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 2011  aprile 13 Mercoledì calendario

Forse state sfogliando Vanity Fair al volo, forse questa storia non la leggerete per intero. Però, per favore, leggete almeno questo scambio di battute tra me e il signor Vugo Caruso, 89 anni, residente di L’Aquila ancora in attesa della ristrutturazione del suo appartamento

Forse state sfogliando Vanity Fair al volo, forse questa storia non la leggerete per intero. Però, per favore, leggete almeno questo scambio di battute tra me e il signor Vugo Caruso, 89 anni, residente di L’Aquila ancora in attesa della ristrutturazione del suo appartamento. Che cosa ha pensato quando ha sentito l’intercettazione della telefonata tra quei due che, nella notte del terremoto, ridacchiavano alla prospettiva degli affari in vista? «Ho pensato che io sono un uomo molto fortunato. Perché sono diverso da loro. Perché, grazie a Dio, non siamo della stessa risma». Due anni dopo, Francesco Maria De Vito Piscicelli, il costruttore che disse di aver riso quella notte, imputato in una storia di appalti, ha tentato il suicidio. La casa di Vugo, un appartamento di proprietà in via Nicola Moscardelli, appena fuori dal centro storico di L’Aquila, è inagibile. Di fronte abita Stefania Pezzopane, ex presidente della Provincia, da pochi mesi rientrata in casa. «Non manca molto nemmeno a noi, per rientrare», dice Vugo. «Ci hanno detto che i lavori dovrebbero iniziare a breve». Ma, intanto, per ora, non avremmo potuto nemmeno entrare nel palazzo per scattare le foto. L’edificio è classificato come «E» nelle stime del post terremoto, la categoria degli immobili più danneggiati. Ci siamo andati lo stesso. La casa è gelida, senza luce elettrica né acqua. Tavoli, divani e comò al posto in cui erano la notte del 6 aprile 2009. Uno dei locali è un piccolo studio. Qui, quasi tutti i giorni, Vugo viene a sbrigare la sua corrispondenza sui tasti di una macchina per scrivere. È presidente dell’Associazione ex combattenti, un’attività che non ha abbandonato nemmeno a causa del terremoto. Vive a Capestrano, a 42 chilometri di distanza, ospite da parenti, ma non può fare a meno di tornare qui. Prende la sua 600, sta un po’ in casa, si consola posando lo sguardo sulle pareti crepate, sui pavimenti popolati dagli oggetti della sua vita. Quando ha finito, fa un giro in città per incontrare qualcuno e poi riprende il viaggio verso Capestrano, verso quella che è diventata la sua vita negli ultimi due anni. Ho conosciuto Vugo grazie a Simonetta, una delle sue due figlie. Letta la mia intervista a Ottavio Missoni (n. 6), Simonetta mi ha scritto per raccontarmi che suo padre, coetaneo di Missoni, era stato suo commilitone ai tempi della guerra in Africa. E che, come lui, era sopravvissuto alla battaglia di El Alamein, nel 1942. Ma, in più rispetto a lui, anche al terremoto del 2009. Cominciamo dal suo nome insolito? «È un nome serbo. Durante la prima guerra mondiale, mio padre a Belgrado conobbe una famiglia serba che lo aiutò e decise di ringraziarla in questo modo». Lei nasce a Castel di Sangro nel 1922. E a 19 anni è chiamato sotto le armi. Destinazione Africa. «Arrivammo ad Atene per salire sulla nave che ci doveva portare in Africa. Ero furiere e facevo parte del 27° reggimento divisione Pavia. Ma diedero la precedenza alla Folgore e noi aspettammo ad Atene per un po’, il che ci fece scampare alla battaglia di Alam Halfa, che fu un massacro». Ma arrivaste in tempo per El Alamein. «Stavamo a Marsa Amatruh, a meno di cento chilometri da El Alamein. Il primo giorno successe un fatto straordinario. Noi ci muovevamo dentro camminamenti sotterranei e cominciammo a sentire scoppi pazzeschi. Pensavamo che fosse un bombardamento navale, invece era una grandinata che faceva scoppiare le mine. Grandine nel deserto, capisce? Se non l’avessi vista con i miei occhi, non ci crederei». E