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 2011  aprile 06 Mercoledì calendario

GIUSTIZIA LENTA NON FA BUSINESS

«Finché nel nostro Paese sarà più conveniente resistere in giudizio che saldare un debito, i tribunali saranno sempre ingolfati di cause». Lapidario come d’abitudine, il consigliere di Cassazione Piercamillo Davigo snocciola dati impressionanti sulle migliaia di fascicoli che ogni anno ciascun giudice deve smaltire, sul rapporto tra numero di avvocati e numero di giudici (32 a 1), sul ricorso senza freni ai tre gradi di giudizio per cause bagatellari. E conclude: «Finora si è pensato di aumentare l’efficienza moltiplicando l’offerta di giustizia: con quali risultati, lo abbiamo sotto gli occhi. Penso invece che se non si riduce la domanda, la spirale della giustizia ritardata o denegata si avviterà sempre di più». E il magistrato, noto per i trascorsi nel pool Mani pulite, cita il proprio carico di lavoro, analogo in tutta la Cassazione, 480 sentenze ogni santo anno, e ribadisce: «Finché in Italia sarà impugnato il 100% delle sentenze, non andremo molto avanti. In Francia siamo a un tasso del 40 per cento».

L’Italia che produce, commercia e fa business, soffre il mancato funzionamento della giustizia civile e lo paga duramente in termini di minori investimenti, d’immobilizzo di capitali, di ricorso abnorme al sistema bancario. Il meccanismo regolatorio dei rapporti economici affidato al diritto è inceppato e con esso tutto il Paese. Perché è ovvio che un’azienda chiamata a decidere se insediarsi in Francia o in Italia sceglierà il Paese in cui per recuperare un credito servono 330 giorni e non 1.250.

Le cifre più aggiornate vengono dal guardasigilli Angelino Alfano (relazione al Parlamento del 18 febbraio): «Alla fine del 2009, i procedimenti civili pendenti hanno segnato il record assoluto di 5.826.440». Anche se, con «un risultato clamoroso e straordinario negli ultimi trent’anni, al 30 giugno 2010 il numero dei processi pendenti è sceso del 4% a quota 5.600.616». Ovviamente grazie all’impegno decisivo del suo ministero. Secondo il rapporto 2010 della Cepej, la commissione che monitora l’efficienza della giustizia in 47 Paesi europei, il carico di lavoro dei magistrati italiani non ha eguali (Russia esclusa): con 2.842.668 fascicoli nuovi ogni anno, non bastano «l’altissima capacità di smaltimento» delle toghe né 2.693.564 decisioni assunte: pur trattando oltre un milione di casi in più dei colleghi francesi, l’arretrato si accumula senza pietà provocando ulteriori disservizi e diseconomie. E così la Cepej calcola che in Italia si debba attendere 533 giorni una sentenza di primo grado.

Nel documento «Italia 2015» redatto da Confindustria per indicare criticità e priorità del Paese, la giustizia civile viene al secondo posto: dopo la Pa, prima delle infrastrutture. «I tempi dei processi sono irragionevolmente lunghi e questo è inaccettabile - vi si legge -. L’attività economica diventa eccessivamente rischiosa, si abbassa la propensione a investire, è disincentivata la crescita dimensionale delle imprese, ostacolato lo sviluppo dei mercati finanziari».

Anche gli artigiani si lamentano: secondo la Cgia di Mestre, il malfunzionamento della giustizia costa alle imprese 2,6 miliardi l’anno, tra «costi legati ai ritardi del primo e secondo grado di giudizio, e spese a carico delle aziende nelle procedure fallimentari». E la Banca d’Italia ha prodotto negli anni corposi studi e analisi, perché la debolezza di questo «pilastro tra le istituzioni di un’economia di mercato» significa mettere in discussione «diritti di proprietà, contratti, promozione della concorrenza». Se la descrizione di sintomi e conseguenze sembra condivisa, non lo sono l’individuazione delle cause e, ancor meno, dei rimedi da adottare.

