Vari, La Stampa 6/4/2011, 6 aprile 2011
Rievocazione della Stampa. Cinquant’anni da Gagarin, primo uomo nello spazio Enzo Bettiza Sembra ieri, per chi ha conosciuto l’Urss di Gagarin, di Titov, della Tereškova, della cagnetta Laika
Rievocazione della Stampa. Cinquant’anni da Gagarin, primo uomo nello spazio Enzo Bettiza Sembra ieri, per chi ha conosciuto l’Urss di Gagarin, di Titov, della Tereškova, della cagnetta Laika. Eppure è passato mezzo secolo e più di mezzo, mettendo nel conto i satelliti spediti senza equipaggio fra i segreti del cosmo. La progressione nella conquista russa dell’etere extraterrestre fu graduale, talvolta rudimentale, comunque molto costosa e non priva di fallimenti e di vittime in gran parte rimaste ignote. L’ambizioso progetto aveva avuto un geniale precursore in Konstantin Ciolkovskij, padre della teoria del volo in orbita, e nella metà degi Anni 50 venne affidato a un’équipe di scienziati comandati dall’ingegnere progettista Sergej Korolëv: personaggio sulfureo, controverso, che godeva però dell’appoggio delle forze armate e della stima del Politbjuro krusceviano. Sotto la guida ostinata di Korolëv venne mandato in orbita, il 4 ottobre 1957, il primo satellite artificiale Sputnik 1. Dopo pochi mesi, il 3 novembre, il primo essere vivente che lo Sputnik 2 trasportò nello spazio non fu un uomo. Fu una cagna di tre anni e di sei chilogrammi, la minuta bastardina Laika, addestrata con severi metodi pavloviani, mirati a farla sopravvivere per tre settimane consecutive in gabbie anguste e ad abituarla ai disagi dell’assenza di gravità. La sorte dell’animale, destinato a diventare il cane più famoso del mondo, celebrato nei francobolli e nelle canzoni popolari, era però segnata fin dall’inizio: il programma non prevedeva il rientro della capsula spaziale. Ormai è accertato che Laika morì, dopo circa sette ore dal decollo, a causa dei violenti sbalzi di temperatura provocati da un guasto all’impianto di aerazione. Il satellite rientrò nell’atmosfera cinque mesi più tardi e, come previsto, si autodistrusse dopo aver compiuto 2570 giri intorno alla Terra. Il trionfale successo planetario della cosmonautica sovietica, che fu anche un successo d’immagine della maturità scientifica e potenza militare di Mosca nei confronti dell’America ritardataria, doveva avverarsi il 12 aprile 1961 con lo spettacolare volo orbitale del primo essere umano nello spazio: il giovane maggiore d’aeronautica Yuri Alekseevic Gagarin che all’epoca aveva 27 anni. Dopo aver girato intorno al globo per 88 minuti con la navicella Vostok 1, Gagarin, che s’era dato il soprannome «cedro» per i contatti radio con la base, vide da lassù cose, colori, arcobaleni, arabeschi orografici che nessuno aveva visto prima di lui. Le sue prime parole furono: «La Terra è blu, è bellissima, è incredibile!». Un tuono di stupore, di meraviglia, di ammirazione percorse il mondo, lasciando però interdetta e spaventata l’America di Eisenhower, che subì quello straordinario successo come uno schiaffo di sfida lanciatole da Kruscev nel pieno della Guerra Fredda. Molti europei apparivano in bilico tra la diffidenza politica e l’entusiasmo poetico. Guido Piovene, senza badare al risvolto politico dell’evento, lo salutò, nelle pagine de «La Stampa», come un taglio e un balzo di valore supremo nella storia dell’umanità: una mutazione delle ali di penne e cera di Icaro in una capsula prometeica che, volando verso le stelle, rendeva l’impossibile alfine possibile. Al tempo stesso due ex direttori de «La Stampa», Alberto Ronchey e Arrigo Levi, allora presenti come giornalisti a Mosca, procedevano dalla loro ottica locale più cauti e più attenti all’insieme storico e anche economico della situazione. I russi, scriveva Ronchey, avevano assorbito e profittato molto del know-how degli Stati Uniti; ma, registrava poi con distacco, per mandare in orbita Sputnik e Vostok ci vogliono conoscenze comunque avanzate di astrofisica, disponibilità di propellente chimico, tecnologieper la strumentazione di bordo. «Si aveva la sensazione che gli americani fossero imballati. I russi avevano Vostok e Gagarin, gli americani continuavano