la notte della battaglia, come si salvò? «Non è una cosa piacevole ma gliela racconto lo stesso. Avevo l’enterocolite, più o meno ce l’avevamo tutti. Quella notte stavo nell’anfratto della fureria quando mi venne un attacco di mal di pancia tremendo, non riuscii a trattenermi. Corsi sul costone, presi la poca acqua che c’era e cercai di pulirmi alla meglio. Mentre ero intento in quest’operazione imbarazzante, s’accese il fuoco. Assistetti così all’inizio della battaglia, lontano dai bombardamenti». Salvato dalla colite! Poi, però, come Missoni, viene fatto prigioniero dagli inglesi. «3 anni e 7 mesi. Decisi subito di cooperare, però, a differenza di Missoni. Ce l’avevo con i tedeschi. Avevo saputo che Castel di Sangro era stato raso al suolo». Che significava «cooperare»? «Lavorare. Io stavo nei magazzini militari dove, tra l’altro, feci conoscenza con ragazze fantastiche, erano le ebree della Waaf (Women’s Auxiliary Air Force, ndr). Fu una di loro, Jaffa, a farmi scoprire Ignazio Silone, uno scrittore della mia terra, proibito sotto il fascismo». Dopo la guerra, lei ha lavorato in Comune e poi in banca. Si è sposato con Ada, ostetrica, ha avuto due figlie. Nel 1976, poco prima di andare in pensione, andate a vivere nella casa di via Nicola Moscardelli. «Con noi viveva anche una delle mie sorelle, Maria Assunta, che è nubile ed è rimasta con me anche dopo la morte di mia moglie, avvenuta sette anni fa». E siamo alla notte del 6 aprile 2009. Che cosa avevate fatto durante la giornata? «Era la domenica delle Palme: avevo accompagnato mia sorella a messa, avevamo fatto un pranzetto e la sera, come al solito, ci eravamo messi davanti alla tivù. Due stanze e due televisori diversi perché non ci piacciono le stesse cose. Il terremoto era nell’aria. Da sei mesi c’erano scosse quotidiane, avevamo imparato a conviverci. Però, quella sera, verso le 11, ce ne fu una particolarmente forte. Allora Maria Assunta mi disse di andare a prendere l’altra nostra sorella, Nella, che abita sola e che aveva una paura tremenda. Presi la macchina e andai a prenderla. Andammo a dormire. Mi svegliai di soprassalto con i calcinacci in faccia. Le mie sorelle strillavano, io no. Mi vestii in fretta e scendemmo per strada. Prendemmo l’auto e andammo nel piazzale davanti alla Coop». E dopo? «Prima siamo andati a Udine dove una delle mie figlie si trovava per lavoro, poi a Capestrano da parenti di mia moglie, dove siamo tuttora». Che cosa le ha tolto il terremoto? «Ha frantumato le mie abitudini. Ha provocato una diaspora di amicizie e affetti. Mi ha costretto a adattarmi a una vita inaspettata. E poi mi ha tolto la casa». È per questo che ogni due giorni ci torna, come se non volesse perderla di vista? «Sì. Forse da giovane non avrei sofferto così tanto a stare lontano da casa. Ma a quest’età mi sembra un disagio peggiore della prigionia inglese. E io sono fortunato, perché sto da questi parenti che ci vogliono molto bene. Ma lo sa che c’è gente che sta ancora negli alberghi al mare?». Lo so. Come è possibile che in due anni sia stato fatto così poco? «È stata data la precedenza a chi stava nelle tende. Per loro sono state costruite le nuove abitazioni. A noi altri, lo Stato passa 400 euro al mese, che non è poco, è un aiuto. Ma per la casa, tocca aspettare». L’altra sua sorella è rimasta a L’Aquila? «Sì, la casa sua non è stata colpita e poi in città ci vive suo figlio. Anche se non è mai andata d’accordo con la nuora». Non è che dopo il terremoto hanno fatto pace? Sa, nelle situazioni d’emergenza… «Macché. Continuano a litigare. Chissà, forse, è anche questo un segnale di ritorno alla normalità». Se non ci fosse stato il terremoto, che cosa avrebbe fatto il 7 aprile 2009? «Sarei andato alla sede dell’Associazione ex combattenti. E poi avrei fatto la mia solita passeggiata sotto i portici. I portici che non ci sono più». Paola Jacobbi