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 2011  febbraio 14 Lunedì calendario

Anno VIII – Trecentosessantesima settimana Dal 7 al 14 febbraio 2011Egitto Mubarak ha provato a resistere fino a giovedì 10 febbraio

Anno VIII – Trecentosessantesima settimana Dal 7 al 14 febbraio 2011

Egitto Mubarak ha provato a resistere fino a giovedì 10 febbraio. Per tutto il giorno i militari avevano annunciato che in giornata il raìs si sarebbe dimesso, «stasera vi daremo una buona notizia» ripetevano gli ufficiali al popolo perennemente riunito nella piazza Tahrir. Invece, poco dopo le 21, Mubarak appariva sui piccoli schermi del paese e annunciava che avrebbe gestito la transizione restando in carica fino al momento delle elezioni. Era accaduto che il re dell’Arabia Saudita, Abdullah, aveva promesso di sostituire gli americani negli aiuti, poco meno di tre miliardi di dollari l’anno. Questo aveva fatto credere al raìs di poter ancora resistere. Ma si trattava di un asse fragile, durato infatti poche ore. Venerdì 11 febbraio, alle cinque del pomeriggio, mentre una folla enorme premeva nella piazza Tahrir, è andato in tv il suo vice, Omar Suleiman, che parlando «in nome di Dio misericordioso» ha annunciato che «il presidente Hosni Mubarak ha deciso di dimettersi». Il potere, come previsto, è passato ai militari, le cui intenzioni sono per il momento da decifrare. Essi hanno subito abrogato la costituzione, sciolto il Parlamento e preteso il ritorno a casa di tutti i manifestanti, che hanno in genere obbedito. I generali promettono di condurre il paese alle elezioni, ma i dubbi sono tanti. Chi ha mai visto lasciare un potere conquistato senza colpo ferire e persino con l’appoggio della popolazione? E per instaurare una democrazia all’Occidentale che in Egitto probabilmente non conviene a nessuno di quelli che contano?

Domino La rivoluzione in Egitto, provocata da q uella tunisina, rischia di gettare nel caos tutta l’area, afflitta da problemi di sovrapopolazione e da una miseria resa più acuta dalla crisi globale. Gli algerini sono già scesi in piazza e annunciano una grande manifestazione per sabato, in Marocco un giovane s’è dato fuoco, in Yemen le proteste non si fermano. L’Economist, incrociando l’indice di giovinezza delle popolazioni (un fattore storicamente destabilizzante), il numero di anni in cui il dittatore locale è al potere, il livello di corruzione, il tasso di democrazia, il reddito medio eccetera, ha mostrato che le percentuali di una rivoluzione sono l’ 83% in Yemen, il 65% in Libia, il 64 in Siria, il 59 in Oman, il 57 in Arabia Saudita, il 50 in Algeria, il 45 in Giordania, il 42 in Marocco, il 38 in Bahrein, il 36 in Libano, il 24 negli Emirati. L’alto rischio libico è confermato da un discorso, tenuto improvvisamente domenica scorsa, da Gheddafi: invito all’unità del mondo musulmano, contro il potere bianco degli occidentali che vogliono distruggere – secondo lui – il potere verde dell’Islam. In un altro indice, redatto dal Sole, si calcola la probabilità di una rivolta, in una scala da 1 a 10, attraverso l’incrocio di otto parametri: violenza politica, porzione di reddito che le famiglie destinano all’acquisto di generi alimentari, inflazione, tasso di occupazione giovanile, utilizzo di Internet, indice di sviluppo umano (accesso a servizi sociali, alla sanità ecc.), indice Moody’s di efficienza del governo, tasso di corruzione. Il paese più a rischio risulta qui la Siria (6,1), seguito da Algeria (6) e Giordania (4,5). Il paese più a rischio del mondo è la Nigeria (9,2). Tutti questi calcoli e previsioni spiegano perché i più preoccupati della crisi egiziana sono gli israeliani, che temono una saldatura tra tutti i movimenti fondamentalisti mediorientali e il rafforzarsi dell’alleanza alQaeda-Teheran. A quel punto, l’ipotesi di annientare Israele, sempre gridata in Persia, potrebbe farsi davvero concreta.