ad allungare le loro automobili». Però né Ronchey né Levi, nella giornata di maggior gloria dell’astrofisica sovietica, potevano tacere le contraddizioni che avevano sotto gli occhi. S’erano trovati insieme sulla Piazza Rossa, davanti ai magazzini Gum, quando dagli altoparlanti sentirono sgorgare a fiotti una voce eccitata e remota. MAURIZIO MOLINARI Vedere Yuri Gagarin volare nello spazio fu un tutt’ uno con la voglia di riuscire a far meglio di lui, ed al più presto»: a ricordare come l’America visse il primo viaggio nello spazio da parte di un austronauta dell’Unione Sovietica è Edgard Mitchell, che atterrò sulla Luna con l’«Apollo 14» e vanta il record del periodo più lungo passato sulla superficie lunare: poco meno di 10 ore, frutto di due passeggiate durate circa cinque ore. Texano, classe 1930, convinto sostenitore dell’esistenza degli Ufo e della necessità per l’umanità di imparare a vivere nello spazio, Mitchell scelse di fare l’astronauta dopo il lancio del satellite «Sputnik» il 4 gennaio 1958. «All’epoca ero un pilota dell’ Us Navy, avevo fatto la guerra in Corea e vedevo il mio futuro nell’aviazione - racconta -. Ma, quando vidi che i sovietici erano andati nello spazio, compresi che da quel momento cambiava tutto». Convinto che, «dopo il satellite sarebbe presto toccato agli esseri umani», Mitchell si offrì volontario per essere uno dei «piloti dei test spaziali». Non erano in molti, «perché la maggioranza dei miei colleghi era miope, incapace di comprendere come lo spazio fosse la nuova frontiera». Fu quella scelta, compiuta in anticipo su molti, che «mi fece entrare nel ristretto gruppo di militari che sin dall’inizio vennero addestrati all’esplorazione spaziale». La Nasa ancora non esisteva, erano i militari a gestire gli albori della corsa allo spazio e «noi giovani astronauti vivevamo in un clima dove regnava una doppia competizione». Ecco come la descrive: «La concorrenza più sentita, dura e personale, era quella che c’era fra di noi, perché tutti volevano essere i primi ad andare nello spazio. Non ci piaceva essere scartati o sorpassati». Solo dopo, «più lontana e politica, c’era la sfida con i sovietici che erano partiti in anticipo». Alan Shepard fu come Mitchell uno dei «110 piloti per i test militari finalizzati allo spazio» e, quando il 5 maggio 1961, pilotò la missione del «Freedom 7», diventando il secondo uomo a viaggiare nello spazio, l’astronauta texano provò «grande orgoglio perché era anche lui un pilota dell’Us Navy», oltre al fatto che i sovietici erano stati raggiunti. «Ma più che eguagliarli ciò che contava era superarli, perché noi americani siamo fatti così», continua l’ottantenne veterano della Nasa, svelando inesauribile emozione nel ripercorrere le tappe che lo portarono ad essere selezionato nel 1968 per l’«Apollo 14», quando diventò il sesto uomo a camminare sulla Luna. «Una cosa che solo noi americani abbiamo fatto, lasciando i russi un po’ indietro», sottolinea, ma senza eccessivo vanto, «perché nello spazio siamo tutti uguali e le frontiere politiche fra Stati non contano più nulla». «Fui incluso nell’Apollo 14 perché a terra avevo partecipato ai test del modello lunare», ricorda, parlando di « prove molto dure, lunghe e dettagliate», che «ci avevano in gran parte preparato a ciò che avremmo poi davvero trovato sulla Luna», fino al punto che «durante quelle mie passeggiate, di cui tutti continuano a parlare ancora oggi», l’unica vera sorpresa fu «riguardo alle caratteristiche solfuree della superficie», perché «per il resto tutto avvenne in maniera molto simile all’addestramento che avevamo ricevuto». Pilota, ingenegnere ed anche laureato in medicina, Mitchell continua a guardare con passione a quanto avviene nella corsa allo spazio, «perché ancora oggi è la frontiera più importante, per l’America e il mondo». I tagli varati da Barack Obama al bilancio della Nasa non lo preoccupano più di tanto, perché «in realtà ciò che il governo tenta di fare è aumentare l’impegno dell’industria privata nello sviluppo del settore spaziale», innescando un processo «che ricorda quanto avvenuto all’inizio del XX secolo con l’aviazione