Silvia Truzzi, il Fatto Quotidiano 6/4/2011, 6 aprile 2011
LO STREGA? “È FINITO”
Strega amaro, amarissimo. Anzi indigeribile, specie in casa Rizzoli: dopo la rinuncia di Alberto Arbasino, si apre l’affaire Picca. Aurelio, poeta e scrittore, laziale di Velletri, classe 1957, quasi in corsa e poi “ritirato” da Rcs (il gruppo partecipa solo con un titolo di Bompiani). Lui non l’ha presa per niente bene: al telefono troviamo un Picca piccatissimo.
È ufficiale: il suo Se la fortuna è nostra non correrà allo Strega.
Primo: il mio libro è scritto in lingua italiana, che tutti dovremmo tentare di riusare. Secondo: ha avuto un successo di critica bestiale. Poi: sono uno scrittore di lungo corso, sto alla Rizzoli dal 1996. Senza contare che i miei lavori hanno sempre avuto grandi recensioni. Questo romanzo glielo avevo raccontato nel 2006 e volevo scriverlo da vent’anni. Per dirla con Pasolini, è un libro “scandalosamente vero”.
Ce lo racconti. Pasolinianamente.
È la storia della mia famiglia, ramo paterno, che ha sempre combattuto per la terra. La terra intesa come patria e libertà.
Chi erano i Picca?
Repubblicani, anticlericali che però credevano in Dio. Una famiglia che ha in sé, e io ne porto le tracce nel Dna, le tre grandi culture italiane. Quella cristiana; quella repubblicana – laica, mazziniana, di mio nonno; quella comunista – del Pci, che viene dal secondo marito di mia madre: io sono rimasto orfano a 21 mesi. Da ragazzino ho fatto tutti i lavori del mondo. E poi ho imparato a scrivere sui testi dei maestri. Foscolo ha deciso i miei equilibri.
Ma non è stato abbastanza per il Ninfeo di Villa Giulia.
È una vetrina, la porta commerciale per uno scrittore autentico. E non sono certo io a dirmelo da solo, ma moltissimi critici: da Geno Pampaloni ad Angelo Guglielmi, da Alfredo Giuliani a Natalia Ginzburg. Portare lì un autore aiuta anche gli argomenti di cui si occupa il libro. Se questo non succede mi viene da pensare che l’Italia può fare a meno della letteratura e della cultura, come fa a meno del talento. È bene che gli editori – tutti – pubblichino solo le cose commerciali: conduttrici televisive, calciatori. Smascheriamo questo mercato: diciamo che gli scrittori di carattere non devono esistere più.
Ha dichiarato al Corriere:
“Con la Rizzoli ho chiuso”.
Io sono un vecchio ragazzo perbene. Un ex bambino orfano che ha costruito se stesso e che oggi è in lutto come se avesse perduto un parente. Il mio libro è stato oltraggiato. Come i suoi valori, tutti condivisibili: la lingua, le culture di questo Paese, i grandi maestri. Non sono io che devo fare qualcosa. è la Rizzoli che deve pensare.
Ecco. Rcs, con una nota risponde così: "Non c’è alcuna relazione tra questa decisione della casa editrice e la qualità del romanzo di Picca, Se la fortuna è nostra, che abbiamo pubblicato con convinzione e che ha ricevuto molti e importanti apprezzamenti da parte della critica. Aurelio Picca è e resta – se lo vorrà – un autore di cui la Rizzoli va fiera”. Lei che dice?
Mi fa piacere. Ora però aspettiamo i fatti. Hanno molti miei libri che sono stati dimenticati. Come Tuttestelle del ‘98: con quello ho vinto il Grinzane Cavour, quando Rizzoli non vinceva nulla da anni. E poi io ho un grande romanzo nel cassetto, Addio: il 1969, la perdita dell’innocenza italiana con l’omicidio di Ermanno Lavorini.
Correrebbe da solo come fece Scurati?
No, non amo i protagonismi. Sono già abbastanza protagonista nella vita privata. Mi batto per i miei libri, voglio che vengano fatti leggere.
Si aspetta che la portino per il Campiello?
Non è una questione di mercato.
Allora, scusi, qual è il problema?
Questo libro ha avuto numerose lodi, da Raffaele La Capria a Marco Lodoli. Piace a tutti, è raffinato e popolare insieme. E secondo i padri della letteratura viene dalla nostra tradizione. I protagonisti di questa storia che ho raccontato reclamano giustizia e gesti importanti. Loro, non io.
Ha detto: “Questo libro
l’ho scritto col sangue”. In che senso?
