali ci sono l’ad di Mediobanca Alberto Nagel, che della compagnia è vicepresidente e primo azionista con il 13,5%, e il consigliere Lorenzo Pellicioli che rappresenta il socio De Agostini. Hanno in mano una mozione di sfiducia al presidente con almeno 10 firme sui 17 consiglieri, ma non avranno nemmeno bisogno di tirarla fuori. La resa, come sempre nelle grandi battaglie, è un affare di silenzi più che di parole. Nagel& Pellicioli, sono loro la coppia che già da sabato scorso, in maniera riservatissima ma serrata, ha messo a punto il blitz contro Geronzi - considerato ormai un rischio per la compagnia - e quello che un protagonista definisce il suo «golpe strisciante» sul Leone. E adesso, prima ancora si riunisca il consiglio straordinario che dovrebbe trattare proprio lo scontro nelle Generali, è il momento di affrontare il presidente. Lui, che solo pochi minuti prima ha saputo del blitz da una visita del vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone in veste di ambasciatore, è sorpreso ma non spiazzato. E’ arrivato alle Generali da meno di un anno, proposto proprio da Mediobanca, e da allora - lamentano gli insorti di piazza Venezia - non ha fatto che destabilizzare la compagnia, con interviste e interventi poco adatti a un presidente non esecutivo, voci malevole sul management guidato dall’amministratore delegato Giovanni Perissinotto, e poi quello che viene considerato l’atto più grave: il lancio del kamikaze Vincent Bolloré contro il bilancio del gruppo nel cda del 16 marzo. Un attacco motivato ufficialmente dai dubbi del vicepresidente francese della compagnia sull’accordo di Generali con la ceca Ppf ma dietro il quale molti vedono la mano del presidente. Dopo gli scontri in crescendo, il 29 marzo scorso si fa il punto in Mediobanca. In una riunione del comitato nomine, presenti Nagel e i grandi soci di piazzetta Cuccia - Bolloré compreso, che in quella banca pesa per oltre il 5% - si fa il punto della situazione. I manager Mediobanca decidono che dopo quanto è accaduto bisognerà «tagliare le unghie» allo stesso Bolloré e a Geronzi: una censura, magari, per il primo che già si mostra contrito; una decisa riduzione delle deleghe per il presidente. Poi, sabato scorso, qualcosa cambia. Perché? In Mediobanca si comincia a ragionare sul fatto che un Geronzi ferito è più pericoloso di un Geronzi tranquillo o definitivamente neutralizzato. Una visione che nasce dall’esperienza già avuta con il banchiere di Marino alla presidenza di Mediobanca e alla quale non è estranea nemmeno la nuova vocazione interventista di Unicredit che nel consiglio di piazzetta Cuccia ha il suo presidente Dieter Rampl e il vicepresidente Fabrizio Palenzona - e che vuole giocare un ruolo rafforzato nella Galassia del Nord. L’inserimento di Geronzi in Generali - prende atto Nagel, che del resto già un anno fa non pensava fosse una buona idea - non ha funzionato. Lo ritiene anche Pellicioli, stanco delle estenuanti battaglie che da undici mesi drenano l’energia dei soci e paralizzano Perissinotto e i suoi uomini. È una battaglia di potere ma è anche la rivolta dei tecno-cinquantenni - una media, Nagel ne ha 47, Pellicioli va per i 60, il «guastatore» Diego Della Valle che da mesi si distingue per le sue dichiarazioni anti-Geronzi, e Perissinotto ne hanno cinquantotto contro quel potere capitolino vecchissimo ed apparentemente eterno incarnato oggi nel settantaseienne Geronzi. «Il nostro è anche un contributo al cambiamento culturale e generazionale», commenta uno dei «congiurati». E per Mediobanca, dove si rifuggono con un’alzata di spalle le facili suggestioni edipiche che vogliono i figli ormai pronti a uccidere simbolicamente quel padre così ingombrante, si tratta solo di rivestire in pieno il proprio ruolo istituzionale di primo azionista del Leone, mettendo a punto una governance efficace che consenta alla compagnia di crescere e - particolare non indifferente - staccare dividendi. Da sabato sono telefonate, contatti, prudenti sondaggi ma anche la massima attenzione perché Geronzi non capti il pericolo. Il blitz viene reso noto a tutti i consiglieri solo nella serata di martedì, con un vertiginoso valzer di incontri romani. Alle 20 Nagel, il direttore generale di Mediobanca Leonardo Vinci, Pelliccioli si ritrovano a pranzo nella foresteria della banca, in piazza di Spagna, con Caltagirone. Da lui arriva una posizione di sostanziale equilibrio, riconosciuta da tutto il cda: non vuole che Geronzi sia messo alla gogna ma non difenderà certo ad oltranza il presidente. Poi si aggiungono Della Valle e Miglietta, il cui consenso sull’operazione è scontato. Due ore dopo Nagel incontra faccia a faccia Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni e influente consigliere indipendente del Leone: un altro via libera. A mezzanotte i «congiurati» si ritrovano tutti o quasi sono nel palazzone di via Bissolati 23, cuore di Roma, dove c’è la sede di Ina-Assitalia, controllata del Leone. Con loro anche i tre uomini al vertice operativo delle Generali: Perissinotto, Balbinot e Agrusti. Si smorzano gli ardori di chi vorrebbe una punizione esemplare per Bolloré. Si spara è la linea del cacciatore Nagel - al «bersaglio grosso». Ieri mattina l’ultimo faccia a faccia con Bolloré: lui difende fino all’ultimo, o quasi, Geronzi. Poi in cda si preoccuperà di smarcarsi dal ruolo di guastatore: «Se i chiarimenti dati dalla compagnia vanno bene alla Consob e all’Isvap, anche io sono soddisfatto». Bolloré è salvo, Geronzi è fuori, Nagel ha centrato il bersaglio e non teme che la battaglia di Trieste si sposti adesso come prevedono invece molti - ai piani alti di Mediobanca. FRANCESCO SPINI La notizia irrompe nei palazzi della finanza e della politica che è da poco passato mezzogiorno: il presidente delle Generali Cesare Geronzi si è dimesso. La svolta clamorosa, improvvisa e inattesa un terremoto senza precedenti nel sistema del potere finanziario del Paese - avviene in mattinata. Il banchiere, per la prima volta, è messo alle strette. Viene avvertito che, nel consiglio convocato di lì a poche ore per dirimere il duro conflitto che negli ultimi mesi lo ha visto contrapposto ai manager e ad alcuni azionisti, sarà presentata una mozione di sfiducia appoggiata dalla maggioranza dei consiglieri. Pronti a votarla ci sono soci privati come Diego Della Valle - il Masaniello della rivolta contro la sua gestione -, Lorenzo Pelliciascun giorno passato alla compagnia del Leone. Via il presidente, la guida ad interim passa al vicepresidente vicario Francesco Gaetano Caltagirone. Ma i grandi soci vogliono designare il successore prima dell’assemblea del 30 aprile. Il consiglio si riunirà già domani per decidere: Gabriele Galateri, presidente uscente di Telecom Italia, è il candidato più gettonato. Ma si fanno anche i nomi dell’ex ministro Domenico Siniscalco, dell’economista Mario Monti e del giurista Alessandro Pedersoli. Dopo il passo indietro di Geronzi, la nota ufficiale di commiato si affida ai formalismi, ricalcando in parte la lettera di dimissioni. L’addio avviene «dopo pacata riflessione» e «nel superiore interesse della compagnia». Un passo che si compie «a seguito della situazione venutasi a creare per contrasti che non lo vedono partecipe nelle Generali». Un minuto prima il cda ne aveva minacciato la sfiducia? Nella nota prende invece atto «con rammarico» della decisione, ringraziando Geronzi «per l’opera svolta con dedizione e senso di istituto». E ancora: del banchiere il consiglio «apprezza la particolare sensibilità e l’alto senso di responsabilità dimostrati nel compiere questo gesto che mira a incidere favorevolmente sul clima aziendale». Geronzi non taglierà tutti i ponti con la compagnia: «Mantiene la carica di presidente della fondazione assicurazioni Generali», si legge nella nota. Non lo seguiranno però né il suo consulente per la comunicazione, Luigi Vianello, né il capo ufficio studi, Angelo De Mattia. In compenso avrà tre segretarie. Chi festeggia senza pudore alcuno è la Borsa. Pochi minuti dopo la notizia il titolo assicurativo scatta di oltre il 5%, Mediobanca segue dappresso. Finiranno, rispettivamente, a +2,97% e +4,78%. Dal Salone del Risparmio gli uomini dei fondi non nascondono soddisfazione: «Chiunque sia parte del mercato non può che recepire positivamente questa decisione», commenta Guido Giubergia, presidente del comitato governance di Assogestioni. Mentre Piazza Affari festeggia, a Roma si riunisce il consiglio. Geronzi non partecipa, arriverà nel finale per un saluto. Nel pomeriggio si diffondono voci che i «congiurati» puntino anche alle dimissioni di Vincent Bollorè. «Tutto bene, sono ancora vicepresidente», chiarisce a riunione finita l’influente finanziere bretone, buon amico di Geronzi. A Ppf, invece, si augurano che la svolta segni «l’inizio di una nuova fase, in cui la compagnia possa tornare a concentrarsi completamente sul proprio business, e sulle proficue opportunità di crescita». Con l’uscita dal cda Generali, Geronzi saluta anche i salotti di pregio dove sedeva in rappresentanza del Leone, come i patti di sindacato di Rcs, Mediobanca e Pirelli. In breve, la fine di un’era. M.ALF. (intervista a Tabacci) S e me lo aspettavo? Sì. Mi era parso dalle ultime mosse che lo scontro al calor bianco con i manager del Leone fosse irredimibile. D’altronde Geronzi voleva procrastinare la continuità cesaristica da Mediobanca a Generali, rifare a Trieste, in una delle principali compagnie del mondo, quel che ha fatto a Milano in piazzetta Cuccia. La somma delle due cose ha coalizzato il management sull’asse Mediobanca-Generali». Bruno Tabacci, deputato dell’Api, autore qualche anno fa di un libretto su «Politica e affari», vede un po’ di luce in fondo al tunnel dell’asfittico capitalismo italiano. Onorevole, che effetti produrrà la defenestrazione di Cesare Geronzi da Generali sul sistema economico-finanziario italiano? «L’intreccio tra politica e potere, la grande malattia degli anni berlusconiani, giocoforza si ridurrà. È ragionevole pensare che, d’ora in poi, per fare operazioni nel nostro Paese non si dovrà più chiedere il permesso a Palazzo Chigi. Dopodiché...». Prego. «Berlusconi è già debole di suo: al massimo può andare a Lampedusa, mica a Parigi o Berlino o Washington, questione di credibilità internazionale». Dunque valuta positivamente la svolta a Trieste? «Certo. La cappa su questo sistema di potere era così forte che impediva persino di raggiungere risultati sul piano dei mercati finanziari. Basta vedere la reazione dei mercati alle dimissioni del presidente». Una scelta di mercato... «La considero un segnale di speranza per il Paese: significa che non tutte le porte sono chiuse e che si può tornare ad un maggiore pluralismo economicofinanziario. Tralasciando le sciocchezze del nostro ministro dell’economia che vorrebbe tornare alla statalizzazione dell’economia e a tutto il potere in mano a via XX Settembre». Diego Della Valle in questi mesi è stato il grande accusatore di Geronzi, ma c’è chi dice sia stata anche una vittoria tremontiana . «Non credo sia andata così. Adesso c’è la corsa a mettere il cappello sulla defenestrazione di Geronzi. Mi pare che sia la vittoria del gruppo dei giovani manager di piazzetta Cuccia e del Leone. Loro hanno fatto l’operazione». Una rivincita dei ragazzi di Vincenzo Maranghi? «La protezione di Maranghi è tutta in questa mossa: se non altro perché questi manager hanno cominciato la propria carriera sotto l’ala del delfino di Cuccia». [M. ALF.] M.ALF. (intervista a Mazzotta) E’ il segnale che si sta andando verso una maggiore valenza industriale dei nostri intermediari finanziari, a svantaggio della logica dei salotti buoni. In questi giorni, peraltro, sono capitati tre fatti diversi ma che portano a valutazioni di sistema…». Roberto Mazzotta, ex presidente di Cariplo e Bpm, banchiere «bianco» di rito ambrosiano al Mediocredito italiano, giudica positivamente lo scossone nei santuari della finanza italiana. Quali sono i tre fatti, presidente? «C’è stata la disponibilità delle banche maggiori a rafforzare la propria struttura patrimoniale anche indipendentemente dalle necessità a breve. Con coraggio i nostri big si stanno irrobustendo, in una situazione di mercato difficile. Mostrando così la tenuta degli intermediari italiani, cosa fondamentale per difendere il complesso degli interessi finanziari del paese, e costituendo le risorse necessarie a garantire il fabbisogno dell’economia reale e degli investitori». Secondo fatto? «Le nomine nelle principali aziende a partecipazione pubblica. Tutte improntate alla promozione di una generazione nuova di manager, professionisti validi. Peraltro riducendo il tasso gerontocratico del paese, fondamentale per definire indirizzi strategici diversi da quelli degli anni scorsi». Il terzo è la defenestrazione di Geronzi, giusto? «Lo dico nel rispetto delle persone. Mi sembra un segnale molto forte che le aziende vogliono tornare a fare le aziende, ossia crescita e sviluppo. Il problema non è il collegamento con la politica di Tizio o Caio, o la difesa di improbabili interessi di sistema, bensì quali piani industriali e linee di internazionalizzazione perseguire». Una scossa destinata a scuotere Mediobanca che del Leone è grande azionista… «Sicuramente. A sua volta Mediobanca non è più il salotto buono di nessuno. Oggi ci sono solo cucine e stanze da lavoro…». Insomma è una svolta positiva? «Mi sembrano tutti e tre accadimenti positivi. Vuol dire che si sta andando verso un aumento dell’interesse sistemico a svolgere le attività industriali tipiche di imprese e intermediari finanziari, uscendo dalle cattive abitudini, da certi salotti buoni e congreghe varie». E’ un modello da cestinare? «In molti periodi della storia italiana quel modello ha avuto un peso importante, ma sarebbe meglio che oggi non lo avesse più». [M. ALF.] FRANCESCO MANACORDA Ufficio