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 2011  aprile 06 Mercoledì calendario

3 articoli - STUDENTI DEL MONDO - La pluralità delle culture con cui conviviamo è ormai un fatto elementare, irriducibile e ostinato

3 articoli - STUDENTI DEL MONDO - La pluralità delle culture con cui conviviamo è ormai un fatto elementare, irriducibile e ostinato. Lo incontriamo nelle nostre vite quotidiane, nel nostro angolo di mondo, E lo stesso vale altrove, in altri angoli di mondo, in una essenziale varietà di modi. L’esperienza della prossimità o della distanza fra culture diverse è sotto i nostri occhi. Ci coinvolge. Suscita in noi risposte che possono essere a volte divergenti e conflittuali. Le risposte possono variare su una linea continua che ai suoi estremi opposti conosce gli atteggiamenti familiari della securitas e della curiositas. In una essenziale varietà di circostanze, la risposta alla pluralità delle culture può sfociare in una richiesta di assicurarci contro il rischio, reale o immaginario, della contaminazione e della perdita della nostra cultura ereditata. O, al contrario, può dar luogo al tentativo di metterci alla prova con culture altre, imparando la difficile arte del convivere nella diversità. Che le nostre società divengano multiculturali è un fatto, punto e basta. Il problema comincia quando ci chiediamo quali risposte sia giusto o ragionevole o utile o efficace dare a questo fatto. Possiamo chiederci e discutere quali risposte le istituzioni e la politica debbano dare al fatto elementare, irriducibile e ostinato. Su ciò dovrebbe vertere una discussione pubblica intelligente. Ed è naturale che in una società democratica ci si trovi di fronte alla controversia e al legittimo disaccordo. Ma possiamo anche chiederci quali credenze e convinzioni personali siano chiamate in causa dalla questione della pluralità delle culture. Mi sto chiedendo, in questo caso, che cosa ne pensi tu che mi leggi o, per amore della verità, che cosa ne pensi io che scrivo. Sono convinto, in proposito, che vi siano almeno due tesi su cui dovremmo in ogni caso riflettere attentamente, tu che mi leggi e io che ti scrivo, per evitare di finire in trappole e vie bloccate. La prima tesi riguarda l’idea delle culture «nel tempo» . La seconda tesi si basa sull’idea della «incompletezza» propria di qualsiasi cultura, anche di quella a cui siamo— a torto o a ragione— più affezionati. Prendere sul serio le culture nel tempo non vuol dire soltanto essere consapevoli del fatto che ogni cultura ha una storia e che la storia di qualsiasi cultura alle nostre spalle è fatta di differenze, conflitti, tensioni, contaminazioni e meticciato. Vuol dire anche rendersi conto che la distanza o la prossimità fra culture differenti non sono date una volta per tutte. Le culture, nella storia alle loro spalle, non sono monoliti. Sembrano piuttosto campi di tensioni e spazi sociali ricchi di dissonanze. Le culture nel tempo, quando pensiamo al futuro, non restano necessariamente le stesse. La loro fisionomia può mutare alla luce delle interazioni, degli incontri, delle relazioni che hanno luogo fra persone che in differenti campi di credenze si riconoscono e si identificano. Se evitiamo la trappola dell’ossessione identitaria che vede dappertutto culture monolitiche e blocchi fissi e distanze pietrificate, non è poi così difficile rendersi conto della possibilità del mutamento e della metamorfosi che coinvolge i variabili confini fra «noi» e «altri» . Ricordiamoci che ogni cultura presuppone un qualche «noi» , e teniamo presente che, come nel passato, i confini del «noi» sono intrinsecamente mobili e porosi. Per evitare letture buoniste, è importante sottolineare che sto parlando della possibilità di esiti che dilatino i confini del «noi» . Non sto sostenendo che l’esito sia necessario, né tanto meno