Sbarchi Barconi di disperati, provenienti soprattutto dalla Tunisia, hanno ripreso ad approdare sulle nostre coste, nuovamente invase, dopo due anni di tranquillità, da clandestini. Fino al momento in cui scriviamo ne sono arrivati cinquemila, cioè mille al giorno. Punti di approdo più frequenti: Lampedusa e Pantelleria. A Lampedusa, per ospitarli, se ne sono assiepati 1.500 nel campo di calcio ed è in corso la riapertura del Centro di accoglienza, chiuso due anni fa dopo le proteste dei locali. Gli italiani lamentano l’indifferenza al problema dell’Europa e gli scarsi controlli tunisini ai punti di imbarco. Maroni ha proposto che la stessa polizia italiana vigili nei porti tunisini, ma si è sentito rispondere: «Non accettiamo ingerenze nei nostri affari interni». Nei porti di quel Paese si svolge un’intensa compravendita di imbarchi clandestini: un posto costava 750 euro una settimana fa, è arrivato adesso a poco meno di duemila euro. Si acquista un passaggio su carrette scassate, che più di una volta si spaccano in due una volta al largo. Lunedì mattina un sito arabo ha scritto che una di queste barche è stata speronata da una motovedetta tunisina al largo di Gabes. Ventinove persone sarebbero morte.

Bollettino politico I magistrati che indagano su Berlusconi hanno chiesto che si proceda contro di lui, e solo contro di lui, con rito immediato, il che significa che, se il gip dirà di sì, il premier dovrà difendersi in aula tra poche settimane dall’accusa di aver sedotto la minorenne Ruby e di aver favorito la prostituzione minorile. I suoi avvocati hanno qualificato l’iniziativa di incostituzionale e lo stesso Cav ha ribadito più volte che la Procura di Milano è un centro eversivo, che agisce politicamente e ha l’unico scopo di sovvertire il responso popolare. Venerdì il capo del governo è andato da Napolitano, a spiegare le sue ragioni, e i giornali hanno riferito questo colloquio forzando le supposte parole del premier: sembrava che il presidente del Consiglio avesse minacciato il presidente della Repubblica di ricorrere alla piazza se il Quirinale non lo avesse esplicitamente appoggiato contro i giudici. Così il capo dello Stato ha emesso sabato un comunicato di chiarimento: non solo se avesse manifestato una simile intenzione Berlusconi sarebbe stato messo alla porta, ma occorre invece «uno sforzo di contenimento delle attuali tensioni in assenza del quale sarebbe a rischio la continuità della stessa legislatura». Cioè, Napolitano avverte che se la guerra guerreggiata tra le istituzioni non finisce egli potrebbe, con iniziativa mai presa in precedenza, sciogliere le camere d’imperio, senza aspettare la crisi di governo. È seguito dibattito tra i tecnici: questa mossa è ammessa dalla nostra Carta? Che succederebbe se Berlusconi si rifiutasse di controfirmare il decreto di scioglimento? Intanto, domenica, migliaia di donne hanno riempito le piazze di 230 città italiane e di parecchie città straniere, chiedendo al Cav di togliersi di mezzo. Manifestazioni in difesa della dignità femminile, a cui il Cav ha risposto: «È stata una mobilitazione faziosa, una vergogna. Le dimissioni sono una proposta irricevibile, non ho tradito né il mandato elettorale né le riforme». Tra i molti striscioni inalberati da queste donne – la cui parola d’ordine era «Se non ora quando?» - da segnalare quello visto a Bari e che recava un perentorio: «Mo sbarack» assonante con la crisi egiziana. Domenica si è anche conclusa a Milano, con un duro discorso di Fini contro il premier, l’assemblea fondativa di Futuro e libertà.

Gemelline Alessia e Livia, le gemelline di sei anni figlie del suicida Matthias Schepp, sono state probabilmente avvelenate dal padre. Lo si evince dalle lettere inviate alla moglie e dalla natura degli ultimi siti visitati dall’uomo sul suo computer. La madre Irina Lucidi è in Corsica, dove si pensa siano stati seppelliti i corpi delle bambine.