di Cesare Geronzi al terzo piano di piazza Venezia, le nove e trenta di ieri mattina. Di fronte al presidente delle Generali ci sono l’ad di Mediobanca Alberto Nagel, che della compagnia è vicepresidente e primo azionista con il 13,5%, e il consigliere Lorenzo Pellicioli che rappresenta il socio De Agostini. Hanno in mano una mozione di sfiducia al presidente con almeno 10 firme sui 17 consiglieri, ma non avranno nemmeno bisogno di tirarla fuori. La resa, come sempre nelle grandi battaglie, è un affare di silenzi più che di parole. Nagel& Pellicioli, sono loro la coppia che già da sabato scorso, in maniera riservatissima ma serrata, ha messo a punto il blitz contro Geronzi - considerato ormai un rischio per la compagnia - e quello che un protagonista definisce il suo «golpe strisciante» sul Leone. E adesso, prima ancora si riunisca il consiglio straordinario che dovrebbe trattare proprio lo scontro nelle Generali, è il momento di affrontare il presidente. Lui, che solo pochi minuti prima ha saputo del blitz da una visita del vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone in veste di ambasciatore, è sorpreso ma non spiazzato. E’ arrivato alle Generali da meno di un anno, proposto proprio da Mediobanca, e da allora - lamentano gli insorti di piazza Venezia - non ha fatto che destabilizzare la compagnia, con interviste e interventi poco adatti a un presidente non esecutivo, voci malevole sul management guidato dall’amministratore delegato Giovanni Perissinotto, e poi quello che viene considerato l’atto più grave: il lancio del kamikaze Vincent Bolloré contro il bilancio del gruppo nel cda del 16 marzo. Un attacco motivato ufficialmente dai dubbi del vicepresidente francese della compagnia sull’accordo di Generali con la ceca Ppf ma dietro il quale molti vedono la mano del presidente. Dopo gli scontri in crescendo, il 29 marzo scorso si fa il punto in Mediobanca. In una riunione del comitato nomine, presenti Nagel e i grandi soci di piazzetta Cuccia - Bolloré compreso, che in quella banca pesa per oltre il 5% - si fa il punto della situazione. I manager Mediobanca decidono che dopo quanto è accaduto bisognerà «tagliare le unghie» allo stesso Bolloré e a Geronzi: una censura, magari, per il primo che già si mostra contrito; una decisa riduzione delle deleghe per il presidente. Poi, sabato scorso, qualcosa cambia. Perché? In Mediobanca si comincia a ragionare sul fatto che un Geronzi ferito è più pericoloso di un Geronzi tranquillo o definitivamente neutralizzato. Una visione che nasce dall’esperienza già avuta con il banchiere di Marino alla presidenza di Mediobanca e alla quale non è estranea nemmeno la nuova vocazione interventista di Unicredit che nel consiglio di piazzetta Cuccia ha il suo presidente Dieter Rampl e il vicepresidente Fabrizio Palenzona - e che vuole giocare un ruolo rafforzato nella Galassia del Nord. L’inserimento di Geronzi in Generali - prende atto Nagel, che del resto già un anno fa non pensava fosse una buona idea - non ha funzionato. Lo ritiene anche Pellicioli, stanco delle estenuanti battaglie che da undici mesi drenano l’energia dei soci e paralizzano Perissinotto e i suoi uomini. È una battaglia di potere ma è anche la rivolta dei tecno-cinquantenni - una media, Nagel ne ha 47, Pellicioli va per i 60, il «guastatore» Diego Della Valle che da mesi si distingue per le sue dichiarazioni anti-Geronzi, e Perissinotto ne hanno cinquantotto contro quel potere capitolino vecchissimo ed apparentemente eterno incarnato oggi nel settantaseienne Geronzi. «Il nostro è anche un contributo al cambiamento culturale e generazionale», commenta uno dei «congiurati». E per Mediobanca, dove si rifuggono con un’alzata di spalle le facili suggestioni edipiche che vogliono i figli ormai pronti a uccidere simbolicamente quel padre così ingombrante, si tratta solo di rivestire in pieno il proprio ruolo istituzionale di primo azionista del Leone, mettendo a punto una governance efficace che consenta alla compagnia di crescere e - particolare non indifferente - staccare dividendi. Da sabato sono telefonate, contatti, prudenti sondaggi ma anche la massima attenzione perché Geronzi non capti il pericolo. Il blitz viene reso noto a tutti i consiglieri solo nella serata di martedì, con un vertiginoso valzer di incontri romani. Alle 20 Nagel, il direttore generale di Mediobanca Leonardo Vinci, Pelliccioli si ritrovano a pranzo nella foresteria della banca, in piazza di Spagna, con Caltagirone. Da lui arriva una posizione di sostanziale equilibrio, riconosciuta da tutto il cda: non vuole che Geronzi sia messo alla gogna ma non difenderà certo ad oltranza il presidente. Poi si aggiungono Della Valle e Miglietta, il cui consenso sull’operazione è scontato. Due ore dopo Nagel incontra faccia a faccia Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni e influente consigliere indipendente del Leone: un altro via libera. A mezzanotte i «congiurati» si ritrovano tutti o quasi sono nel palazzone di via Bissolati 23, cuore di Roma, dove c’è la sede di Ina-Assitalia, controllata del Leone. Con loro anche i tre uomini al vertice operativo delle Generali: Perissinotto, Balbinot e Agrusti. Si smorzano gli ardori di chi vorrebbe una punizione esemplare per Bolloré. Si spara è la linea del cacciatore Nagel - al «bersaglio grosso». Ieri mattina l’ultimo faccia a faccia con Bolloré: lui difende fino all’ultimo, o quasi, Geronzi. Poi in cda si preoccuperà di smarcarsi dal ruolo di guastatore: «Se i chiarimenti dati dalla compagnia vanno bene alla Consob e all’Isvap, anche io sono soddisfatto». Bolloré è salvo, Geronzi è fuori, Nagel ha centrato il bersaglio e non teme che la battaglia di Trieste si sposti adesso come prevedono invece molti - ai piani alti di Mediobanca. ALESSANDRO BARBERA Ufficio di Cesare Geronzi al terzo piano di piazza Venezia, le nove e trenta di ieri mattina. Di fronte al presidente delle Generali ci sono l’ad di Mediobanca Alberto Nagel, che della compagnia è vicepresidente e primo azionista con il 13,5%, e il consigliere Lorenzo Pellicioli che rappresenta il socio De Agostini. Hanno in mano una mozione di sfiducia al presidente con almeno 10 firme sui 17 consiglieri, ma non avranno nemmeno bisogno di tirarla fuori. La resa, come sempre nelle grandi battaglie, è un affare di silenzi più che di parole. Nagel& Pellicioli, sono loro la coppia che già da sabato scorso, in maniera riservatissima ma serrata, ha messo a punto il blitz contro Geronzi - considerato ormai un rischio per la compagnia - e quello che un protagonista definisce il suo «golpe strisciante» sul Leone. E adesso, prima ancora si riunisca il consiglio straordinario che dovrebbe trattare proprio lo scontro nelle Generali, è il momento di affrontare il presidente. Lui, che solo pochi minuti prima ha saputo del blitz da una visita del vicepresidente Francesco Gaetano Caltagirone in veste di ambasciatore, è sorpreso ma non spiazzato. E’ arrivato alle Generali da meno di un anno, proposto proprio da Mediobanca, e da allora - lamentano gli insorti di piazza Venezia - non ha fatto che destabilizzare la compagnia, con interviste e interventi poco adatti a un presidente non esecutivo, voci malevole sul management guidato dall’amministratore delegato Giovanni Perissinotto, e poi quello che viene considerato l’atto più grave: il lancio del kamikaze Vincent Bolloré contro il bilancio del gruppo nel cda del 16 marzo. Un attacco motivato ufficialmente dai dubbi del vicepresidente francese della compagnia sull’accordo di Generali con la ceca Ppf ma dietro il quale molti vedono la mano del presidente. Dopo gli scontri in crescendo, il 29 marzo scorso si fa il punto in Mediobanca. In una riunione del comitato nomine, presenti Nagel e i grandi soci di piazzetta Cuccia - Bolloré compreso, che in quella banca pesa per oltre il 5% - si fa il punto della situazione. I manager Mediobanca decidono che dopo quanto è accaduto bisognerà «tagliare le unghie» allo stesso Bolloré e a Geronzi: una censura, magari, per il primo che già si mostra contrito; una decisa riduzione delle deleghe per il presidente. Poi, sabato scorso, qualcosa cambia. Perché? In Mediobanca si comincia a ragionare sul fatto che un Geronzi ferito è più pericoloso di un Geronzi tranquillo o definitivamente neutralizzato. Una visione che nasce dall’esperienza già avuta con il banchiere di Marino alla presidenza di Mediobanca e alla quale non è estranea nemmeno la nuova vocazione interventista di Unicredit che nel consiglio di piazzetta Cuccia ha il suo presidente Dieter Rampl e il vicepresidente Fabrizio Palenzona - e che vuole giocare un ruolo rafforzato nella Galassia del Nord. L’inserimento di Geronzi in Generali - prende atto Nagel, che del resto già un anno fa non pensava fosse una buona idea - non ha funzionato. Lo ritiene anche Pellicioli, stanco delle estenuanti battaglie che da undici mesi drenano l’energia dei soci e paralizzano Perissinotto e i suoi uomini. È una battaglia di potere ma è anche la rivolta dei tecno-cinquantenni - una media, Nagel ne ha 47, Pellicioli va per i 60, il «guastatore» Diego Della Valle che da mesi si distingue per le sue dichiarazioni anti-Geronzi, e Perissinotto ne hanno cinquantotto contro quel potere capitolino vecchissimo ed apparentemente eterno incarnato oggi nel settantaseienne Geronzi. «Il nostro è anche un contributo al cambiamento culturale e generazionale», commenta uno dei «congiurati». E per Mediobanca, dove si rifuggono con un’alzata di spalle le facili suggestioni edipiche che vogliono i figli ormai pronti a uccidere simbolicamente quel padre così ingombrante, si tratta solo di rivestire in pieno il proprio ruolo istituzionale di primo azionista del Leone, mettendo a punto una governance efficace che consenta alla compagnia di crescere e - particolare non indifferente - staccare dividendi. Da sabato sono telefonate, contatti, prudenti sondaggi ma anche la massima attenzione perché Geronzi non capti il pericolo. Il blitz viene reso noto a tutti i consiglieri solo nella serata di martedì, con un vertiginoso valzer di incontri romani. Alle 20 Nagel, il direttore generale di Mediobanca Leonardo Vinci, Pelliccioli si ritrovano a pranzo nella foresteria della banca, in piazza di Spagna, con Caltagirone. Da lui arriva una posizione di sostanziale equilibrio, riconosciuta da tutto il cda: non vuole che Geronzi sia messo alla gogna ma non difenderà certo ad oltranza il presidente. Poi si aggiungono Della Valle e Miglietta, il cui consenso sull’operazione è scontato. Due ore dopo Nagel incontra faccia a faccia Paolo Scaroni, amministratore delegato dell’Eni e influente consigliere indipendente del Leone: un altro via libera. A mezzanotte i «congiurati» si ritrovano tutti o quasi sono nel palazzone di via Bissolati 23, cuore di Roma, dove c’è la sede di Ina-Assitalia, controllata del Leone. Con loro anche i tre uomini al vertice operativo delle Generali: Perissinotto, Balbinot e Agrusti. Si smorzano gli ardori di chi vorrebbe una punizione esemplare per Bolloré. Si spara è la linea del cacciatore Nagel - al «bersaglio grosso». Ieri mattina l’ultimo faccia a faccia con Bolloré: lui difende fino all’ultimo, o quasi, Geronzi. Poi in cda si preoccuperà di smarcarsi dal ruolo di guastatore: «Se i chiarimenti dati dalla compagnia vanno bene alla Consob e all’Isvap, anche io sono soddisfatto». Bolloré è salvo, Geronzi è fuori, Nagel ha centrato il bersaglio e non teme che la battaglia di Trieste si sposti adesso come prevedono invece molti - ai piani alti di Mediobanca. GIANLUCA PAOLUCCI Il potere è tale finché c’è chi è disposto a riconoscerlo»: così un anziano banchiere commenta l’addio di Cesare Geronzi al vertice delle Generali. Che tra Milano e Trieste il banchiere capitolino avesse meno seguito e riconoscimento rispetto alla natìa Roma è stato chiaro da subito, ovvero quasi quattro anni fa. Il romano Geronzi arriva al vertice di Mediobanca nel giugno del 2007. L’assemblea di Mediobanca che lo insedia nella poltrona più alta del salotto buono della finanza milanese si tiene il 27 di quel mese, ma il benvenuto glielo aveva dato, due settimane prima, un feroce commento del Financial Times , che segue di quattro giorni l’annuncio dell’intesa sul suo nome da parte del patto di sindacato che regge l’istituto. «Mr. Cuccia si starà rivoltando nella tomba», scriveva il quotidiano britannico. Il pensiero dell’editorialista del foglio più letto dall’élite della finanza mondiale (lo stesso editorialista peraltro che giusto ieri ne auspicava, solitario, la caduta) era condiviso, in quegli stessi giorni, da molti. Roma conquista Milano, si scherzava amaramente nei circoli della finanza milanese, tra banker e avvocati alle prese con il rito meneghino dell’aperitivo post-lavoro. Così, quanto accaduto ieri suona molto come una sorta di vendetta per quell’« esproprio» (o almeno così venne vissuto) della poltrona che fu di Cuccia, l’espulsione di un corpo estraneo. Vendetta che ha avuto come protagonisti, non a caso, proprio gli uomini di Mediobanca. Non che lui abbia mai amato particolarmente Milano: e ancor meno ha amato Trieste. Appena arrivato in Mediobanca, aveva dato manifestazione di buona volontà prendendo in affitto un appartamento in via Bigli, nel cuore della città, che era stata occupato fino a poco prima da Marco Tronchetti Provera. Dopo però non si era fatto vedere più - malgrado i numerosi inviti - nei salotti milanesi che contano. L’unica eccezione, ricorda con malizia un protagonista, la fece per partecipare ad una serata dove, guarda caso, presenziava anche un politico romano. Le volte che si fermava in città, preferiva restare a lavorare sulle carte in attesa delle riunioni del giorno dopo sul nodo Telecom, sui finanziamenti al gruppo Ligresti, sul caso del gruppo Zunino, l’immobiliarista entrato guarda caso in quello stesso consiglio di sorveglianza di Mediobanca che