civile», quando «il vero sviluppo arrivò a seguito dell’impegno dei privati lì dove prima erano stati solo i militari a gestirne lo sviluppo». Da qui il sostegno per il turismo spaziale promosso da magnati come Richard Branson, presidente di Virgin Atlantic, perché «chi ha i soldi per permetterselo fa benissimo a progettare un viaggio fuori dall’atmosfera in quanto non c’è nulla di più affascinante ed elettrizzante che guardare alla Terra da fuori, ci si sente parte integrante dell’Universo». E, «se i prezzi dovessero scendere, sarebbe bene moltiplicare tali viaggi a fini edu- "LA COMPETIZIONE «Mi offrii volontario: capii subito che lo spazio era la nuova frontiera»" DAVID AVINO Dawn chiama Cedar, il countdown sta per iniziare». In una fredda mattina di Baikonur, nel Kazakistan, Yuri Gagarin stretto come una sardina nel suo proiettile volante rispose: «Tutto perfetto, sono pronto!». All’interno di una sfera dal diametro di circa 2 metri sistemò il sedile nella configurazione di lancio, attendendo il rombo dei motori e la spinta che l’avrebbe portato oltre l’atmosfera terrestre. Un piccolo oblò lasciava filtrare un po’ di luce all’interno dell’angusta cabina. Davanti a sé Gagarin aveva un pannello con 24 spie, una radio, un orologio, uno strumento per visualizzare la sua posizione sul globo terrestre e tre manometri con i dati del sistema di propulsione. Il cruscotto di un’odierna utilitaria (o quello della fiammante Jaguar E-Type, la macchina di Diabolik, commercializzata proprio pochi giorni prima del lancio) non avrebbe nulla da invidiare alla plancia di comando della navicella di Gagarin! «Lift off!». All’improvviso il braccio di supporto della rampa di lancio si aprì come un petalo, scagliando nel cielo il razzo. Yuri «carne in scatola», come si chiamavano i piloti spaziali dell’epoca, schiacciato sul sedile, poté assistere inerme alla propria impresa. La leva di comando che avrebbe consentito di controllare la navicella era stata bloccata e la chiave sigillata in una busta da aprire solo in caso di emergenza. I sovietici, temendo una reazione incontrollata del pilota in assenza di peso e non volendo perdere la sfida con l’Occidente, lasciarono «stoppato» il comando per tutto il volo. La «Vostok-1» era automatizzata: un timer accendeva i retrorazzi in fase di rientro, mentre un «computer» analogico controllava la propulsione. La concezione di computer nel ’61 era totalmente diversa da quella attuale: al mondo ce n’erano meno di 10 mila esemplari, di cui la metà erano IBM 1401. Pesavano 5 tonnellate ed occupavano una stanza da 30 metri quadrati. Dotati di una memoria da 16 kilobyte, avevano una capacità di calcolo 10 milioni di volte inferiore a quella di un odierno telefono cellulare! Eppure Gagarin, con una tecnologia «paleolitica», riuscì ad orbitare per 108 minuti attorno alla Terra, raggiungendo la quota di 328 chilometri di altezza. E l’«era paleolitica» continuò con il trionfo delle missioni statunitensi «Apollo». Bastò un computer di bordo del Lem con una memoria di 64KB e una capacità di calcolo paragonabile a quella di un Commodore-64 per atterrare sulla Luna e stampare l’impronta dello stivale di Armstrong sul suolo selenico. La nuova epopea, per ironia della sorte, iniziò esattamente 20 anni dopo il volo di Gagarin, il 12 aprile del 1981, con il lancio del primo shuttle che segnò il passaggio all’era digitale. La ricerca tecnologica nel campo spaziale stava guidando lo sviluppo e la diffusione dei moderni pc. Gli shuttle, di concezione avanzata rispetto alla tecnologia russa, montarono negli Anni 80 computer sofisticati e all’avanguardia per l’epoca. Se oggi i nostri pc casalinghi sono milioni di volte più potenti, sono però meno stabili e a volte si bloccano. Nel settore spaziale l’affidabilità dei sistemi di bordo conta molto di più delle loro prestazioni. Nel ‘91 i computer degli shuttle sono stati aggiornati con una memoria da 1MB e una velocità di 1,4 milioni di istruzioni al secondo, eppure il pc con cui scrivo è in grado processare 76 miliardi di istruzioni al secondo! Ma il cervello della navetta deve «solo» elaborare i dati che arrivano dai sensori per 25 