che sia facile da raggiungere. Mi basta che si accetti che l’esito, anche se difficile, è nel ventaglio delle cose possibili. Ma perché sia possibile, dobbiamo prendere sul serio la prima tesi, quella sulle culture nel tempo. Suggerisco, a questo punto, di connettere la faccenda delle culture nel tempo con l’idea della loro incompletezza. Ed ecco la seconda tesi: la pluralità delle culture, quel fatto elementare, irriducibile e ostinato da cui siamo partiti, ha a che vedere con il pluralismo dei valori. Con la varietà delle cose che contano e che fanno la differenza nei nostri modi di convivere. Vi è più di una ragione per cui una vita è degna di essere vissuta per chi la vive, qua e là per il mondo. Ora, se ci pensiamo su, non è difficile rendersi conto che non vi è cultura che riesca a includere entro di sé l’intero spazio dei valori e dei beni umani. Questo non è relativismo. Questo è pluralismo, nel senso di Isaiah Berlin e John Rawls. Come ho sostenuto e ho cercato di suggerire nei miei due ultimi libri, ogni insieme di valori che è al centro di una cultura è intrinsecamente insaturo. E non c’è una singola forma di vita che non comporti una qualche perdita in valore. Neppure, ripeto, quella cui siamo legittimamente fedeli. Se i valori sono più d’uno, nessuna scelta è gratis. Lungi dall’essere un guaio, sostengo che l’incompletezza di qualsiasi cultura ne sia la prima virtù. Perché lascia aperta la porta all’incontro, all’interpretazione, al negoziato, allo scambio, all’accomodamento, all’accordo onorevole. Lascia aperta la porta a esercizi di apprendimento. Vi sono circostanze in cui, riconoscendo l’insaturazione di qualsiasi campo di credenze, possiamo semplicemente imparare qualcosa gli uni dagli altri. E così dar luogo, se le circostanze sono favorevoli, a slittamenti dei confini del «noi» . In una grande tradizione culturale che non è la nostra, una massima di saggezza confuciana che ho evocato nei miei due ultimi libri, ci suggerisce di essere leali a noi stessi e, proprio per questo, attenti agli altri. In una grande tradizione culturale che questa volta è la nostra, il leggendario gesuita di Macerata, Matteo Ricci, ci avrebbe dato una mano preziosa e sapiente per avviare insieme un qualche esercizio di incontro, interpretazione, negoziato e trasformazione della distanza in prossimità. Salvatore Veca IN CERCA DI UN FUTURO NELLA NUOVA BABELE - Siamo sempre più giramondo ma sempre meno cosmopoliti. Le distanze, ai tempi della globalizzazione, si sono contratte rivoluzionando il concetto stesso di prossimità. Con una connessione Internet riusciamo a fare in pochi secondi un’incursione virtuale tra le strade di Broadway e quelle di Casablanca, conosciamo i sapori del Sashimi e del Kebab, ma nonostante tutto, il mondo. a cui apparteniamo sembra ancora diviso tra persone che parlano lingue diverse, che hanno difficoltà a comunicare e ad acquisire una visione comune del proprio futuro. Una nuova Babele evocata da un convegno internazionale («Ricomporre Babele: educare al cosmopolitismo» ) che radunerà dal 7 al 9 aprile, tra Milano e Cinisello Balsamo, filosofi, docenti ed esperti del settore come Fred Dallmayr, John Lupien, Giancarlo Bosetti, Francesco Cavalli Sforza, Marco Aime e Ramin Jahanbegloo. Un’occasione per interrogarsi sul cosmopolitismo come inevitabile destino dell’umanità e per riflettere su come educare le nuove generazioni a interiorizzare il confronto con le altre culture. Non a torto: gli italiani fanno sempre più viaggi e «full immersion» formative oltreconfine. A partire dalla giovanissima età. Come dimostrano i dati di Intercultura sui ragazzi della scuola superiore che quest’anno, con lo zaino in spalla, partiranno per un programma internazionale. Si tratta in totale di 1565 studenti (oltre il 100%in più rispetto a dieci anni fa), la metà dei