lo ebbe presidente e finito in un crac. Le credenziali con le quali si presentava in piazzetta Cuccia, d’altronde, non lo aiutavano molto. L’anno precedente aveva trascorso quattro mesi su dodici sospeso dalla presidenza di Capitalia per il suo coinvolgimento nelle vicende giudiziarie relative al crac Parmalat. Un periodo che «produce in lui sconcerto ed amarezza generando momenti di sconforto», ricorda ancora oggi la biografia ufficiale. Aggiungendo peraltro la sua certezza «di avere sempre operato entro i confini delle sue funzioni nel pieno, costante rispetto delle norme scritte o non scritte». Al suo arrivo chiese una serie di benefit, compreso l’utilizzo di quattro autisti (due a Roma e due a Milano) e un aereo privato che furono i più forti segnali di rottura della vecchia liturgia dell’istituto per chi ricordava ancora che Cuccia arrivava in ufficio rigorosamente a piedi. Appena insediato partì a testa bassa per smontare il sistema di governo duale costruito da poco per piazzetta Cuccia, con un consiglio di sorveglianza espressione dei soci da lui presieduto e un consiglio di gestione affidato ai manager espressione proprio della «vecchia» Mediobanca, oggi rimpianta anche da chi non t’aspetti, come il ministro Giulio Tremonti. Guidato da Alberto Nagel e Renato Pagliaro, eredi di Cuccia e Vincenzo Maranghi, il consiglio di gestione ha subito catalizzato le sue attenzioni. Con un lungo lavorìo fatto di dichiarazioni pubbliche e di privati rimproveri, ha smontato quel sistema che dava ai manager gran parte del potere decisionale sulle partite della finanza che transitano da piazzetta Cuccia e che in qualche caso lì vengono decise. E poco, troppo poco a lui. Sciolto questo nodo, ovvero presi i pieni poteri in Mediobanca e ricondotti a più miti consigli i manager con il ritorno al sistema monistico di governo societario, restava da risolvere il nodo dei processi ancora in corso. A Roma, pende il giudizio sul crac Cirio. A Parma, deve arrivare ancora a sentenza il processo Parmalat e quello Ciappazzi, vicenda laterale del grande crac del latte. Secondo il testo unico bancario, una nuova condanna in uno di questi processi avrebbe comportato la perdita del requisito di onorabilità e una nuova sospensione dalla carica. Dal timore di dover subire l’umiliazione della decadenza dall’incarico, raccontano i suoi nemici, deriva l’ostinazione con la quale ha perseguito il passaggio - a prima vista illogico - dalla banca alla sua partecipata, ovvero da Mediobanca a Generali. Se non fosse che, bizzarramente, i requisiti di onorabilità sono diversi tra banche e assicurazioni. Circostanze che non permetterebbero di guidare una banchetta di provincia consentono invece di reggere il timone della terza compagnia assicurativa d’Europa per capitalizzazione, una cassaforte da 400 miliardi di attivi sparsi per il mondo. Obiettivo raggiunto un anno fa, nell’aprile del 2010, malgrado fino a pochi giorni prima ripetesse pubblicamente che quel posto non era di suo interesse. Ma le Generali di un anno fa non sono la Mediobanca del 2007. La compagnia triestina è da sempre abituata al motto che gli uomini passano e le Generali restano. Così è trascorso un anno di tensioni prima latenti poi sempre più esplicite, dai consigli convocati a Roma - orrore per i triestini - alle infelici interviste, come quella al Financial Times nella quale parlò da amministratore delegato, non a caso rilasciata a Roma e anticipata da un settimanale ben prima della sua uscita. Fino alle minutaglie, come un iPad richiesto dal presidente e negatogli dagli uffici perché «non rientra nelle sue prerogative». «Siamo pronti per nuove sfide: crescita, stabilità e amicizia con tutti», aveva dichiarato al momento del suo insediamento in Mediobanca. Non è andata proprio così. LA REPUBBLICA ANDREA GRECO MILANO - Cesare Geronzi non è più il presidente delle Generali. La decisione arriva a metà di una giornata che resterà nella storia del capitalismo italiano. Nell´interim la compagnia sarà retta dal vice presidente vicario, Francesco Gaetano Caltagirone, anche se entro pochi giorni i soci forti - imperniati su Mediobanca - formuleranno una nomina da sottoporre all´assemblea del 30 aprile. Dopo quattro mesi di scontri - sui media e nelle sedi ufficiali - tra azionisti, consiglieri e vertici, tocca a Geronzi lasciare carica, consiglio e anche le poltrone nei patti di Mediobanca, Pirelli e Rcs. Le indiscrezioni, verso le 11, hanno scatenato i compratori: in pochi minuti su Generali il prezzo è aumentato del 5%, per poi consolidare (+2,97% il finale). Anche Mediobanca è stata coinvolta e ha terminato in rialzo del 4,78%. Da mesi gli investitori, specie stranieri, mostravano insofferenza per le condotte di Geronzi, che mai ha vantato un buon feeling con i mercati. «L´uscita sarà certo presa bene dagli investitori - commentava a caldo Deutsche Bank - perché finalmente può chiudere i dissidi sulla governance che hanno distratto dall´operatività del gruppo, frenando in parte il rendimento di Generali». Il comunicato ufficiale del Leone è un piccolo capolavoro di reticenza: «Il presidente, a seguito della situazione venutasi a creare per contrasti che non lo vedono partecipe nelle Generali, ha ritenuto, dopo pacata riflessione, nel superiore interesse della compagnia, di rassegnare, oggi, le dimissioni dalla carica ricoperta. Il cda ha preso atto con rammarico della sua decisione e lo ringrazia per l´opera svolta, con dedizione e senso di istituto, sin dall´assunzione dell´incarico e apprezza la particolare sensibilità e l´alto senso di responsabilità dimostrati nel compiere questo gesto che mira a incidere favorevolmente sul clima aziendale». Nella realtà, il presidente è stato messo davanti a un fatto compiuto, un blitz preparato con puntiglio fino a pochi minuti prima della riunione. È proprio la maggioranza del cda "rammaricato" che gli ha sottoposto la lettera con scritto «mozione di revoca» e 10 firme in calce, più quelle dei due ad; un´esibizione di muscoli (il cda ha 17 membri) che non è servita, perché dopo la lettura Geronzi ha trattato l´uscita, a un anno dall´insediamento. Tra i pochi commenti quello di Ppf, la compagnia di Petr Kellner: «Ci auguriamo che inizi una nuova fase, in cui la compagnia torni a concentrarsi sul proprio business e sulle proficue opportunità di crescita, anche in Est Europa e Russia». Proprio i territori della sua partnership con Generali, finita nel mirino dell´ultimo attacco di Vincent Bolloré, che lo ha difeso fino all´ultimo e ha resistito alle pressioni dei consiglieri per un proprio ridimensionamento. Il finanziere bretone, dettosi soddisfatto in cda per le spiegazioni fornite dal Leone sul caso Ppf, ha commentato: «Geronzi non ha voluto la bagarre». GIOVANNI PONS Alla fine della partita, Diego Della Valle è riuscito ad avere la meglio su almeno uno degli "arzilli vecchietti" stigmatizzati nell´intervista a Repubblica del 29 gennaio scorso, Cesare Geronzi. Su Giovanni Bazoli aveva invece corretto subito il tiro, giudicandolo di ben altra pasta rispetto a colui che ha tirato i fili del potere da un trentennio a questa parte. Tuttavia, fino a ieri mattina erano in pochi pronti a scommettere che il patron della Tod´s sarebbe uscito vincitore da un confronto che fin dall´inizio si preannunciava apocalittico. Al grido di «adesso basta», l´imprenditore di Casette d´Ete che in tv ama parlare dei suoi amici artigiani marchigiani, è partito lancia in resta e negli ultimi due mesi non ha fatto altro che occuparsi di Generali. Continuando a ripetere che non c´è niente di personale in questa sfida: «Se fosse così si risolverebbe come fanno due amici al bar», è la sua frase ricorrente, invece ciò che è avvenuto «è il contrario di un accordo di potere, ognuno ha fatto la sua parte, c´era voglia di cambiamento e di respirare aria fresca», riferiscono i suoi uomini che lo hanno assistito nel bel mezzo della battaglia. E la "squadra", per dirla alla Montezemolo, che Della valle è riuscito a mettere in campo è sicuramente di primo piano. Dietro le quinte ha avuto un peso importante la giravolta di Tremonti, che un anno fa aveva sostenuto il passaggio di Geronzi sullo scranno di Generali mentre ora gli ha voltato le spalle. Ma altrettanto importanti sono stati il sostegno della Fondazione Crt e del suo dominus Fabrizio Palenzona, manager e banchiere cresciuto a dismisura con l´uscita di Alessandro Profumo da Unicredit. E poi i tre consiglieri indipendenti abilmente indirizzati da Domenico Siniscalco, e non da ultimo, fatto forse decisivo, la presa di posizione di Alberto Nagel, l´ad di Mediobanca che è anche il maggiore azionista di Generali. «Potrebbe essere una svolta per tutto il sistema, la gente non deve più aver timore di muoversi nelle ragnatele delle stanze italiane, è un´operazione di portata generale», sono le parole chiave che hanno contrassegnato la campagna di cui Della Valle è stato l´elemento coagulante. E così, di fronte a tale compattezza, l´uomo che si era vantato di fronte al mondo di non aver bisogno di deleghe ma che gli bastava «alzare il telefono» per comandare dove voleva, è capitolato. «Non ci sono miti intoccabili, bisogna finirla con il millantato credito, quando si va avanti tutti insieme nessuno li segue più, neanche la politica», aveva detto Della Valle ai compagni di cordata in una delle tante riunioni che hanno preceduto il cda di ieri. «Siamo tutti arrivati all´età in cui riconosciamo i pitbull, i labrador e i cani da salotto», rincarava la dose quando serviva per smuovere le coscienze. La società civile, quella evocata dal suo amico Montezemolo, molte volte latitante, ora sembra avere qualche freccia in più nell´arco. I manager 40 e 50enni possono prendere più coraggio, gli imprenditori possono avvicinarsi alle banche senza il timore di padrinaggi politici. Della Valle in questa partita ci ha messo la faccia e ora è giusto che raccolga qualche frutto. Sono in molti a pensare che il suo vero obbiettivo sia la Rcs e il Corriere della Sera, un salotto dal quale ora Geronzi è uscito visto che si è dimesso da tutte le cariche comprese quelle in Rcs, Mediobanca e Pirelli. Lui nega, si schermisce, ma è evidente che un pensiero ce lo sta facendo. «C´è un patto e non posso comprare per due anni», aveva detto dopo l´ultima riunione dei soci forti che avevano confermato l´accordo parasociale e confermato la direzione De Bortoli. Se però il patto si sciogliesse, Della Valle sarebbe pronto a comprare: qualcuno dice che abbia già intavolato un discorso con Giuseppe Rotelli, qualcun altro sostiene che anche Mediobanca sarebbe pronta a uscire se però lo fanno tutti. Certo che, come in un domino, fatto saltare il tappo ora si attendono gli effetti a catena. E uno dei primi che potrebbe sopportarne le conseguenze è Marco Tronchetti Provera, vicepresidente di Mediobanca proprio per volere di Geronzi a cui si era legato con un filo doppio negli anni della Telecom e del dopo Telecom. Nella consapevolezza, che per tanto tempo ha sempre prevalso, che cane non mangia cane. Il sistema si teneva, ora forse non si terrà più. A qualcuno, per esempio, non è sfuggita la sottile vendetta di Renato Pagliaro, il presidente di piazzetta Cuccia, delfino di Vincenzo Maranghi, che non ha mai digerito il tradimento di Salvatore Ligresti attirato sull´altra sponda dal Geronzi allora al vertice di Capitalia e dai crediti facili dei banchieri di sistema. Con il supporto fondamentale dell´Unicredit di Palenzona sono state messe sotto tutela le casseforti di Ligresti e i pacchetti strategici in esse contenuti e poi è stata tirato la stoccata finale all´ex banchiere romano trasmigrato in Generali. Ora bisognerà vedere come reagiranno i francesi legati a Vincent Bolloré e che avevano puntato tutte le carte sul sodale Geronzi, prima in Mediobanca e poi in Generali. «Bollorè non ha una strategia per l´Italia», ha detto il grande vecchio Antoine Berhneim nostalgico di Trieste alla tenera età di 86 anni. Il ritorno di fiamma di Groupama su Fonsai, cronaca delle ultime ore, potrebbe essere una prima risposta. Un nuovo attacco a Giovanni Perissinotto, ormai plenipotenziario in Generali, è un passo da non escludere e che forse troverebbe consenzienti altri soci forti del Leone. Ma il vero redde rationem è atteso a fine anno con il rinnovo del patto della stessa Mediobanca. Un manipolo di Fondazioni guidato da Palenzona e qualche imprenditore coraggioso alla Della Valle potrebbero cacciare i francesi seguendo la linea Maginot tracciata da Tremonti. Nel frattempo i giovani della nouvelle vague italiana dovranno dimostrare sul campo di essere molto diversi dai loro predecessori. MASSIMO GIANNINI L´impensabile è dunque accaduto. Persino in un Paese bloccato come l´Italia. Il ribaltone al vertice delle Generali, senza enfasi, è davvero una «svolta epocale». Un «regime exchange»: nel gergo della diplomazia internazionale, non c´è altra formula possibile per definire l´uscita di scena di Cesare Geronzi. Un vero e proprio «cambio di regime». Un «cambio di regime» che rispecchia la metamorfosi in corso negli assetti della finanza. Ma un «cambio di regime» che riflette anche il mutamento in atto negli equilibri della politica. Sul piano politico, la fine del «geronzismo» coincide con il declino del berlusconismo. E non poteva essere altrimenti, vista la perfetta omogeneità e complementarità dei due fenomeni. Se è esistito e resiste un «cesarismo» politico, questo è rappresentato da Berlusconi. Se è esistito e ora si estingue un «cesarismo» finanziario, questo è sempre stato rappresentato da Geronzi. L´uno aveva bisogno dell´altro, per radicarsi e perpetuarsi. E dunque, fatalmente, la caduta dell´uno indebolisce anche l´altro. Lo sancì un editoriale del «Foglio» di due anni fa, quando il Cavaliere aveva da poco trionfato alle elezioni e Geronzi, allora presidente di Mediobanca, veniva consacrato