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 2011  aprile 06 Mercoledì calendario

«UCCISA DALLE FIGLIE E DAI LORO AMICI». SVOLTA DOPO 17 ANNI

Diciassette anni fanno di una ragazza una donna, e forse di una figlia un’assassina.
Alla catena di cold case che investono la giustizia italiana (Simonetta Cesaroni, Alberica Filo della Torre, Elisa Claps) si aggiunge un nuovo anello: un delitto orrendo, commesso nella profonda provincia veneta in tempi in cui i talk show non andavano di moda, e dunque dimenticato.
Una donna ancora giovane, 42 anni appena, vedova, inserviente in ospedale, madre di due figlie: Maria Armando. Uccisa il 23 febbraio 1994 nell’ingresso di casa a Praissola di San Bonifacio, colpita con 21 coltellate e violata nella morte in modo osceno, con un manico di scopa.
Allora, per quell’omicidio era stato accusato e incarcerato il compagno; oggi un pm, sulla base di una mezza ammissione che sembra un rigurgito di coscienza ma potrebbe anche essere una vendetta, e sulla base di una cristallina intercettazione telefonica che però non può essere utilizzata in sede processuale perché raccolta senza corretta autorizzazione del magistrato, chiede l’arresto delle due figlie della donna, di un argentino che all’epoca era fidanzato di una delle due, e di due amiche delle ragazze. Un vero e proprio clan, che avrebbe progettato il delitto per entrare in possesso della casa intestata alla vittima, di un’eredità con cui spassarsela. Esattamente come tre anni prima, ad appena dieci chilometri in linea d’aria - a Montecchia di Crosara - aveva fatto un altro figlio del nordest, Pietro Maso, anche lui con la complicità degli amici.

Abilmente camuffato da omicidio a sfondo passionale, il delitto non aveva mai trovato un colpevole anche perché le indagini avevano preso subito la direzione sbagliata, puntando sul compagno della donna. Alessio Biasin aveva allora 57 anni ed era preside in una scuola media; stimatissimo signore, impegnato con la Dc locale, ma indifendibile in un piccolo paese dal momento che per la vedova aveva lasciato la moglie e i sette figli.

La Dc lo aveva tagliato fuori, i carabinieri lo avevano messo dentro. Quando dopo quattro mesi di ingiusta detenzione era stato scarcerato, era ormai troppo tardi per ricostruire alcunché. Anche per recuperare quelle «impronte piccole, come di donna, di una persona giovane», che il preside descriveva - per averle viste e non averle dimenticate - nelle lettere alle cugine scritte dal carcere per urlarsi innocente.

Biasin, che ottenne per l’ingiusta detenzione 40 milioni, sarebbe morto in un incidente d’auto nel 2000, con la moglie e una figlia.

Per le due figlie di Maria Armando invece la vita andava avanti. All’epoca del fatto Katia Montanaro aveva 19 anni, lavorava in una fabbrica di jeans e tornando dal lavoro aveva trovato il corpo massacrato della madre; sua sorella Cristina ne aveva 21, viveva a Milano in una comunità punk con l’argentino Salvador Versaci e da casa non passava mai: per rintracciarla e avvisarla del delitto c’era voluto «Chi l’ha visto», Katia diceva di non sapere dove fosse.

Sono tutti sotto accusa adesso, 17 anni dopo, assieme alle amiche delle ragazze, Marika Cozzula e Alessandra Cusin. E lo sono perché il fidanzato della Cusin, arrestato lo scorso anno per altre ragioni, ha detto ai carabinieri che la sua ragazza gli aveva raccontato «di aver partecipato, una volta, a un omicidio». Preparata la trappola, la Cusin ha raccontato tutto: ed è tutto registrato e tutto inutilizzabile, per una questione di procedura. Quando il pm Giulia Labia ha chiesto gli arresti, il gip ha respinto: la confessione è chiara nella sostanza, inammissibile nella forma. Il pm non ci sta, il Riesame è fissato per il 19 aprile. Dopo 17 anni, Maria Armando per avere giustizia può aspettare ancora qualche giorno.