volte al secondo e, quindi, sarebbe inutile sovradimensionarlo e dotarlo di complesse interfacce grafiche che lo appesantirebbero, aumentando il rischio di blocco. ANTONIO LO CAMPO Fu un momento memorabile. Ricordo che si respirava un’aria particolare, di grande entusiasmo. Avevo otto anni e tutta la nazione era orgogliosa di Yuri Gagarin, compresi noi ragazzi: molti di noi erano appassionati dello spazio e volevamo essere come lui, me compreso». Valery Tokarev, cosmonauta russo, ha realizzato il suo sogno 44 anni dopo, nel 2005, spiccando il balzo con una «Sojuz», dalla stessa piattaforma da cui era partita la «Vostok 1». Ma la sua storia era iniziata molto prima. Quando entrò a far parte del corpo dei cosmonauti in addestramento al centro di Mosca che porta proprio il nome di Gagarin, sulla sua tuta c’era ancora la bandiera rossa dell’ Urss. Tokarev era stato selezionato nell’87 per entrare nel gennaio ‘89 a far parte di un gruppetto selezionato di piloti collaudatori. Il loro compito era di mettersi ai comandi della più sofisticata macchina volante russa mai costruita fino a quel momento, la navetta spaziale «Buran», l’equivalente (con alcune varianti) dello shuttle americano. Quella navetta, l’anno successivo, verrà portata in orbita dal più potente razzo finora lanciato nello spazio: l’«Energhia». Fu però un volo automatico, senza equipaggio, prima di atterrare a Bajkonur. Poi, con il crollo dell’Urss, il programma verrà cancellato e Tokarev diventa protagonista della nuova avventura spaziale russa, contrassegnata dalla collaborazione internazionale. Tokarev, lei sta per arrivare in Italia con l’americano Walter Cunningham, astronauta della storica missione «Apollo 7», per celebrare il volo di Gagarin: che clima si respirava in quei giorni? «Avevo 8 anni e ovviamente non riuscivo a capire del tutto la grandezza dell’evento, ma tutti ne parlavano, a scuola, a casa, tra i ragazzi. Ogni cosa, nel Paese, ruotava attorno a questo avvenimento. Pensate che all’epoca tutte le informazioni erano riservate e il popolo non aveva saputo nulla del lancio quando era in preparazione. Poi, a un tratto, sentimmo ripetere l’annuncio: “Uomo nello spazio. Il primo uomo nello spazio è nostro”. Tutta la nazione era orgogliosa, compresi noi ragazzini». La sua passione per lo spazio è nata così? «Già da piccolo ero attirato dal volo. Una volta, in biblioteca, ho trovato un libro sui piloti militari. Poi mi hanno fatto fare un giro con l’aereo AN-2 e così mi sono appassionato. A 17 anni mi sono iscritto alla scuola superiore di pilotaggio e ho iniziato la mia carriera come collaudatore di caccia a reazione, sperimentando vari velivoli: in tutto 44. La cosmonautica è venuta dopo, quando ero già comandante». Lei avrebbe dovuto pilotare il «Buran»: le dispiace che sia stato cancellato? «Fu nell’87 che il mio sogno iniziò ad avverarsi: dopo vari test ero stato selezionato per far parte della squadra dei cosmonauti che avrebbero guidato la navetta. Poi, come si sa, tutto è stato cancellato: vista la crisi politica, non c’erano più fondi, e l’Urss si stava disgregando. Sì, mi dispiace: se il programma fosse continuato, avrebbe cambiato il futuro di tanti settori, dalla ricerca alla difesa». Che tipo di missioni avrebbe dovuto compiere la navetta russa? «Uno degli aspetti-chiave del programma era quello dell’utilizzo militare e poi, naturalmente, l’altro obiettivo era portare in orbita i satelliti e rifornire le stazioni spaziali». Lei, poi, ha volato su uno shuttle americano, come ingegnere di bordo: crede che la collaborazione Usa-Russia sarà determinante per i traguardi del futuro, compresa la conquista di Marte? «Ho volato con gli americani nel ‘99. Sono grato ad ogni membro della squadra: c’erano rapporti eccezionali e nessun tipo di sospetto. E’ stata una collaborazione fruttuosa e reciproca. La collaborazione nello spazio ha avvicinato le due nazioni, Usa ed ex Urss, ma la spedizione su Marte, oggi, non è ancora tecnologicamente fattibile». Quali sono i problemi ancora da risolvere? «Molti, basta pensare che i voli di oggi richiedono un continuo collegamento con la Terra. Intanto, l’”esperimento