quali, studierà per un intero anno scolastico fuori dall’Italia, principalmente tra Stati Uniti (275), Germania (47) e Cina (45). Un fenomeno che va ad affiancarsi a quello della mobilità Erasmus, l’esperienza di studio all’estero che a partire dall’adozione del programma (1987) sta coinvolgendo un numero crescente di universitari. Basti pensare che ogni anno ormai più di ventimila ragazzi in Europa scelgono di trascorrere parte del loro percorso accademico in un Paese diverso da quello di appartenenza. Aprendosi per la primissima volta al mondo. «Sono esperienze che aiutano tantissimo per il confronto con l’altro— spiega Roberto Ruffino, segretario generale della Fondazione Intercultura —. Guardare il proprio paese dal di fuori, con qualcuno che è cresciuto con una lingua e una cultura diversa dalla tua, aiuta a relativizzare il proprio quotidiano. Fino a quel momento sei convinto che il tuo modo di vivere la vita sia l’optimum e guardi con diffidenza tutto ciò che è diverso da te. Ma poi ti accorgi che non è affatto così e compi il primo importante passo verso il cosmopolitismo» . Eppure se da un lato oggi la costruzione di una città mondiale è resa quasi necessaria dalle innovazioni tecnologiche, sociali e politiche dell’età contemporanea (tanto da far entrare nel linguaggio comune il termine «cittadino del mondo» ), dall’altro lato c’è ancora tantissima strada da fare. Cosa vuol dire allora oggi essere cosmopoliti? C’è una prospettiva di alleanza tra le varie civiltà, pur salvaguardando le diverse tradizioni? Come ci si apre al mondo senza restare spaesati? Sono queste alcune delle domande attorno alle quali verteranno i seminari del convegno organizzato dalla Fondazione Intercultura, con l’alto patronato della Presidenza della Repubblica. «Oggigiorno le nostre incursioni all’estero sono velocissime, accelerate e se non le affronti con gli strumenti adeguati puoi diventare vulnerabile— precisa Susanna Mantovani, prorettore dell’Università degli studi di Milano Bicocca e docente di pedagogia generale —. È vero che prendiamo aerei con moltissima facilità, che i nostri ragazzi frequentano corsi di lingua ovunque, ma questo non basta per diventare cittadini del mondo. Per molti di loro è un’occasione perduta perché partono senza un interesse antropologico e la curiosità di approfondire una cultura diversa dalla propria» . E tanto per usare una semplificazione, sono all’estero ma vanno a caccia di caffè, pasta e pizza. «Quando ci troviamo in un luogo completamente diverso dal nostro, andiamo sempre alla ricerca di qualcosa che ci riporti idealmente a casa— precisa Mantovani— e questo non è affatto disprezzabile. Il problema è quando cerchiamo soltanto quello» . Corinna De Cesare «ERO SOLO E PERSO NELL’AMERICA DEL 1965 MA FU LI’ CHE IMPARAI A DIVENTARE ADULTO» - Franco Bernabè, classe 1948, presidente Telecom, considera ancora oggi l’anno scolastico 1965-1966, quello del suo ultimo anno di liceo passato a Portland in Oregon, come il più importante, il più proficuo dell’intera sua carriera di studente e ciò nonostante sia poi stato costretto, al ritorno in Italia, con il diploma americano di high school in tasca, a ripetere l’anno o, più precisamente, a frequentare ex novo la terza liceo italiana. Tant’è vero che poco dopo fece in modo che suo fratello minore ripetesse l’esperienza e, in tempi più recenti, ha spinto i figli a fare altrettanto, il maschio in Spagna, la femmina in Australia. «Ora con Skype, con i voli low cost, con l’abitudine dei ragazzi a viaggiare per il mondo fin da giovanissimi, passare un anno di scuola superiore all’estero è tutt’altra cosa. Ai miei tempi era un’esperienza di totale spaesamento e di profonda solitudine, un allenamento forzato alle difficoltà della vita adulta. Con i costi di allora del telefono, ho potuto chiamare i miei una sola volta