come unico, grande «banchiere di sistema» e «snodo fondamentale», al crocevia tra politica ed economia, del sistema di potere berlusconiano. Lo aveva confermato una cena a casa di Bruno Vespa l´8 luglio 2010, quando il premier (insieme all´inseparabile Gianni Letta, gran sacerdote del rito geronziano) sedeva allo stesso tavolo con lo stesso banchiere di Marino e con il segretario di Stato Vaticano Tarcisio Bertone. Le dimissioni forzate di Geronzi sono un colpo mortale per quel sistema di potere, cattolico-apostolico-romano, che attraverso l´asse Geronzi-Letta ha blindato il Cavaliere. Facendolo finalmente entrare e poi rafforzandolo nel Salotto Buono del capitalismo italiano. Portandogli in dote un potere d´influenza, diretta o indiretta, sulle banche e le aziende strategiche rimaste nel Paese (da Mediobanca a Generali, da Ligresti a Pirelli, da Telecom a Rcs). Alimentandolo sotto il profilo lobbistico-mediatico (spesso con l´ausilio della «macchina del fango»), attraverso la rete collaudata della P4 di Luigi Bisignani e dei siti Internet più o meno «amici» (come Dagospia). Tutto questo, oggi, viene spazzato via. Con il contributo decisivo di Giulio Tremonti, e questa è l´altra enorme novità politica: attraverso Geronzi, il ministro dell´Economia affonda la lama nel cuore del suo «carissimo nemico» Letta. Si crea così una rottura, proprio nell´ingranaggio vitale dell´apparato. Si produce una sconnessione, proprio dentro il circuito di potere che in questi anni ha garantito continuità al sistema. Dalla Cassa di risparmio alla Banca di Roma, dalla Banca di Roma a Capitalia, da Mediobanca alle Generali: nelle sue tante vite, Geronzi ha incarnato il «motore immobile», il punto di equilibrio. Quando c´era la Dc garantiva Andreotti. Quando è nata Forza Italia ha garantito Berlusconi. Sempre all´insegna della contiguità, e della continuità. Ora tutto questo non c´è più. E questo è già un enorme passo avanti, per il piccolo mondo antico del capitalismo italiano. Sul piano della finanza, cioè degli assetti interni ai Poteri Forti e alle Generali, resta da capire come e perché il ribaltone sia stato possibile. E qui è stato fatale l´approccio che Geronzi ha sempre adottato, quando ha preso in mano le redini di un gruppo. Con l´unica «delega» che gli è sempre stata a cuore, cioè il telefono, il banchiere di Marino ha sempre segato il ramo sul quale sedevano i suoi manager. Lo fece con Pellegrino Capaldo, ai tempi della Cassa. Lo fece con Matteo Arpe, ai tempi di Capitalia. Lo fece con Alessandro Profumo, ai tempi di Unicredit. Lo ha fatto con Nagel e Pagliaro, ai tempi di Mediobanca. L´ha fatto con Giovanni Perissinotto, in questo anno vissuto pericolosamente alle Generali. Lo scontro tra Geronzi e Perissinotto, in questi mesi, è stato molto più feroce di quanto non si immagini. È cominciato come un conflitto «locale» (il caso Kellner e l´affare Vtb), ma è diventata ben presto una guerra totale (il ruolo strategico e il futuro della compagnia). Presidente con l´unica delega sulla comunicazione, Geronzi ha cercato in tutti i modi di continuare a controllare le partecipazioni strategiche di Generali (da Mediobanca a Intesa a Rcs) e di far diventare anche il Leone Alato un «braccio armato» della politica economica del governo, ipotizzando di snaturare l´azienda più ricca d´Italia (con attivi per 470 miliardi di euro) in una «compagnia di sistema». Il suo alleato iniziale, in questa battaglia, è stato il finanziere bretone Vincent Bollorè, vicepresidente, col quale si dice condividesse il progetto segreto di una successiva fusione Generali-Axa. Perissinotto, Ceo group con tutte le deleghe, ha resistito. E alla fine l´ha spuntata, forte del sostegno dei consiglieri d´amministrazione «di minoranza». Diego Della Valle su tutti, protagonista e capofila della lotta più strenua contro Geronzi. Ma poi Lorenzo Pelliccioli, i tre consiglieri espressione dei fondi, e alla fine anche i due consiglieri di Mediobanca e lo stesso Francesco Gaetano Caltagirone, vicepresidente vicario. Il momento più drammatico dello scontro è avvenuto il 16 marzo, nel cda in cui Bollorè si è presentato chiedendo di sfiduciare Perissinotto: «Il Ceo se ne deve andare, per me il bilancio è falso». La seduta è stata interrotta tre volte. E per ben tre volte, chiuso in una stanza attigua a quella del consiglio, Bollorè è stato «arginato», e alla fine convinto a ripiegare su un´astensione da Nagel, da Pelliccioli e da Caltagirone. Geronzi ha tentato solo una timida mediazione, ma nulla di più. E quello è stato l´inizio della fine. Il giorno dopo, 17 marzo, Perissinotto ha scritto a Geronzi una lettera di fuoco: «Non posso accettare che un vicepresidente dichiari che il bilancio è falso. Questo episodio lede il nome e l´immagine delle Generali. Su questo non transigo, nessuno si può permettere di dubitare dell´onestà mia e dei miei dirigenti». Già in quella missiva, il manager chiedeva al presidente un atto formale che risolvesse il caso Bollorè: da una presa di distanza pubblica alla richiesta di un passo indietro. Quell´«atto formale» non è mai arrivato. Il presidente, come Don Abbondio, ha cercato di troncare e sopire. Ma senza mai schierarsi apertamente a fianco del management, perchè non ha mai rinunciato all´idea di una trasformazione genetica delle Generali. Per prendere tempo, il banchiere di Marino ha cercato un ultimo compromesso con il Ceo, nel faccia a faccia del 24 marzo a Piazza Venezia. Un altro confronto-scontro burrascoso. Geronzi ha offerto la tregua: «Chiudiamo la polemica, facciamo un comunicato congiunto e lasciamo decantare le cose...». Perissinotto ha risposto picche. «No, è troppo tardi, lei ha destabilizzato la compagnia, ed io non mi fido più. Se vuole fare il capo-azienda lo dica chiaramente in consiglio, ma così non si può andare avanti». Quella sera stessa, Perissinotto è stato convocato a Via XX Settembre da Tremonti. È stata la mossa che ha cambiato definitivamente il corso della partita. Il superministro dell´Economia ha preso in mano la pratica Generali. Ufficialmente, per ascoltare il resoconto di Perissinotto e formulargli un invito ecumenico: «Siate responsabili...». Ma sostanzialmente, per assestare la spallata finale al Tempio Sacro del potere di Letta. In queste due settimane sono stati frequenti i contatti tra il ministro e Nagel, che dopo qualche incertezza iniziale ha avallato il contrattacco di Perissinotto. In una telefonata del 24 marzo l´ad di Mediobanca avrebbe addirittura caricato il Ceo delle Generali: «Spiega a Tremonti che Geronzi è un problema, e che Bollorè è un pericolo...». La risposta: «D´accordo, io lo faccio. Ma perché non lo fai anche tu?». E Nagel lo ha fatto. In queste due settimane anche Mediobanca ha cambiato strategia. Dall´attesa è passata all´attacco. Alla fine della scorsa settimana, poi, si è mosso Caltagirone. Il vicepresidente vicario si era mantenuto su una posizione mediana. Fortemente irritato dalle manovre di Geronzi: «Stavolta ha veramente esagerato». Ma anche perplesso su certe sfuriate di Della Valle: «Se lui è il "nuovo", non andiamo lontano». E anche su alcune scelte di Perissinotto: «Abbiamo saputo del nuovo assetto della governance in Telecom solo a cose fatte, e questa è un´anomalia...». Ma alla fine il costruttore romano si è convinto che così le Generali non potevano reggere. E ha dato via libera a Nagel. Così si è chiuso il ciclo di Geronzi. Con uno strappo che cambia radicalmente il panorama del potere italiano. Ma le prossime mosse saranno cruciali. Dalla scelta del nuovo presidente di Generali agli assetti di Mediobanca, dal ruolo di Unicredit su Fonsai-Ligresti alla difesa delle aziende strategiche come Parmalat o Edison. Il «sacrificio» di Geronzi non sarà stato inutile solo se consentirà al sistema industrial-finanziario di diventare più moderno, alle strutture proprietarie di diventare più aperte al mercato e ai manager di diventare più autonomi dalla politica. La «rupture» delle Generali segna la fine del vecchio capitalismo. Ma il nuovo è ancora tutto da costruire. m.gianninirepubblica.it ALBERTO STATERA «Oh ´ndo sta coso?» sibilò il «banchiere di sistema», che voleva farsi «assicuratore di sistema», nativo di Marino nei Castelli romani, uscendo settimane fa dal Salone degli Incanti in una delle sue rare apparizioni a Trieste. «Il dottor Balbinot arriva subito», lo rassicurò ad alta voce lo zelante accompagnatore, intuendo subito che con «coso» Cesare Geronzi non si riferiva all´autista, ma a Sergio Balbinot, secondo amministratore delegato delle Generali, uno soltanto un pelino sotto al capoazienda Giovanni Perissinotto. Così, nel vecchio Castello del Leone, ancora un po´ odoroso di Impero Austroungarico, dove nella sede di Praga lavorò da impiegato Franz Kafka, giravano le cose da quando giusto un anno fa l´ex banchiere di Marino era sbarcato in piazza Unità d´Italia come presidente delle Generali, annunciando che avrebbe subito colà comprato una casa, come - tardo imitatore - ha fatto l´altro giorno Berlusconi a Lampedusa. Perché a dispetto delle cosiddette regole di governance, nel mantra geronziano le deleghe non si contano, ma si pesano, come diceva Cuccia delle azioni. Lui non ne aveva ottenute soverchie di deleghe, ma se le voleva prendere, come aveva annunciato tracciando ancora da presidente di Mediobanca l´identikit di se stesso («un forte presidente esecutivo per il Leone») e come aveva sempre fatto nella sua lunga stagione di volpe del potere, anzi dei poteri, senza mai «finire in pellicceria», secondo l´espressione che, con un abbaglio, Craxi aveva preconizzato all´indirizzo di Andreotti, all´ombra del quale Geronzi aveva cominciato. Politica e finanza, miliardi e sottogoverno, conflitti d´interesse e calciatori, scatole cinesi e incesti societari, clientela e parentela, come diceva Guido Carli. Un «power broker» Cesare Geronzi, che ha traversato quasi indenne mezzo secolo di vita italiana, custode delle infinite magagne della prima e poi della seconda Repubblica, del quale la definizione più felice ha dato Giampiero Cantoni, ex presidente della Banca Nazionale del Lavoro e oggi parlamentare berlusconiano: non un uomo trasversale, «un uomo universale». Dai più banali ai più sofisticati, i soprannomi che ha collezionato ne tracciano alla perfezione la biografia. «Dottor Koch», gli fu affibbiato quando era capocambista in Banca d´Italia, un´istituzione che - come lui stesso disse - «si indossava come un saio». Florio Fiorini, che allora guidava un agguerrito branco di speculatori sulle valute, ogni tanto ne riceveva una telefonata che lo avvertiva: «Guarda che state esagerando!». Fiorini chiamava gli altri speculatori: «Ha chiamato il dottor Koch». E quelli se ne andavano qualche giorno in vacanza. Poi vennero «Penna Bianca» e il «Cardinale», fino al «Ragionier Geronzi», con cui lo sfotteva Nino Andreatta e il «Grande Taxi», coniato dall´ex ministro andreottiano Paolo Cirino Pomicino, echeggiando ciò che il primo presidente dell´Eni Enrico Mattei diceva dei partiti italiani: «Li uso come un taxi». Ma più che un Grande Taxi, Geronzi è da decenni un Grande Pullman multipiano che ha imbarcato tutti dispensando denari, incroci, strategie, nomine, clientele e ordini secchi. Dal Pci, di cui ristrutturò l´esorbitante debito di centinaia di miliardi di lire, agli ex fascisti, naturalmente dalla Dc ai socialisti, dai socialdemocratici e ai liberali. Non c´è forse giornale di partito, a cominciare dal Manifesto, che non abbia bussato con soddisfazione all´uomo nato con la politica da banchiere pubblico, prosperato con la politica da banchiere privato, coltivando il sogno di diventare il Cuccia del nuovo millennio, il regolatore sommo di un sistema capitalistico inquinato nell´osso dalla politica deteriore. Fino alla nascita del berlusconismo e della seconda Repubblica, che ebbe in lui lo stratega finanziario nel momento in cui, prima di scendere in politica per evitare la galera Berlusconi e le sue aziende erano oberati da un mostruoso fardello di debiti. Fu Geronzi a salvarlo. Al governo dell´intero sistema vagheggiato dal geronzismo non è sfuggito neanche lo sport, con i suoi affari più opachi. A un certo punto il banchiere si trovò a controllare di fatto con Capitalia sette squadre di calcio, tra cui la Roma, la Lazio e il Perugia. Luciano Gaucci (che fu querelato) lo accusò di avergli estorto beni per una ventina di milioni di euro, che finirono in una lista che oscilla tra il tragico, il grottesco e il comico: si va da quadri di Guttuso e Campigli a Rolex d´oro e altri gioielli, da una fontana dell´Ottocento a tre televisori, da cinque servizi di argenteria, fino a forniture alimentari per 188 mila euro. Il «rischio reputazionale», locuzione invalsa ad opera del governatore della Banca d´Italia Mario Draghi, cioè il danno che possono procurare all´immagine e alla fiducia che si ripone in un´impresa i sospetti o gli accertati comportamenti devianti di un suo amministratore di vertice, non ha mai fermato fino a ieri la scalata di Geronzi al vertice del «sistema», nonostante egli fosse già più che coinvolto nei crac Cirio e Parmalat al momento di prendere il posto di Cuccia per poi passare alla presidenza delle Generali. Tutte cose che gli attuali azionisti sapevano a menadito. Ma non erano più i tempi di Cesare Merzagora, che nel 1979 da presidente del Leone impedì l´ingresso del giovane Berlusconi, scrivendogli papale-papale: «Lei sta diventando sempre più anche un grosso personaggio politico... In questo campo siamo e saremo sempre molto guardinghi, non aprendo le porte a prestigiosi personaggi della finanza e dell´industria e ancor meno del bosco e del sottobosco politico». Colpito e affondato. Tanto che si narra che il Cavaliere non abbia ancora digerito quello smacco nonostante la figlia sieda oggi nel consiglio di Mediobanca e che abbia parteggiato per le operazioni «di