Massimo Mucchetti, Corriere della Sera 6/4/2011, 6 aprile 2011
CASO PARMALAT: I QUATTRO OSTACOLI ALLA RICOSTRUZIONE DI UNA NUOVA IRI
Con il decreto omnibus di fine marzo, il governo attribuisce alla Cdp (Cassa depositi e prestiti) la facoltà di intervenire in banche e imprese quando sia in gioco l’interesse nazionale. Torna lo Stato imprenditore? Oppure si allarga lo Stato azionista? Benché l’incipit sia Parmalat, sarebbe troppo facile liquidare la svolta evocando lo Stato pasticcere che, negli anni 70, nazionalizzava Motta e Alemagna. Non foss’altro perché l’economia di mercato degli anni 90 è già stata sospesa con il salvataggio della finanza occidentale a opera degli Stati. E il pensiero unico liberista del Washington Consensus sta cedendo il passo al Beijing Consensus del capitalismo plurimo. Che cosa significa, dunque, mostrare nostalgia per l’Iri e la Mediobanca di Cuccia e Maranghi? Il ministro Tremonti precisa che la sua era una battuta contro chi pensava bastasse privatizzare e deregolare per avere imprese e banche migliori. Del resto, per quanti invocano un nuovo Beneduce (il sottoscritto l’aveva fatto nel 2004 quando il presidente Ciampi esortava a dare una scossa all’economia) è ovvio che l’aggettivo conta quanto il cognome del fondatore dell’Iri. L’Iri, non dimentichiamolo, rilevò le banche nel 1933 per evitarne il fallimento e vi trovò i pacchetti azionari di tante imprese indebitate ma buone. Dopo la guerra, fu la stessa Confindustria a chiedere all’Iri, nel frattempo benedetto dagli Usa, di proseguire l’opera sua in un Paese dove il governo aveva sovranità monetaria e debito contenuto, un’economia protetta dalle dogane e dall’arretratezza delle tecnologie, un’industria sovraordinata alla finanza. Ma oggi siamo nel 2011. A prendere sul serio il progetto Cdp emergono quattro ostacoli. Il primo si riassume nel quesito: perché Parmalat sì e Fiat no? Fiat è assai più strategica di Parmalat, e come Parmalat potrebbe trasferire all’estero sede legale e quote sensibili delle sue attività materiali e immateriali. In Parmalat c’è un manager, Enrico Bondi, e un consiglio pronti a seguire il governo. In Fiat, invece, Sergio Marchionne ha un suo progetto, con l’appoggio degli Agnelli e delle banche. La Cdp difende l’interesse nazionale se la «minaccia» viene dall’estero e il board della preda approva. Ma se la «minaccia» avesse origine domestica e il board anteponesse l’interesse dei soci a quello del Paese? La Cdp promuoverebbe un azionariato alternativo? Temo che il decreto debba essere precisato rispetto sia alle industrie che alle banche, le quali, essendo soggette a regolazione e volendo pensar male, potrebbero diventare preda del governo. Il secondo problema è la qualità dell’intervento. Parmalat avrà valore d’esempio. Si può pure imporre a Lactalis l’Opa, perché i francesi hanno il controllo di fatto ancorché non superino il 30%, soglia legale dell’Opa obbligatoria. Naturalmente, ci potremmo chiedere perché nessuno l’aveva pretesa, l’Opa, quando Pirelli e poi Telco ne hanno preso il controllo restando sotto il 30%. Ma non sottilizziamo. E tuttavia mettere fuori gioco Lactalis di per sé non basterebbe. Chiunque lanciasse l’Opa tricolore, con o senza Cdp dietro, dovrebbe avere un disegno industriale e capitali propri. Una controscalata a debito, da rimborsare con la cassa di Parmalat, sarebbe un triste dejà vu. Terzo problema, i soldi. L’Iri le imprese se le ritrovò. E poteva emettere obbligazioni garantite dallo Stato. Oggi tutto andrebbe pagato, e senza aumentare il debito pubblico. La Cdp ha un free capital di 4 miliardi che può attivare crediti per 50 miliardi o investimenti azionari per 13, entrambi finanziati dal risparmio postale, senza aumentare il debito pubblico. La Cdp può essere rafforzata, aprendone il capitale a Fintecna e Sace, che hanno parecchia liquidità. Dato il moltiplicatore, si può immaginare una potenza di fuoco di 30 miliardi. Ma sempre rispettando il risparmio postale, che è il 10%della ricchezza finanziaria nazionale, e la Sace, che assicura per le esportazioni. Da banche e fondazioni verrà poco, causa Basilea III; ma il raccordo tra Cdp e credito resta essenziale, ancorché complicato dal Testo unico bancario, che ha superato la legge del 1936, madre di Mediobanca. Quarto e ultimo problema, il «nuovo Beneduce» , che dovrebbe decidere gli interventi. L’Iri era fatto da un gruppo di manager, banchieri e grand commis di valore che godeva di ampie deleghe da parte di Benito Mussolini per risolvere i fallimenti del mercato di allora. I gerarchi non avevano voce in capitolo. Negli anni 50 e 60, l’Iri conservò autonomia e positivi rapporti con il settore privato. E perfino nel ventennio della degenerazione finale aveva forti competenze. Oggi Tremonti non ha una tecnostruttura che ponga rimedio ai fallimenti del mercato attuale, al di là delle emergenze. Quando il presidente Franco Bassanini dice che, per Parmalat, si deve cambiare lo statuto della Cdp, apre il primo capitolo. Poi bisogna proseguire. La Francia protegge la bandiera e fa politica industriale pilotando fusioni e acquisizioni tra le sue grandi imprese. Lo scudo anti scalate, finanziato con debito pubblico, è un’aggiunta. Il governo italiano non sa nemmeno se lasciare Snam dentro l’Eni o tirarla fuori. Ma assegna ai produttori privati di elettricità sussidi ben maggiori dei fondi di dotazione di Iri, Eni, Enel ed Efim senza ricadute industriali degne. Il fatto è che tra il Tremonti, che nel 2002 pensava di nazionalizzare Fiat Auto ma non lo disse mai, e il Berlusconi, sponsor di Marchionne in chiave anti Fiom, è aperta una contraddizione risolta da Bossi in stile vetero meridionalista, quando proclama Parmalat italiana pensando alle mucche padane, e glissa su Fiat dimenticando la metalmeccanica nazionale. La Francia, l’Iri e Mediobanca, insomma, restano un’altra cosa. mmucchetti@corriere. it