Tralasciando gli annunci di "riforme epocali" e le invettive contro i "giudici fannulloni" (due mode di assoluta inutilità pratica) la realtà è fatta di risorse in drammatico calo, di buone intenzioni, di tentativi di miglioramento praticati, però, in ordine talmente sparso che si fatica a percepirne gli esiti. Mentre "continuità" e "replicabilità" delle eccellenze restano concetti vaghi, lontani da ogni consolidamento. Ci sono uffici che puntano sull’organizzazione interna e sull’adozione di best practices; altri che trovano sponsor per digitalizzare atti e procedure; altri ancora che puntano sul Processo civile telematico (Pct) per abbattere tempi e costi della risposta di giustizia. Un indubbio fermento diffuso che Via Arenula, alle prese con tagli di budget progressivi e indiscriminati, stenta tuttavia a governare, oppure agendo sulla base di scelte e criteri non noti alla periferia, dando così vita a fasi di attenzione a singhiozzo e di alterni risultati.

A metà marzo, per esempio, il guardasigilli Alfano e il titolare della Pa, Renato Brunetta, hanno lanciato un «Piano straordinario» per la digitalizzazione della giustizia che, con una dote di 50 milioni, dovrebbe raggiungere in 18 mesi tre obiettivi: la digitalizzazione degli atti, le notifiche online, i pagamenti online. Non è il primo tentativo di velocizzare il servizio ricorrendo all’informatica, ma i progetti precedenti si sono incagliati sulla vetustà dei terminali, sull’assistenza assicurata col contagocce, su piccoli problemi di software per i quali, però, mancavano i 10mila o i 15mila euro necessari all’implementazione. Proprio come non sono stati trovati, al ministero, i 6mila euro necessari alla Procura di Bolzano, avanguardia di best practices, per rinnovare la certificazione di qualità: eppure è l’unico ufficio giudiziario d’Europa a vantarla. E i soldi li ha tirati fuori la Provincia autonoma.

Questa disperante scarsità di fondi (spiegata, quando non rivendicata da Alfano, come una sana sfida agli sprechi del passato) finisce col rinfocolare periodicamente storiche diffidenze tra toghe e ministero, che si accusano reciprocamente di sordità, scarsa collaborazione, autoreferenzialità; con ricaduta d’incontri disertati, commissioni miste svuotate di senso, statistiche dissonanti, allocazione di risorse contestate. Giova ricordare che le risorse le maneggia soltanto il Governo.

Quanto alle toghe, la loro lunga tradizione di assoluto immobilismo, di corporativismo e di sfrenati giochi di correnti interne, merita qualche ruvido rilievo da parte dei gestori della spesa; ma peggio delle critiche è quella certa sufficienza con cui Roma guarda agli sforzi degli uffici in materia di organizzazione, managerialità, miglioramento del servizio, in presenza di organici decimati e zero risorse. Se gli uffici vengono pubblicamente lodati (e c’è tutta una convegnistica ad hoc sul tema) cala il silenzio quando si tratta di recepirne e magari diffonderne le indicazioni più valide e innovative. Come sta accadendo per il Pct. Decantato per mesi come la giustizia civile del futuro, ancora oggi Via Arenula ne ipotizza varianti quando non alternative: «E noi aspettiamo da un anno le regole tecniche - dice il giudice fiorentino Luca Minniti - indispensabili perché la Regione possa aprire il punto di accesso». Un ritardo incomprensibile, un costo in più per tutti: utenti, Stato, avvocati.

Il mondo produttivo punta il dito contro «l’organizzazione estremamente inefficiente di gran parte degli uffici» senza risparmiare critiche a norme confuse e interessi corporativi degli avvocati, responsabili di quegli «incentivi che inducono ad avviare un numero spropositato di cause e a prolungarne la durata». I rimedi? «Italia 2015» ne indica otto, ma non è affatto certo che il 2011 potrà essere ricordato come l’anno della rinascita o almeno della svolta della giustizia civile.