sistema» che Geronzi aveva in mente dalla tolda di Trieste prima di essere defenestrato ieri dai suoi azionisti. L´acquisizione di Mediolanum, che a Berlusconi non serve più? La fusione tra Mediobanca e Generali per mettere il Leone al vertice delle operazioni di sistema nel capitalismo italiano, mentre il berlusconismo politico affoga e si preparano i nuovi equilibri tra poteri? Chissà che farà adesso l´ex banchiere che si volle fare assicuratore di sistema, mentre Giulio Tremonti è già in campo a delibare la successione. Il vicepresidente Franco Caltagirone? O piuttosto il consigliere Paolo Scaroni, che libererebbe la succulenta poltrona dell´Eni? O l´ex ministro dell´Economia Domenico Siniscalco? Quel che è sicuro è che Geronzi, alla ricerca di rivincite, non sfuggirà al suo ego ipertrofico, che dimostrò ancora una volta inaugurando il suo sito Internet www.cesaregeronzi.it: 74 fotografie che facevano la storia non solo del banchiere, ma della banca all´italiana, pronta di volta in volta a gratificare il potere del momento per accrescere il proprio. I 74 scatti mostravano Geronzi con papa Ratzinger e il cardinal Bertone, con Giovanni Paolo II, col cardinal Re, col cardinal Ruini e, di tonaca in tonaca, con don Luigi Verzé, con don Picchi, con l´abate di Montecassino. Dopo i preti, una spolverata di massoneria con Giancarlo Elia Valori e poi Berlusconi e Vespa, Letta e Caltagirone, Alemanno e Tremonti, fino a planare su Prodi e Veltroni, Rutelli e Violante. Un capolavoro dell´Italietta dei poteri mai cangianti e sempre inciucianti, quelli che proprio Geronzi incarna. «E´ caduto l´Impero Romano - soleva dire Cuccia - può cadere anche Mediobanca. Ma le Generali mai, perché sono il vero tesoro di questo paese». Per fortuna per ora è caduto soltanto il geronzismo, malattia senile del clientelismo. a. staterarepubblica. it A.GR. MILANO - Tutto in sette giorni. La transazione da Cesare Geronzi al futuro presidente di Generali è maturata in un nugolo di teste tra Mediobanca, gli azionisti privati di Trieste e il Tesoro. Ed è stata eseguita in modo che negli stessi ambienti definiscono «discreto, silenzioso, professionale, istituzionale». Manca però l´ultimo tassello, la designazione del successore, che tocca al consiglio della compagnia convocato domani a Roma: il favorito sarebbe Gabriele Galateri, in procinto di essere cooptato dal consiglio e, immediatamente, designato nuovo presidente, prima della ratifica assembleare del 30 aprile. Una cospirazione da manuale, dalla ricostruzione che emerge. Le danze sono state condotte da Alberto Nagel (ad di Piazzetta Cuccia) e Lorenzo Pellicioli (ad di De Agostini), con Francesco Caltagirone nei panni di neutrale mediatore tra le parti. Nel fine settimana Nagel e Pellicioli s´erano convinti della necessità di agire per far cessare la turbolenza ai vertici triestini, e hanno iniziato a cercare i consensi su una mozione di revoca del presidente da portare al cda di ieri. Dell´iniziativa hanno avvisato Giulio Tremonti – che avrebbe reagito con ineffabile laissez faire – e, martedì sera in una cena a tre, Caltagirone. A quel punto c´era già la maggioranza di firme sulla mozione: Alberto Nagel e Francesco Vinci (Mediobanca), Angelo Miglietta (Fondazione Crt), gli indipendenti Carlo Carraro, Cesare Calari, Paola Sapienza, Diego Della Valle (Tod´s), Lorenzo Pellicioli (De Agostini), Reinfried Pohl (Generali Ag), Petr Kellner (Ppf), più i due ad Giovanni Perissinotto e Sergio Balbinot. Il costruttore romano avrebbe informato un Geronzi ignaro ieri mattina alle nove, nel preconsiglio, prospettandogli una situazione senza sbocchi, e l´inopportunità di avviare una battaglia di trincea. Pochi minuti dopo Nagel e Pellicioli gli hanno messo sotto il naso la mozione fatale. Sembra che il presidente li abbia accolti nel suo ufficio come Cesare con Bruto e Cassio, con sentimenti di stupore e sorpresa; ma il vincitore di una vita di battaglie finanziarie si è presto ricomposto, dopo avere capito che c´era solo da perdere stavolta. Così ha iniziato a negoziare l´uscita: via da ogni carica, tranne la Fondazione Generali che ha scopi culturali, e circa 15 milioni per l´addio, pari a due annualità previste dal contratto (da 2,5 milioni l´anno) e il resto come buonuscita. Prima delle 14 era tutto compiuto, iniziava il cda straordinario, ma ormai svuotato di senso. Il presidente si è presentato dimissionario e tutto è filato liscio in un paio d´ore, con grande soddisfazione – tenuta bassa però, mai stravincere – di Della Valle, Nagel, Pellicioli e gli altri. Ai "cospiratori" tocca non sedersi sugli allori però, e pensare alla vicina assemblea di fine aprile che dovrà, insieme al bilancio, votare il nuovo presidente. Quello che trapela tra i soci è la volontà di una «presidenza di pacificazione»: il grande peso del banchiere romano ha influenzato negativamente l´operatività della compagnia, come qualcuno temeva fin dall´inizio. Ora serve un presidente che sia garante dei rapporti tra azionisti, e al contempo capace di esercitare la sua funzione senza deleghe operative, com´è per Generali. La sensazione è che i giochi siano quasi fatti, oggi ci sarà il consulto decisivo. Da scartare l´opzione di una conferma del "reggente" vice presidente vicario Caltagirone – che peraltro si sarebbe detto non disponibile – due sono i nomi più accreditati. Il favoritissimo è Galateri, già in passato vice presidente a Trieste per conto di Mediobanca, di cui fu scalzato alla presidenza proprio da Geronzi (2007). Il manager piemontese ha da poco lasciato la presidenza di Telecom. Un uomo con cui, come ha detto chi lo conosce, «è impossibile litigare», e che ben conosce gangli e osservanze dei poteri forti. Sarebbe una nomina ben vista a Piazzetta Cuccia, e molto di continuità con il primo azionista (14%), che ieri è tornato a far sentire una voce forte. In caso di sorprese, un candidato alternativo potrebbe essere Domenico Siniscalco, ex ministro del Tesoro oggi a capo di Assogestioni, in rapporti tornati buoni con Tremonti. Circolano altri nomi di outsider, ma poco probabili, come Alessandro Profumo, Paolo Scaroni, Enrico Tomaso Cucchiani. (a.gr.) IL RIFORMISTA GIUSEPPE MILANO Cesare Geronzi si è dimesso da presidente di Generali. L’epilogo dello scontro all’interno del consiglio di amministrazione del Leone si è concluso come nessuno aveva ipotizzato. Sul tavolo ora ci sono due incognite: la prima sulle dinamiche che hanno portato alla caduta di Geronzi, mentre la seconda riguarda i possibili effetti che questo avrà (e ne avrà) sugli equilibri finanziari italiani. Secondo le prime ricostruzioni a caldo, il placet alla sfiducia del presidente che avrebbe convinto anche i più recalcitranti - sarebbe arrivato dal ministro dell’Economia, Giulio Tremonti. Tremonti avrebbe fatto trapelare, in occasione dei suoi incontri settimanali con i banchieri, il suo disappunto per la gestione geronziana delle Generali. Un fastidio acuito dalla conseguenze strategiche della vicenda dell’intervista fantasma data al Financial Times e prima ritirata e poi abbondantemente ritrattata in cui Geronzi annunciava la possibilità che la compagnia del Leone potesse andare in soccorso delle banche, qualora gli aumenti di capitale necessari per adeguarsi ai parametri di Basilea III dovessero essere parzialmente non accettati dal mercato. Da un punto di vista degli equilibri interni, spiega una fonte finanziaria, la mancata rampogna alle furiose critiche che Vincent Bolloré ha riservato all’amministratore delegato delle Generali, Giovanni Perissinotto, ha convinto anche i più cauti detrattori di Geronzi che l’ex numero uno del Leone non fosse più in grado, o forse non volesse, mettere la mordacchia, o comunque incanalare in ambiti più ragionevoli i malumori dei soci francesi. E questo genera non pochi timori in vista della scadenza, il prossimo ottobre, del patto di sindacato di Mediobanca in cui i soci francesi (oltre a Bolloré c’è anche Groupama) giocano un ruolo pesantissimo. Prima delle invettive di Bolloré per la vicenda Ppr - Vincenzo Maranghi, il duo Renato Pagliaro/Alberto Nagel e poi Cesare Geronzi, avevano garantito il rispetto delle regole da parte dei francesi. Alcuni osservatori fanno notare come il silenzio tetragono di Francesco Gaetano Caltagirone, uno dei grandi elettori geronziani, avrebbe dovuto indurre riflessioni più attente sullo spostamento degli equilibri strategici all’interno delle Generali. Caltagirone, dicono fonti bancarie, non ha voltato le spalle a Geronzi, ma - allo stesso tempo - non ha neanche mosso un dito, e il suo peso, in favore dell’ex presidente. Questo ha contribuito non poco a rasserenare gli animi di quanti preparavano il ribaltone. Ha stupito meno l’endorsement anti-geronziano di Effeti - che coagula i vicentini di Ferak e la Fondazione Crt - e della famiglia Boroli-Drago, che controlla De Agostini. Effeti da sempre sostiene il management delle Generali. Qualcuno fa notare come l’anima Crt sia andata nelle fila degli anti-geronziani con molta leggerezza. E questo qualcuno se lo spiega con un ruolo di maggior potere di Fabrizio Palenzona che della Fondazione Crt è storica espressione. C’è qualcuno, fra i soci delle Generali, cui non dispiacerebbe che a succedere a Geronzi fosse lo stesso Palenzona (si fa il nome anche del presidente di Assogestioni, ed ex ministro del Tesoro, Domenico Siniscalco). Per quanto riguarda De Agostini gli osservatori più attenti ricordano come questi avessero accolto con sostanzia- le freddezza Geronzi, nonostante fossero stati fra i più feroci critici di Perissinotto sotto la gestione Bernheim. Su ciò che accadrà gli scenari sono molteplici. Gli azionisti filo-geronziani di Mediobanca e Generali annunciano strali nei confronti di Alberto Nagel e di Giovanni Perissinotto, considerati i congiurati da parte del fronte geronziano. Nagel, tra l’altro, ha i soci francesi fortemente presenti nel patto di sindacato di Mediobanca, che è in scadenza a fine anno. Oggi azzardare scenari è complicato. Quello che è certo è che Tremonti ha due nuovi scudieri. Nel senso che fino a quando i due rimarranno in scia al capo del Tesoro, spiegano fonti romane, si potranno considerare al riparo. Ma se l’asse con Tremonti, e quindi lo scudo del ministro, dovesse venire meno o indebolirsi ci potrebbero essere rischi concreti di ritorsioni. Resta enorme il tema degli appetiti francesi soprattutto su parte della galassia Ligresti. A oggi tutta la filiera che da Premafin passa a Fonsai e arriva a Milano Assicurazioni è blindata e garantita dall’universo bancario, con Unicredit in testa. Il decreto anti-scalate impedisce mosse a sorpresa su obiettivi sensibili. Ma è impensabile che Bolloré e soci possano togliere il disturbo senza prima avere dato battaglia o senza avere ottenuto delle contropartite degne di nota. E tutti guardano con apprensione al nodo che lega Mediobanca e Generali, senza dimenticare che Bolloré possiede anche il 5 per cento di Premafin, comprato prima che le mire dei francesi di Groupama sul gruppo Ligresti venissero stoppate da Consob. Bolloré oltre a essere vice-presidente e azionista delle Generali, è nel socio di Mediobanca con una quota del 5 per cento e fa parte, insieme ai francesi di Groupama, del "gruppo C" dei soci sindacati di Piazzetta Cuccia che apportano al patto il 10 per cento del capitale. È chiaro che questa coabitazione forzata non possa durare se non regna un’enorme armonia tra tutte le parti coinvolte che sono portatrici di interessi mai tanto diametralmente opposti. E nessuno degli attori in questo momento sul campo ha né lo standing, né l’esperienza, né le conoscenze per potere anche solo pensare di accennare questa mediazione. CDA GENERALI Fra quanti conoscono Cesare Geronzi le dimissioni dalla presidenza delle Generali sono state un evento altamente choccante. Nessuno vuole sbilanciarsi su cosa possa fare in futuro. Ma chi lo conosce sa che, al pari di un banchiere centrale, non ha interesse a coprire incarichi che siano secondari al suo cursus honorum. E in Italia poche responsabilità sono più appaganti della presidenza delle Generali o di Mediobanca. REAZIONI (da Dagospia) 1. CIAMPI, IN BANKITALIA GERONZI ALLA SCUOLA DEL RIGORE DI CARLI... (Adnkronos) - Ai tempi di Banca d’Italia, all’inizio degli anni Sessanta, Cesare Geronzi "si dimostro’ uno straordinario operatore, con grande intuito, capacita’ di lavoro e spiccata intelligenza", rivelandosi "abilissimo in una funzione di grande importanza: calibrare le operazioni e arrivare senza eccessivi squilibri all’appuntamento quotidiano con il fixing lira-dollaro". PERISSINOTTO E GERONZI CARLO AZEGLIO CIAMPI - copyright Pizzi E’ il ricordo del presidente emerito della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che appare oggi sul ’Sole 24 Ore’, in cui ripercorre la comune esperienza in Banca d’Italia con il presidente dimissionario di Generali. In un’epoca in cui l’attenzione sui cambi dell’allora governatore Guido Carli "era costante, Geronzi - aggiunge Ciampi - si formo’ a quella scuola, sull’esempio del grande rigore di Carli, di cui conquisto’ ben presto la fiducia". Ciampi conclude ricordando la segnalazione fornita a Geronzi nel 1982, al suo ingresso in Cassa di Risparmio di Roma, come direttore generale: "Da allora le nostre strade hanno seguito percorsi diversi, ma ancora oggi ho vivo nella mente il ricordo di quella lontana esperienza vissuta insieme in Via Nazionale. Tempi difficili, e al tempo stesso di grande intensita’ e partecipazione". baccini foto gmt 2. BACCINI (PDL), SENZA GERONZI ROMA NON AVRA’ PIU’ POLITICA BANCARIA... (Adnkronos) - ’Penso che con le dimissioni di Geronzi si sia chiusa definitivamente la possibilita’ per la citta’ di Roma di avere una politica bancaria. Non commento le strategie interne dell’azienda perche’ non le conosco, ma politicamente Geronzi rappresenta la fine di un percorso e Roma dovra’ preoccuparsi. Ora abbiamo perso anche l’ultimo baluardo di una citta’ che si ritrova senza banche e senza banchieri’. Cosi’ Mario Baccini, leader dei Cristiano Popolari e deputato Pdl,commenta all’ADNKRONOS le dimissioni di Cesare Geronzi dalle presidenza delle Generali. ’Mi domando -sottolinea Baccini- se i poteri politici ed economici che oggi hanno responsabilita’ se si stiano interrogando su questo impoverimento generale di Roma’. berlusconi e miacaela biancofiore1 3. BIANCOFIORE (PDL), DIMISSIONI GERONZI FRUTTO MANOVRA ALCUNI POTERI FORTI COSI’ SI IMPOVERISCE IN PRIMIS COLOSSO ASSICURATIVO... (Adnkronos) - ’’Le dimissioni di Geronzi impoveriscono in primis le Generali. Mi sembra una manovra di alcuni poteri forti che in questi giorni, non a caso, si sono manifestati con improbabili discese in campo, in accordo con dei convitati di pietra. Mi pare la chiusura di un cerchio che gira attorno a un coacervo di poteri che cerca di sostituirsi all’attuale democraticamente eletto’’. Cosi’ Michaela Biancofiore del Pdl commenta all’ADNKRONOS le dimissioni di Cesare Geronzi dalle presidenza delle Generali. 