Racconto la verità della mia famiglia, la storia di un patriarca che ha ucciso tre persone. Mio nonno a 13 anni mi diceva: “Scrivi la nostra storia”. Sono stato tre anni a letto per farlo, depresso. Mi è pure venuta la colite ulcerosa, dalla paura di non poterlo affrontare. Poi, quando ho dipanato la matassa, ci ho messo sei mesi. Otto ore al giorno, uscendo di casa cinque volte. Con il sangue, sì: me lo sono scritto prima addosso e poi sulla pagina. L’ho pagato con il mio corpo. È il grande banchetto tra vivi e morti. I morti che lo volevano, i miei avi, si sono incarnati in me e l’hanno scritto assieme a me.
Addirittura. Non sarà un po’ apocalittico?
Ripeto: è il mio libro che chiede giustizia. Non io. Mi creda. E poi vanno aiutati i libri forti, non i libri deboli.
Ha una fiducia incrollabile nel suo lavoro. Anzi, una fede.
È un libro universale, ha un pubblico che va dagli appena alfabetizzati agli intellettuali raffinati. Lo legga e poi mi dica.
Strega bocciato?
Se le cose stanno così, è un premio finito. Adesso Rizzoli mette la vittoria nelle mani di Mondadori . Con tutto il rispetto per Mario Desiati un giovane in crescita (in corsa con Ternitti, ndr) . È un modo per non combattere, non accettare la sfida.
Ma il gruppo Rcs ci sarà: con Storia della mia gente di
Edoardo Nesi, pubblicato
da Bompiani.
Non ho mai letto Nesi, anche se lo rispetto come uomo. E comunque è un libro vecchio di un anno. Non succede di solito. Però non si tiene una persona in sospeso per un mese con il balletto del “facciamo uscire la notizia” e poi si ritira la mano.
La candidatura di Arbasino, con America Amore (Adelphi), era decisamente una scelta per vincere.
Ma che si vince svuotando i nosocomi? Ho molto apprezzato la decisione di Arbasino: una riflessione di buon senso, da parte di un grande scrittore e di un vero signore. Però una volta che Arbasino si era ritirato, tutti mi dicevano: sei tu il candidato. Avevo appena dato al Corriere un racconto inedito, pensavo fosse un’investitura.
Invece?
Se domenica ero cardinale, lunedi sono tornato soldato semplice. Comunque io con Arbasino divido una curiosità: siamo gli unici due scrittori italiani a portare in tasca un fazzoletto bianco ricamato a mano.
A proposito di vezzi, correva l’anno 2006 e Camillo Langone scriveva sul Giornale: “Aurelio Picca viaggia in Jaguar, colleziona anelli, veste Christian Dior, scende solo in grandi alberghi”. È sempre vero?
Amo le auto. Invece di drogarmi compro oro. Ma messa così sembro una figurina di provincia: non ho il tratto del collezionismo piccolo-borghese. Adoro anche i cani randagi, lì porto a casa mia.
Come si definirebbe?
Io mi dico anti-moderno, non sono un mondano. Ma ho una velocità di scrittura e di esecuzione che è assolutamente moderna. Poi sono un grande amante dell’arte e del design.
Torniamo allo Strega negato: è offeso?
No, il punto è che la letteratura è completamente uscita dalle logiche di questi premi. Ma allora ammettiamolo.
Esempi di buona letteratura?
Luca Doninelli è uno che è stato dimenticato, ma ha scritto un bellissimo libro all’inizio degli anni ‘90, La revoca. Belardinelli voleva fare il poeta e continua a dire che il romanzo è morto. Ma semmai è morto il romanzo commerciale. E poi la critica non esiste più: è finita con Pampaloni.
Non si salva nessuno tra i
critici di oggi?
Un giovane fuori dalle logiche di posizione che si chiama Andrea Di Consoli, bravo e libero. Io non lo conoscevo per niente e ha scritto una pagina intera su di me.
Dove?
Sul Tempo. Ma hanno scritto il Corriere, Lorenzo Mondo sulla Stampa, Lodoli su Repubblica. Io sono uno scrittore fortunato. Su di me si è esercitato anche Alfredo Giuliani, sempre su Repubblica negli anni ‘90. L’intellettuale più intelligente della neoavanguardia.
Ora che succede con editori e premi?
Faccio una battuta: se la sinistra cerca di battere Berlusconi con gli escamotage, senza una vera azione politica, lui continuerà a vincere. Nemmeno in editoria si va lontano con gli escamotage.
Quindi il messaggio è: aprite gli occhi.
No apriteli, spalancateli. Sa che si dice a Roma? “Non si fa i froci con il culo degli altri”.
Ma è Ricucci...
E allora, dov’è il problema? Basta con questo sistema di usare gli scrittori e poi fare i propri comodi.