Marte”, che si sta realizzando a Mosca con un gruppo di volontari in isolamento, riguarda solo l’aspetto medico-biologico». Lei è stato per sei mesi sulla Stazione per una missione di lunga durata, come quella che svolge Paolo Nespoli: quali sono le difficoltà per riadattarsi dopo il ritorno sulla Terra? «Sulla Stazione sono stato 190 giorni: sono uscito spesso per le “passeggiate spaziali” e abbiamo eseguito una cinquantina di esperimenti medici, biologici, ingegneristici. Quanto al riadattamento, è una questione individuale: il secondo giorno a Terra avevo già ripreso a nuotare, ma per l’apparato vestibolare ci vogliono alcuni giorni. E poi è di aiuto il cibo “normale”. Quello che usiamo in orbita è ricco di nutrienti, ma povero di gusto. Un bicchiere di buon vino italiano, lassù, sarebbe una favola. Ma, come sapete, l’alcool è vietato nello spazio!». LUIGI GRASSIA La prima navicella spaziale aveva un braccio (il famoso Yuri Gagarin) e una mente (un certo Sergei Korolev). Anzi, alcuni storici assegnano a Korolev sia il ruolo di mente sia quello di braccio, perché il misconosciuto Sergei non fu solo il progettista della Vostok, ma anche il suo vero pilota, avendola manovrata da Terra. Per essere giusti, c’è da aggiungere che tutti i rischi li corse Gagarin. Ma pure il povero e non famoso Korolev patì molto sul piano fisico prima di realizzare l’impresa. Sergei Pavlovich Korolev nacque nell’impero degli zar il 12 gennaio 1907. Bambino durante la rivoluzione di Lenin, si trovò a crescere in un sistema comunista che gli piaceva, anche perché permise a lui, Korolev, di modeste origini com’era, di diventare pilota e di laurearsi in ingegneria. Il giovane Sergei a Mosca diventò l’allievo prediletto di Andrei Tupolev, il grande progettista aeronautico. Seguendo una strada tutta sua, Korolev all’inizio del 1933 realizzò il primo razzo a propellente liquido lanciato dall’Unione Sovietica. Sergei era entusiasta della vita che gli si prospettava e del regime di Stalin. Per fare una citazione letteraria, «amava il Grande Fratello». Il 27 giugno del 1938 quattro agenti del Kgb sfondarono la porta di casa di Korolev e lo massacrarono di botte per fargli confessare di essere una spia. Il giovane ebbe fracassati tutti i denti (per il resto della sua vita dovette portare una dentiera) e le ossa delle mascelle fratturate in una maniera tale che molti anni dopo fu concausa della sua morte. Uno dei suoi biografi scrive che si trattò di «un esempio clamoroso dell’incredibile stupidità delle purghe di Stalin». Come milioni di altre persone Korolev fu deportato in un campo di concentramento in Siberia, nel suo caso a Kolyma; poi passò cinque anni da detenuto a Mosca. Nel 1945, quando i sovietici contro-invasero la Germania nazista e scoprirono i razzi V2 realizzati da Von Braun (nel frattempo catturato dagli americani), Stalin riabilitò Korolev e lo rimise a capo del programma missilistico di Mosca per recuperare il tempo perduto. Senza recriminazioni Sergei Korolev si mise al lavoro e, dimostrandosi più bravo di Von Braun, portò l’Urss in vantaggio, inanellando una serie di «prime» storiche: nel 1957 la squadra di Korolev lanciò il primo missile intercontinentale (gli Usa ci riuscirono solo 15 mesi dopo), poi vennero il primo satellite artificiale (lo Sputnik), il primo cane nello spazio, il primo uomo nello spazio (Yuri Gagarin), la prima donna nello spazio, la prima «passeggiata spaziale». Gli americani seguivano a distanza di mesi o di anni, ma Von Braun diventò famoso e Korolev no, perché i sovietici tennero segreti il suo nome e il suo ruolo; qualcosa fu rivelato al pubblico solo quando morì, nel 1966. La morte prematura di Korolev (a soli 59 anni) contribuì a rallentare il programma spaziale sovietico; tre anni dopo gli americani si presero la più clamorosa delle rivincite, portando il primo uomo sulla Luna. Ma ride bene chi ride ultimo: ora che lo Space Shuttle va in pensione l’America ha deciso che per rifornire la Stazione spaziale internazionale il mezzo più efficiente sono i missili russi, lontani eredi di quelli che Korolev disegnò tanti anni fa per mandare in orbita Yuri Gagarin.