4. TABACCI (API), COSI’ INDEBOLITO IL SISTEMA BERLUSCONI... (Adnkronos) - ’’Se me lo aspettavo? Si. Mi era parso dalle ultime mosse che lo scontro al calor bianco con i manager del Leone fosse irredimibile. D’altronde Geronzi voleva procrastinare la continuita’ cesaristica da Mediobanca a Generali, rifare a Trieste, in una delle principali compagnie del mondo, quel che ha fatto a Milano in piazzetta Cuccia. La somma delle due cose ha coalizzato il management sull’asse Mediobanca-Generali’’. BRUNO TABACCI Lo sottolinea Bruno Tabacci, deputato Api, in una intervista alla Stampa, commentando le dimissioni di Cesare Geronzi da Generali. ’’L’intreccio tra politica e potere, la grande malattia degli anni berlusconiani, giocoforza si ridurra’ -spiega-. E’ ragionevole pensare che, d’ora in poi, per fare operazioni nel nostro Paese non si dovra’ piu’ chiedere il permesso a palazzo Chigi. La cappa su questo sistema di potere era cosi’ forte che impediva persino di raggiungere risultati sul piano dei mercati finanziari. Basta vedere la reazione dei mercati alle dimissioni del presidente. La considero un segnale di speranza per il Paese: significa che non tutte le porte sono chiuse e che si puo’ tornare ad un maggiore pluralismo economico finanziario’’. ENZO RAISI 5. RAISI (FLI), CON DIMISSIONI GERONZI FINALMENTE INIZIA RICAMBIO... (Adnkronos) - ’Finalmente qualcosa si muove nel mondo dell’economia. Credo che anche in questo settore ci voglia un ricambio. Il fatto che Geronzi si sia dimesso, significa che anche il mondo bancario, da sempre afflitto dalla gerontocrazia, si stia preparando a nuovi scenari. Ora pero’ bisogna capire quali saranno questi nuovi scenari. Dobbiamo vedere se in prospettiva del dopo-Berlusconi si stanno muovendo anche i poteri forti’. Cosi’ il deputato di Fli Enzo Raisi commenta all’ADNKRONOS le dimissioni di Cesare Geronzi dalle presidenza delle Generali. 6. BUONFIGLIO (FLI), BENE DIMISSIONI GERONZI MA ATTENTI AD ASSE NORD... (Adnkronos) - ’Le dimissioni di Geronzi significano che c’e’ un cambiamento. Ora, pero’, bisogna vedere se questo cambiamento sara’ nel segno della trasparenza di un progetto sempre nazionale o nel solco ancora di una maggiore localizzazione del potere al Nord’. Cosi’ il coordinatore di Fli del Lazio e deputato finiano Antonio Buonfiglio, commenta all’ADNKRONOS le dimissioni di Cesare Geronzi dalle presidenza delle Generali. ’Ora dobbiamo stare attenti e capire se l’asse bancario si sposta tutto al Nord’, insiste Buonfiglio. SERGIO DANTONI 7. D’ANTONI, USCITA GERONZI SEGNALA DEBOLEZZA NOSTRO CAPITALISMO... (Adnkronos) - Le dimissioni di Cesare Geronzi "sono un segnale di indebolimento del capitalismo italiano, nel senso che si perdono gli equilibri vecchi e non si sa quali nuovi equilibri si creeranno". Sergio D’Antoni, parlamentare del Pd e vice presidente della commissione Finanze della Camera, ritiene sia questo l’interrogativo che si profila, in modo sempre piu’ marcato, dopo le dimissioni di Cesare Geronzi dalla presidenza di Generali. "Siamo di fronte a un’offensiva straniera molto forte -dice D’Antoni all’ADNKRONOS- sia nella finanza che nelle imprese che contano. Tutto questo finora e’ passato sotto un silenzio assoluto. Qui non si tratta di avere nostalgia del passato o di rimpiangere personaggi che non ci sono piu’ -io meno che mai- ma il problema vero e’ domandarsi quali equilibri si riproporranno? Quale e’ la vera Mediobanca che conta? Cosa serve in questo momento al capitalismo italiano per rilanciarsi? Questo e’ assolutamente oscuro -conclude D’Antoni- e su questi temi di portata strategica che si dovrebbe aprire un confronto concreto e propositivo in Parlamento e nel Paese". 8. LANNUTTI (IDV), GERONZI? ORA SISTEMA ESCA DA FORESTA PIETRIFICATA... (Adnkronos) - "Se dobbiamo dare a Cesare quello che e’ di Cesare, va detto che Geronzi e’ stato il primo a capire l’importanza delle associazioni dei consumatori e dei risparmiatori, aprendo ’tavoli’ per gestire le crisi. Sulla sua scia sono venuti i Profumo e i Passera. D’altronde, rilevo che Geronzi ha rimborsato i risparmiatori Cirio...". Elio Lannutti Lo dice all’ADNKRONOS, a proposito dell’avvicendamento al vertice delle Generali, il senatore di Italia dei valori Elio Lannutti, presidente Adusbef, che aggiunge: "L’uomo, comunque, per le relazioni che ha, non e’ affatto finito. Ricordiamoci che non e’ stato il banchiere ’del’ potere, ma ’di tutti’ i poteri". SUSANNA CAMUSSO In prospettiva, pero’, il senatore Idv sottolinea la necessita’ che "il sistema bancario italiano esca dalla condizione di foresta pietrificata o cimitero di pachidermi di un capitalismo asfittico come quello italiano. Ci vuole un deciso cambio di mentalita’ ma soprattutto qualcuno che riesca a far rispettare le regole e imponga i controlli a tutti i livelli, altrimenti questo Paese non si salva". 9. CAMUSSO, USCITA GERONZI? SPERO NON SERVA AD ALTRI FINI... (AGI) - Il leader della Cgil, Susanna Camusso, auspica che le dimissioni di Cesare Geronzi dalla presidenza delle Generali, non siano usate "ad altri fini". "Credo fosse evidente - ha spiegato Camusso a margine del congresso della Legacoop - che i problemi nel Cda di Generali si fossero variamente manifestati, anche se - ha aggiunto - in qualche occasione non erano del tutto comprensibili le ragioni di queste criticita’". Secondo il segretario generale della Cgil "e’ sempre utile per un’azienda importante come Generali che si vada alla risoluzione dei problemi ed e’ altrettanto utile pensare ogni tanto che se si scende di classe anagrafica non e’ un problema. L’auspicio - ha concluso Camusso - e’ che non venga usato ad altri fini". 0pap18 giorgio lamalfa 10. LA MALFA, DIMISSIONI GERONZI? MI LIMITO A PRENDERNE ATTO SEGNALE DI FERMEZZA DEL MANAGEMENT... (Adnkronos) - "Mi limito a prendere atto delle dimissioni. Mi pare che sia un segnale di fermezza e di dirittura del management di Generali e Mediobanca e questo mi sembra molto importante". Lo ha dichiarato all’ADNKRONOS il parlamentare repubblicano Giorgio La Mafla commentando le dim issioni di Cesare Geronzi dalla presidenza della compagnia triestina. DOMENICO SINISCALCO - copyright Pizzi 11. SINISCALCO, IO PRESIDENTE? NON DICO NIENTE... (Adnkronos) - "Non dico niente". Cosi’ il presidente di Assogestioni Domenico Siniscalco risponde, prima di entrare nella sede di Mediobanca a Milano, ai giornalisti che gli chiedono se sarebbe interessato a diventare presidente delle Generali. "Lavoro con orgoglio nella mia societa’", aggiunge Siniscalco, spiegando poi che il motivo della sua presenza in Mediobanca e’ una "visita di business". Stamani e’ arrivato in piazzetta Cuccia anche il country manager Italia delle Generali, Paolo Vagnone. 12. CERCHIAI, GENERALI E’ UNA GRANDE REALTA’... (Adnkronos) - ’Generali e’ una grande realta’. Lo so perche’ la conosco da di dentro’. Il presidente dell’Ania, Fabio Cerchiai, risponde cosi’ ai cronisti che gli chiedono se le dimissioni di Cesare Geronzi dalla presidenza, provocheranno qualche problema al gruppo assicurativo. Fabio Cerchiai e Giorgio La Malfa foto di MarinoPaoloni 13. S&P, NESSUN IMPATTO SU RATING DA DIMISSIONI GERONZI... (Adnkronos) - Nessun impatto sul rating (AA-) e sull’outlook di Generali dalle dimissioni del presidente Cesare Geronzi e dai recenti contrasti nella governance della compagnia. Lo scrive in una nota l’agenzia Standard & Poor’s, ricordando i conflitti fra diversi membri del Cda e la mancata approvazione all’unanimita’ del bilancio 2010. Per S&P "simili problemi di governance non impediranno al management di dare attuazione alla strategia del gruppo" e quindi non "influiranno sulla capacita’ finanziaria" del Leone di Trieste. IL FATTO QUOTIDIANO VITTORIO MALAGUTTI "Tutto bene, sono ancora vicepresidente", sussurra frettolosamente Vicent Bolloré al capannello di giornalisti in attesa al termine del consiglio delle Generali che ha defenestrato Cesare Geronzi. Per adesso è davvero così: l’uomo d’affari francese che nel 2002 entrò sfondando la porta nel salotto buono della finanza italiana non perde il suo posto a Trieste. Non lo perde nonostante il sostegno da sempre generosamente offerto a Geronzi. E nonostante la clamorosa astensione di un mese fa sul bilancio 2010 delle Generali. Questo fatto inaudito nelle austere stanze della compagnia triestina ha finito per innescare il regolamento di conti di ieri. Bolloré però sa benissimo che l’uscita di scena di Geronzi segna soltanto la fine del primo tempo di una partita ancora lunga e potenzialmente ricca di colpi di scena. Il campo di gioco per questo confronto decisivo per gli assetti di potere del capitalismo nazionale sarà il prossimo rinnovo del patto di sindacato di Mediobanca, primo azionista di Generali con una quota del 13,4 per cento. L’accordo scade a fine anno, ma le disdette vanno inviate entro settembre. Storicamente, nulla di ciò che accade a Trieste resta senza conseguenze nella banca che fu di Enrico Cuccia. E viceversa. Nel 2003 l’attacco in Borsa a Mediobanca condotto da Bolloré con il sodale berlusconiano Tarak Ben Ammar spinse Geronzi (allora Capitalia) e Alessandro Profumo (alla testa di Unicredit) a dare la scalata a Generali con il risultato di mettere in difficoltà l’erede di Cuccia, Vincenzo Maranghi, che alla fine si dimise. Quel ribaltone chiuse un’epoca. E a distanza di otto anni i due principali protagonisti di quello che fu considerato una sorta di colpo di stato, appoggiato dall’allora governatore di Bankitalia Antonio Fazio, sono entrambi usciti di scena. Prima Profumo, adesso Geronzi. In Mediobanca restano i francesi: Bolloré con il 5 per cento e l’assicurazione Groupama con il 4,9 di cui l’1,83 per cento non legato al patto di sindacato. La presenza dei gruppi transalpini appare sempre più ingombrante dopo che Giulio Tremonti ha alzato i toni della sua crociata a difesa dell’italianità minacciata da Parigi. Groupama il mese scorso è stata costretta a rinunciare all’ingresso in forze nella Fondiaria dei Ligresti dopo lo stop imposto dalla Consob presieduta dal tremontiano Giuseppe Vegas. E proprio Tremonti, reduce da un incontro nei giorni scorsi con l’amministratore delegato di Generali, Giovanni Perissinotto, ha seguito con benevola attenzione le manovre anti Geronzi. Così, adesso, pochi tra gli analisti sono disposti a scommettere che una volta placata la tempesta a Trieste, in Mediobanca tutto resti come prima. Ci si chiede per esempio come reagirà lo schieramento dei berlusconiani presenti in forze nel consiglio e nel patto della più blasonata delle banche italiane. Fuori causa Salvatore Ligresti messo sotto tutela, causa debiti, da Unicredit, il premier possiede il 2 per cento (1 per cento conferito al patto) tramite Fininvest. L’amico Ennio Doris con Mediolanum, conta su un altro 3,4 per cento e in consiglio di amministrazione troviamo, insieme a Marina Berlusconi anche il solito Tarak Ben Ammar. La sorprendente visita resa ieri sera dal sottosegretario Daniela Santanchè a Geronzi intento a preparare le valigie vorrebbe far intendere che i berlusconiani non hanno mollato quello che da almeno una quindicina di anni è il loro banchiere di riferimento. Poi ci sono le dichiarate ambizioni di Fabrizio Palenzona, l’uomo forte di Unicredit che nella sua recente intervista al Corriere della Sera ha voluto ricordare che Unicredit è il primo azionista di Mediobanca a sua volta socia di riferimento in Generali. Nell’era Profumo c’erano altre priorità e il banchiere uscito di scena a settembre si era ritagliato un ruolo sempre meno incisivo in questi giochi di potere. Con Palenzona si cambia musica. Il corpulento ex politico deMocristiano di Tortona è arrivato a evocare un asse tra grandi soci come il gruppo Caltagirone e la Fondazione Torinese Crt (dove Palenzona propone e dispone) per dare nuova stabilità agli assetti delle Generali. Nelle settimane scorse proprio la Crt socia di un gruppo di investitori veneti nella holding Effeti ha svolto un ruolo non secondario nelle manovre che hanno portato alle dimissioni di Geronzi. E uno dei consiglieri della compagnia di Trieste che ha promosso la mozione di revoca al presidente altri non è che Angelo Miglietta, rampante segretario generale della stessa Crt. Ecco perchè molti vedono proprio Palenzona, che ormai da molti anni siede nel consigli di Mediobanca, pronto a candidarsi come il garante di equilibri nuovi. Sono ormai lontani i tempi in cui Tremonti tuonava contro le fondazioni. Adesso i soldi di questi enti un tempo defintiti autoreferenziali e dominati dalla politica, servono per finanziare gli aumenti di capitale di istituti del calibro di Intesa. Non solo. Se ci sarà bisogno di un intervento per stabilizzare Mediobanca e favorire l’uscita dei francesi capitanati