in tutto l’anno, alla vigilia di Natale; in cambio in quei primi mesi ho scritto a casa tutti i giorni. Isolato com’ero, sia nella mia famiglia americana sia a scuola, a causa delle difficoltà linguistiche — io non capivo loro e loro non capivano il mio raffazzonatissimo inglese, tanto da sentirmi una specie di sordomuto — le lettere alla famiglia sono state per un pezzo l’unico modo per comunicare con anima viva» . Il giovane Bernabè era, infatti, riuscito a ottenere la borsa di studio per gli Stati Uniti senza praticamente sapere una parola di inglese. Informato da un amico della possibilità di studiare un anno in America si era gettato nell’impresa— con il decisivo incoraggiamento della mamma, una mamma, evidentemente, non del tipo da ansie per la maglia di lana— convinto di potersela cavare con il tedesco appreso al tempo delle elementari frequentate a Innsbruck (dove suo padre, ferroviere, era stato dislocato all’avamposto di manutenzione dei treni italiani) e con il francese studiato alle medie torinesi dai Salesiani. «Sapevo naturalmente che avrei dovuto affrontare un esame d’inglese ma ho cercato di rimandarlo all’ultimo per avere il tempo di studiarlo almeno un poco — per conto mio perché in famiglia non c’erano i soldi per pagarmi lezioni private —. E infatti ho dato l’esame alla vigilia della partenza: con risultati ovviamente miserevoli ma forse perché non c’era più tempo per sostituirmi, fui giudicato idoneo e imbarcato lo stesso». Letteralmente, perché la traversata avvenne in nave. A bordo millecinquecento ragazzi di tutta Europa destinatari delle borse di studio finanziate dall’American Field Service, un’associazione filantropica nata durante la Grande Guerra con l’intento di far conoscere i popoli al fine di evitare nuovi conflitti. Viaggio meraviglioso e memorabile, ovviamente, durato un’intera settimana. Sbarcati a New York, i millecinquecento furono smistati sui pullman Greyhound che li portarono a destinazione. Due giorni e due notti di viaggio per il diciassettenne Bernabè prima di raggiungere Portland e la «sua» famiglia, famiglia americana delle più classiche, tv, barbecue e molto sport, con abitudini sideralmente distanti da quelle di casa sua. «A me lo sport non interessava, men che meno quello visto in tv, la mia era una famiglia povera però con libri e con interessi per la cultura. Mia madre, poi, non buttava via mai niente, mentre lì — e fu la cosa che mi colpì di più — la pattumiera era enorme perché tantissima l’immondizia: cibi appena cominciati, scatolette ancora metà piene, oggetti che si sarebbero facilmente potuti riparare, via tutto subito. Altra cosa che mi impressionò moltissimo fu il numero di camicie e pantaloni del mio fratello americano, forse trenta o quaranta, mentre io possedevo un unico vestito buono. Chiuso nella mia bolla, sordo e muto, potevo comunque soltanto guardare. Ma le difficoltà vere cominciarono quando, appreso quanto bastava d’inglese, a scuola diventai una specie di piccolo leader, fatto che spiazzò il mio fratello americano e, se possibile, mi isolò ancora di più in famiglia. L’organizzazione che monitorava la situazione dei borsisti intervenne, per fortuna, spostandomi in casa di un medico ebreo che aveva lasciato la Germania poco dopo la presa di potere di Hitler. A parte il fatto che non pronunciò mai una parola di tedesco impedendomi di esibire il mio, mi trovai benissimo. Sotto la sua guida lessi ogni settimana un testo di storia o di politica americana e il risultato fu che riuscii a integrarmi così tanto da decidere di partecipare alle elezioni scolastiche. E venni eletto» . La lezione più importante imparata in quell’anno? «L’inglese perfettamente fluent è ovvio, ma più importante ancora, la capacità di resistere in situazioni difficili, di saper gestire ansia e solitudine» . Isabella Bossi Fedrigotti