dal geronziano Bollorè, ecco che la discesa in campo delle fondazioni, con la benedizione di Tremonti, potrebbe alla fine rivelarsi decisiva. Coronando le ambizioni di Palenzona, nuovo banchiere di sistema. Nuovo Geronzi. ****** IL SOLE 24 ORE. MARIGIA MANGANO - TRE CANDIDATI PER IL NUOVO VERTICE - Tempi stretti per la designazione del nuovo presidente di Generali, dopo le dimissioni di Cesare Geronzi. Il consiglio di amministrazione della compagnia assicurativa è stato convocato per domani e in quella sede si procederà all’indicazione di chi sostituirà il banchiere romano alla presidenza del Leone. L’impegno di arrivare alla nomina del nuovo presidente prima dell’assemblea del 30 aprile è stato assunto da Mediobanca in veste di primo azionista delle Generali nei confronti dei consiglieri pronti a sostenere un’eventuale mozione di sfiducia di Geronzi, cui non si è poi arrivati in seguito alle sue dimissioni. Una svolta, quella trovata a Piazza Venezia a Roma, maturata nel fine settimana, con la banca milanese ormai convinta di dover trovare una soluzione al problema di governance emerso sotto la presidenza di Cesare Geronzi e arrivare a un cambiamento da molti definito epocale. Come nella tradizione della casa, fin dai tempi di Enrico Cuccia, sarà Mediobanca a indicare il sostituto. La volontà è quella di optare per la figura di una presidente non esecutivo. Del resto l’ultima relazione sul governo societario della compagnia considera il presidente investito di deleghe che hanno a che vedere solo con la comunicazione e il rapporto con le istituzioni. Fino a ieri in tarda serata, secondo quanto si apprende, una decisione definitiva e unanime sul nome del successore di Geronzi non c’era, ma un orientamento di massima, quello sì, e converge sul nome di Gabriele Galateri di Genola. Nel corso della giornata, partita formalmente con il consiglio di amministrazione di Trieste, si sono susseguiti incontri e contatti tra i grandi protagonisti di quella che sarà ricordata come la grande sconfitta del banchiere romano. Ma è atteso per oggi un consulto decisivo tra i grandi azionisti della compagnia. Più voci convergono su un consenso diffuso tra i grandi soci della compagnia triestina per la candidatura di Gabriele Galateri di Genola, che non sarà riconfermato alla presidenza di Telecom ed era al vertice di Mediobanca prima dell’arrivo di Geronzi (è rimasto dal 2003 al 2007). C’è chi, invece, punterebbe sul nome del professore Mario Monti, ex commissario europeo e oggi alla presidenza dell’Università Bocconi. E ancora, tra i candidati figurerebbe anche il superconsulente Roland Berger, membro del consiglio di Fiat e capo-controllore del gruppo Roland Berger. La politica, d’altro canto, non starebbe a guardare e punterebbe su due figure per la presidenza della compagnia: quella del professore Quadrio Curzio e quella dell’ex ministro Domenico Siniscalco, già candidato di peso lo scorso anno per il vertice di Intesa, e oggi presidente di Assogestioni. Peraltro c’è chi non esclude, infine, una candidatura interna e fa il nome di quell’Alessandro Pedersoli molto vicino a Giovanni Bazoli, presidente di Intesa Sanpaolo. Dopo solo un anno dalla nomina di Geronzi, si riapre dunque il valzer della presidenza. Ma indicazioni definitive arriveranno solo oggi, alla vigilia del consiglio di amministrazione delle Generali che nominerà il nuovo presidente. Tecnicamente il board in agenda procederà con la sostituzione di Geronzi e dunque con la cooptazione di chi, appunto, prenderà il posto del banchiere romano al vertice. Il consiglio di amministrazione, invece, non dovrebbe procedere nella riunione di domani alla cooptazione di Ana Botin, la figlia del numero uno del Santander Emilio Botin, che ha rassegnato le dimissioni qualche giorno prima del consiglio. In ogni caso il nuovo consigliere cooptato formalmente scadrà con l’assemblea di fine mese. Da qui la necessità della convocazione di un comitato nomine di Mediobanca prima di allora che proceda alla ratifica in modo che l’assemblea degli azionisti di Trieste possa rinominarlo. Nell’attesa, Francesco Gaetano Caltagirone assume le funzioni di presidente-vicario delle Generali. Caltagirone è infatti il più anziano tra i vice-presidenti della compagnia triestina. Lo prevede lo statuto della compagnia triestina: l’articolo 33 indica che «Il Presidente assente o impedito è sostituito in tutte le sue attribuzioni da un vicepresidente. La sostituzione spetta a quello dei vicepresidenti che ricopra anche la carica di amministratore delegato; se più sono i vicepresidenti che ricoprano la carica di amministratore delegato, o se nessuno di essi ricopra tale carica, la sostituzione compete al più anziano di età». **** IL SOLE 24 ORE - CARLO MARRONI - UN BANCHIERE TRA POLITICA E VATICANO - L’appuntamento in genere era la domenica sera. Nella sua villa di Marino, Cesare Geronzi - parliamo di qualche anno fa - ospitava Silvio Berlusconi e Antonio Fazio. E lì, sotto gli alberi, magari con la scusa di un tiro a bocce, si discuteva e soprattutto si decideva. Il capitalismo relazionale di Geronzi, nella sua declinazione più prossima alla politica, era anche questo: lontano dai riflettori, ma anche dalle consunte liturgie della terrazza romana ben rappresentate da un noto sito web sul quale la classe dirigente butta l’occhio almeno un paio di volte al giorno. Da Marino - cuore vinicolo dei Castelli - è partito, e lì torna sempre. Un legame forte con il territorio: la moglie Giuliana Iozzi, marinese come lui, prima ha lavorato al rilancio della famosa Festa dell’Uva di Marino (descrita da una celeberrima canzone) e poi ha ricoperto incarichi al comune, accarezzato l’idea di diventare sindaco sostenuta da tre liste civiche trasversali da destra a sinistra, a conferma di una vocazione familiare. Ma con ogni probabilità ha inciso anche sul carattere dell’uomo, per nulla incline al sussiego, in privato schietto, in pubblico essenziale. La famiglia fa sacrifici e lo fa studiare, tanto che nel 1960 supera il concorso in Banca d’Italia, dove negli anni creerà la base su cui costruirà una carriera formidabile e a cui resterà sempre legato («un saio che ti porti sempre addosso», è uso definire il passaggio in via Nazionale). Allievo di Guido Carli, in pochi anni di lavoro a capo basso arriva a guidare l’uffico cambi, snodo nevralgico della politica monetaria, da dove tiene d’occhio gli speculatori che via via mettono sotto pressione la liretta dell’epoca, che passava da una svalutazione all’altra. Un potere reale immenso, in realtà. Un giorno, raccontano le biografie, il grande Beniamino Andreatta affermò in Parlamento: «Mentre voi state discutendo, c’è un signore di nome Cesare Geronzi che manipola il tasso d’inflazione del nostro Paese». Era la prima volta che il suo nome veniva pronunciato in pubblico, anche se gli adetti ai lavori lo conoscevano bene. Ricorda Florio Fiorini, nei primi anni ’80 a capo della finanza dell’Eni, che quando esagerava con le operazioni spericolate lo chiamava Geronzi, ribattezzato "il dottor Koch", dal nome del palazzo dove ha sede la banca centrale. Lì stabilisce un soldalizio con Antonio Fazio, che negli anni avrà alti e bassi. Esce da Bankitalia e segue Rinaldo Ossola al Banco di Napoli, ma l’esperinza dura poco, i napoletani dell’epoca non amavano i colonizzatori. Appoggiato da Carlo Azeglio Ciampi ricomincia dalla piccola Cassa di Risparmio di Roma, che in poco tempo diventerà il più formidabile polo aggregante bancario d’Italia, per la verità senza badare troppo ai ratios o alle sofferenze nascoste tra le pieghe. La sonnacchiosa banchetta romana, grazie ai buoni uffici di Giulio Andreotti, si pappa il Banco di Santo Spirito, all’epoca dell’Iri. Non è solo crecita dimensionale: si tratta della banca di fiducia del Vaticano, che storicamente ha sede proprio di là dal ponte di Castel Sant’Angelo. Ma il vero salto lo fa subito dopo con l’acquisizione del Banco di Roma - l’altro istituto di fiducia della Santa Sede e dell’intera classe politica democristiana, ma che soprattutto ha in pancia la quota Mediobanca che sarà strategica per gli sviluppi futuri - venduta dall’Iri presieduto da un altro andreottiano di ferro, Franco Nobili. Sono gli anni in cui tutto o quasi si decide nello studio al terzo piano del Presidente, a piazza San Lorenzo in Lucina, e in cui le diramazioni del potere andreottiano si allargano dalla partecipazioni statali all’imprenditoria privata che in un modo o nell’altro fa affari con lo Stato. A chi chiede come fare per portare in fondo un’operazione, il Presidente - raccontano quelli che gli sono stati vicino a lungo - risponde «parlatene con Geronzi». Ma tangentopoli è in arrivo e Silvio Berlusconi sta per scendere in campo. Con il Cavaliere - e con il suo plenipotenziario Gianni Letta - sarà stretto un sodalizio che dura fino ad oggi, e che passa nel 1995 per il sostegno all’operazione Wave che porta in Borsa Mediaset. Anche se Geronzi - che nel fattempo aggrega Bna e Mediocredito - non trascurerà di stringere con altri, tra cui Massimo D’Alema e Piero Fassino, ma anche con Walter Veltroni (per la verità in maggiore sintonia con Matteo Arpe) con il quale condivide ufficialmente la battaglia della romanità, preservando la banca dagli appetiti nordisti. Prestare denaro è politica, forse della più efficace, lo sa lui, lo sanno gli altri. E così la Banca di Roma sarà sempre al centro di partite cruciali come la ristrutturazione del debito dei Ds e il sostegno finanziario all’Unità e al Manifesto. Ma anche il calcio è potere, e ad un certo punto Geronzi avrà in mano i destini aziendali della Roma (ancora oggi in ballo) e poi della Lazio - a lungo sponsorizzata direttamente sulle magliette biancocelesti - di Fiorentina e Perugia. La Banca è al culmine del suo radicamento, porta in Italia gli azionisti libici, ma il gioco si fa duro, spuntano i guai giudiziari, di lì a poco l’alleanza storica e ostentata con Fazio si rompe sulla partita Antonveneta, che il Governatore aveva destinato alla Popolare di Lodi (vicenda che ancora occupa le aule di giustizia). Sono gli anni in cui Geronzi consolida un rapporto con Tremonti, che fu il più fiero avversario di Fazio tanto da ottenerne le dimissioni a fine 2005. Ma in tempi recenti - proprio lo scorso novembre - in una delle rare uscite pubbliche, arriva dopo molto tempo e tanto gelo l’attesa riappacificazione ufficiale, con il riconoscimento del ruolo svolto dal Governatore nel «disboscamento della foresta pietrificata» e la chiamata dell’amico Antonio alla guida del comitato scientifico della Fondazione Generali. Intanto, è il 2007, da meno di un anno Intesa si è fusa con il San Paolo, e il tempo stringe per chiudere operazioni di sistema. Nasce così l’operazione che porta UniCredit ad acquisire Capitalia, che gli spianerà la strada per la guida di Mediobanca che anni prima, ha detto sempre di recente, «avevamo pacificato» trovando l’accordo tra soci italiani e francesi. Un gioco in grande nel quale Geronzi dà il meglio di sè, dove ogni cosa passa senza trovare ostacoli, come l’eliminazione del sistema di governance duale faticosamente varato da Piazzetta Cuccia poco prima. Quando fu decisa la fusione con UniCredit e Capitalia andava dentro la pancia di un colosso nordico-tedesco la Chiesa, si allarmò: che fine faranno i rapporti stretti tra l’ex Santo Spirito e le mille diramazioni ecclesiali, dal momento che tutto finiva in un conglomerato di diversa marca? Ed ecco Geronzi che all’ambasciata d’Italia presso la Santa Sede incontra i vertici della Cei per rassicurare che la direzione di marcia non cambiava. Ma è con il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che il rapporto è particolarmente fecondo. Un segnale è stata l’assunzione come capo delle relazioni istituzionali prima in Capitalia e poi in Mediobanca del giovane avvocato ligure Marco Simeon, pupillo del cardinale. Eppoi le nozze di una delle figlie di Geronzi personalmente celebrate da Bertone, nel dicembre 2007 a Santo Spirito in Sassia. Tra gli ospiti della cerimonia, ricordano le cronache dell’epoca, anche nomi che in queste ore ricorrono di continuo, come il suo predecessore alla presidenza di Generali, Antoine Bernheim, e i vertici di Mediobanca, Renato Pagliaro e Alberto Nagel. Una vita al riparo dalle luci della ribalta, quindi. In verità c’è un episodio in cui si concesse al glamour: era il 2005 quando, in occasione della convention annuale dei dirigenti di Capitalia, insieme ad Arpe, fece una delle famose "interviste doppie" con le Iene. Una risposta sulle altre: «Politico preferito? il presidente Cossiga». ****** IL SOLE 24 ORE - ANTONELLA OLIVIERI LO STRAPPO DI PIAZZETTA CUCCIA - Metaforicamente i figli hanno fatto fuori il padre. Freud direbbe che è il passaggio all’età adulta. Mediobanca si è assunta la responsabilità dell’azionista di maggioranza e davanti all’impossibilità di ricucire ancora una volta gli strappi ha troncato un rapporto che durava da un ventennio. Cesare Geronzi aveva fatto ingresso nel board di Mediobanca per la prima volta nel ’92 in quota Banca di Roma, delle tre banche d’interesse nazionale azioniste quella più lontana dal cuore del fondatore Enrico Cuccia. Dell’istituto che pretendeva di essere il padrone dei padroni, Geronzi era diventato vice-presidente già nel ’95, carica che manterrà fino al giugno del 2007 quando, con l’abbandono della sua Capitalia nelle mani dell’UniCredit di Alessandro Profumo, passò diretto alla presidenza di Mediobanca. Nessuno ha saputo spiegarsi davvero perchè poi Geronzi abbia voluto fare il passo, risultatogli fatale, al vertice di Generali, uscendo per la prima volta nella sua carriera dal seminato del credito. In un anno trascorso alla presidenza del Leone, non c’è stata pace. Dalle voci sulla fusione Mediobanca-Generali, all’ipotesi contraria di divorzio, ai rumor su presunti bracci di ferro sulle deleghe, alle polemiche sull’influenza in Rcs, all’intervista rilasciata al Financial Times che contrastava con le strategie di investimento della compagnia, allo scontro sulla joint assicurativa nell’Est europeo con Petr Kellner, alle discussioni sull’acquisto di una quota nella banca russa Vtb, agli interventi mirati dell’Isvap, tutto è finito sulle colonne dei giornali, rompendo la secolare tradizione di riservatezza del Leone triestino. Avevano ragione gli analisti quando sostenevano che tutto ciò pesava come una zavorra sulle quotazioni del titolo, che non c’era solo il rischio Paese a penalizzare i corsi di Borsa di Generali, ma c’era anche uno sconto "governance". Difatti, all’annuncio del ribaltone, il titolo si è infiammato fino a salire del 5,6% per poi chiudere con un progresso vicino al 3%. Ma, ancora di più ne ha beneficiato Mediobanca che ha terminato la seduta in rialzo del 4,78%. L’ad Alberto Nagel aveva provato a smussare i toni. Di pubblico non è uscito nulla, ma in consiglio, a quanto risulta, aveva preso posizione con toni meno morbidi di quanto la sua predisposizione alla diplomazia potesse far pensare. Ancora una settimana fa, dopo la lettera firmata da otto consiglieri che chiedevano la convocazione di un cda straordinario, aveva provato a costruire una tregua. Si pensava che Geronzi sarebbe uscito dal board di ieri ridimensionato nelle deleghe, ma non estromesso. La tensione però in Generali si tagliava col coltello, ricomporre la frattura tra il presidente istituzionale e il top management operativo non è stato possibile. E dopo tutto Mediobanca doveva proteggere anche i suoi interessi, dal momento che ancora oggi la metà della capitalizzazione di Borsa di Piazzetta Cuccia è spiegata da Generali. La svolta così è maturata nel week-end. Nagel, insieme al collega Saverio Vinci (direttore generale dell’istituto e amministratore di Generali) e all’ad di Dea Lorenzo Pellicioli, che nel board del Leone si era speso per l’ammodernamento della governance, hanno preso contatti con tutti i consiglieri, tenendo al corrente le autorità della decisione che stava maturando. Di certo è stato informato il ministro del Tesoro, Giulio Tremonti. L’ultima riunione, decisiva, nella nottata alla vigilia del cda straordinario al quale Geronzi, che l’aveva convocato di malavoglia, non ha poi partecipato. Alle 9.30 di ieri Nagel e Pellicioli hanno comunicato al presidente che era pronta una mozione di sfiducia nei suoi confronti, sottoscritta da 12 consiglieri: gli otto che avevano chiesto il board straordinario, Nagel, Vinci e i due amministratori delegati di Generali, Giovanni Perissinotto e Sergio Balbinot. I contrasti tra la nuova generazione di Mediobanca e il navigato banchiere romano non erano mancati neppure negli anni di coabitazione in Piazzetta Cuccia, dallo sconcerto per la fuoriuscita del delfino del fondatore Vincenzo Maranghi, al cambio repentino della governance dopo una breve esperienza duale, fino alla risoluzione di lasciare la banca per approdare alla più florida provincia dell’impero. Passaggi mai condivisi, ma alla fine sempre accettati. Fino al colpo di scena che ieri ha chiuso un’epoca. "Graziato" invece in extremis il finanziere bretone Vincent Bollorè che, nonostante i malumori del consiglio triestino, è rimasto al suo posto di vice-presidente con l’attenuante di aver fatto proprie posizioni non sue. Una rottura con il capofila della cordata transalpina, che nell’azionariato sindacato di Mediobanca controlla una quota del 10%, avrebbe significato ipotecare il rinnovo del patto prossimo alla scadenza. Ma da qui al 30 settembre, termine ultimo per inoltrare le disdette, nessuno è pronto a mettere la mano sul fuoco che davvero non succederà nulla. ****** IL FATTO QUOTIDIANO - VITTORIO MALAGUTTI IL RISIKO DEL POTERE ORA SI SPOSTA A MEDIOBANCA - “Tutto bene, sono ancora vicepresidente”, sussurra frettolosamente Vicent Bolloré al capannello di giornalisti in attesa al termine del consiglio delle Generali che ha defenestrato Cesare Geronzi. Per adesso è davvero così: l’uomo d’affari francese che nel 2002 entrò sfondando la porta nel salotto buono della finanza italiana non perde il suo posto a Trieste. Non lo perde nonostante il sostegno da sempre generosamente offerto a Geronzi. E nonostante la clamorosa astensione di un mese fa sul bilancio 2010 delle Generali. Questo fatto inaudito nelle austere stanze della compagnia triestina ha finito per innescare il regolamento di conti di ieri. Bolloré però sa benissimo che l’uscita di scena di Geronzi segna soltanto la fine del primo tempo di una partita ancora lunga e potenzialmente ricca di colpi di scena. Il campo di gioco per questo confronto decisivo per gli assetti di potere del capitalismo nazionale sarà il prossimo rinnovo del patto di sindacato di Medio-banca, primo azionista di Generali con una quota del 13,4 per cento. L’accordo scade a fine anno, ma le disdette vanno inviate entro settembre. Storicamente, nulla di ciò che accade a Trieste resta senza conseguenze nella banca che fu di Enrico Cuccia. E viceversa. Nel 2003 l’attacco in Borsa a Mediobanca condotto da Bolloré con il sodale berlusconiano Tarak Ben Ammar spinse Geronzi (allora Capitalia) e Alessandro Profumo (alla testa di Unicredit) a dare la scalata a Generali con il risultato di mettere in difficoltà l’erede di Cuccia, Vincenzo Maranghi, che alla fine si dimise. Quel ribaltone chiuse un’epoca. E a distanza di otto anni i due principali protagonisti di quello che fu considerato una sorta di colpo di stato, appoggiato dall’allora governatore di Bankitalia Antonio Fazio, sono entrambi usciti di scena. Prima Profumo, adesso Geronzi. In Mediobanca restano i francesi: Bolloré con il 5 per cento e l’assicurazione Groupama con il 4,9 di cui l’1,83 per cento non legato al patto di sindacato. La presenza dei gruppi transalpini appare sempre più ingombrante dopo che Giulio Tremonti ha alzato i toni della sua crociata a difesa dell’italianità minacciata da Parigi. Groupama il mese scorso è stata costretta a rinunciare all’ingresso in forze nella Fondiaria dei Ligresti dopo lo stop imposto dalla Consob presieduta dal tremontiano Giuseppe Vegas. E proprio Tremonti, reduce da un incontro nei giorni scorsi con l’amministratore delegato di Generali, Giovanni Perissinotto, ha seguito con benevola attenzione le manovre anti Geronzi. Così, adesso, pochi tra gli analisti sono disposti a scommettere che una volta placata la tempesta a Trieste, in Mediobanca tutto resti come prima. Ci si chiede per esempio come reagirà lo schieramento dei berlusconiani presenti in forze nel consiglio e nel patto della più blasonata delle banche italiane. Fuori causa Salvatore Ligresti messo sotto tutela, causa debiti, da Unicredit, il premier possiede il 2 per cento (1 per cento conferito al patto) tramite Fininvest. L’amico Ennio Doris con Mediolanum, conta su un altro 3,4 per cento e in consiglio di amministrazione troviamo, insieme a Marina Berlusconi anche il solito Tarak Ben Ammar. La sorprendente visita resa ieri sera dal sottosegretario Daniela Santanchè a Geronzi intento a preparare le valigie vorrebbe far intendere che i berlusconiani non hanno mollato quello che da almeno una quindicina di anni è il loro banchiere di riferimento. Poi ci sono le dichiarate ambizioni di Fabrizio Palenzona, l’uomo forte di Unicredit che nella sua recente intervista al Corriere della Sera ha voluto ricordare che Unicredit è il primo azionista di Mediobanca a sua volta socia di riferimento in Generali. Nell’era Profumo c’erano altre priorità e il banchiere uscito di scena a settembre si era ritagliato un ruolo sempre meno incisivo in questi giochi di potere. Con Palenzona si cambia musica. Il corpulento ex politico democristiano di Tortona è arrivato a evocare un asse tra grandi soci come il gruppo Caltagirone e la Fondazione Torinese Crt (dove Palenzona propone e dispone) per dare nuova stabilità agli assetti delle Generali. Nelle settimane scorse proprio la Crt socia di un gruppo di investitori veneti nella holding Effeti ha svolto un ruolo non secondario nelle manovre che hanno portato alle dimissioni di Geronzi. E uno dei consiglieri della compagnia di Trieste che ha promosso la mozione di revoca al presidente altri non è che Angelo Miglietta, rampante segretario generale della stessa Crt. Ecco perchè molti vedono proprio Palenzona, che ormai da molti anni siede nel consigli di Mediobanca, pronto a candidarsi come il garante di equilibri nuovi. Sono ormai lontani i tempi in cui Tremonti tuonava contro le fondazioni. Adesso i soldi di questi enti un tempo defintiti autoreferenziali e dominati dalla politica, servono per finanziare gli aumenti di capitale di istituti del calibro di Intesa. Non solo. Se ci sarà bisogno di un intervento per stabilizzare Mediobanca e favorire l’uscita dei francesi capitanati dal geronziano Bollorè, ecco che la discesa in campo delle fondazioni, con la benedizione di Tremonti, potrebbe alla fine rivelarsi decisiva. Coronando le ambizioni di Palenzona, nuovo banchiere di sistema. Nuovo Geronzi. DAGOSPIA ALLE 19.00 Per sapere che aria tira dopo la congiura dei soci di Generali che ieri hanno mandato a casa Cesarone Geronzi bisogna parlare con i falsi centurioni romani che sostano con i turisti davanti al Foro e all’Altare della Patria. Dalla loro bocca si puo’ sentire una versione con dettagli inediti e privi di quella retorica che ieri intorno alle 12 ha annunciato la fine di un’Era e dell’ultimo sopravvissuto alla prima Repubblica. Tanto per cominciare potrebbero rivelare che l’ex-banchiere di Marino aveva sentito puzza di bruciato fin dal giorno prima quando il tandem Perssinotto-Agrusti aveva declinato l’invito di Geronzi per un colloquio preliminare alla seduta del Consiglio. I due caporalmaggiori di Trieste erano perfettamente al corrente delle intenzioni di Mediobanca di porre la questione sul tavolo di Giulietto Tremonti, e per non esporsi a un confronto imbarazzante si sono nascosti dietro le quinte in attesa della riunione serale (finita all’1,30 di notte) dove Nagel, Dieguito e Pelliccioli hanno deciso il regicidio. I falsi centurioni del Colosseo, il monumento appaltato allo scarparo marchigiano, non fanno paragoni storici; ricordano soltanto che Giulio Cesare fu finito con 23 pugnalate a due passi dal palazzo delle Generali in piazza Venezia, e che i congiurati del 44 avanti Cristo erano almeno 60 contro gli 11 che mercoledi’ hanno preparato il "piattino" al Cesarone de Noantri.Le analogie finiscono qui, ma se vi piace la storia (quella con la S maiuscola) allora si puo’ aggiungere che anche Geronzi ha visto il suo Bruto nella faccina rosea di Giulietto Tremonti. E questa deve essere stata la sorpresa piu’ amara perche’ nessuno aveva percepito che tra i due il rapporto si fosse deteriorato; anzi, sembrava che le parole avventate di Geronzi al "Financial Times "sulle Generali pronte a intervenire perfino nella folle idea del Ponte sullo Stretto, fossero una specie di polizza da regalare all’ex-tributarista di Sondrio. Un errore incredibile per una vecchia volpe del potere, dettato da una presunzione smisurata e fatale che si era gia’ intravista a Piazzetta Cuccia e che e’ calata nel mondo triste e provinciale di Trieste come un peccato mortale. bollore article L’uomo di Roma, il corpo estraneo spoglio dei rubinetti del credito, il re della Capitale dove tutto si intreccia da secoli in una miscela di stampo andreottiano e papalino, ha sottovalutato il prezzo dell’orgoglio e del pregiudizio. A batterlo sono state la sua infinita presunzione e un’alleanza delle "province" di un nuovo Impero che parte dalle Marche laboriose e poliglotte, arriva a Trieste, e si rinsalda intorno a Piazzetta Cuccia con la benedizione di un ministro che si sta costruendo il "proprio" impero sotto gli occhi della Lega e di Palazzo Chigi. Da questa roccaforte , distratta e preoccupata, sono arrivati ieri mattina a Geronzi gli inviti piu’ caldi a ritirare la sua decisione, ma non c’e’ stato nulla da fare. Difronte allo spettro di un licenziamento ai voti l’orgoglio si e’ messo sottobraccio alla presunzione ed e’ iniziata una trattative di cinque ore che ricorda quella di quell’ Alessandro il Grande (al secolo Profumo) quando in una calda notte di settembre dell’anno scorso fu "dimissionato" da Unicredit. Anche allora i congiurati dovettero aspettare che le parole lasciassero il posto ai soldi (40 milioni al primo,16,6 all’ex-banchiere di Marino secondo un calcolo matematico che mette in fila ciqnue anni di stipendio e di mancati benefits). A questa liberalita’ i falsi centurioni del Colosseo aggiungono la presidenza della Fondazione culturale e la disponibilita’ dell’ufficio romano al terzo piano del palazzo di piazza Venezia. Francesco Gaetano Caltagirone Adesso nelle stanze imbiancate del palazzo le tracce del sangue sono sparite e i frammenti della collezione archeologica di Generali ,che ieri sono stati scagliati dagli 11 congiurati, hanno ripreso il loro posto davanti alla porta principale . Il movimento si e’ spostato in altre stanze del potere; in quella del Ministero dell’Economia dove alle 10 si e’ precipitato Massimo Ponzellini per candidarsi alla nuova presidenza, e sopratutto a Piazzetta Cuccia dove una "gioventù anziana" e secondo alcuni mediocre, sta scegliendo il "presidente di campanello", un uomo elegante e docile, privo di presunzioni fatali e di orgogli romanocentrici, possibilmente abbronzato e con un leggero trucco da manager. A Trieste (dove ieri sera era corsa voce che Perissi-Rotto si fosse candidato) lo aspettano con ansia e sperano che non abbia voglia di perder tempo a scartabellare nelle operazioni del passato. Se poi nella sua incoscienza vorra’ toccare il tema della redditivita’ del Leone allora saranno dolori. E la storia ricomincera’ da capo, con altre vittime e gli stessi congiurati.