Tommaso Padoa-Schioppa, Avvenire 4/3/2011, 4 marzo 2011
CAPITALISMO
L’attuale crisi economica viene spesso paragonata a quella iniziata nel 1929 e durata per la gran parte degli anni Trenta; ora, bisogna sapere che la corrente interpretazione della crisi del 1929 si è più o meno consolidata solo nel corso degli anni Ottanta dopo decenni di studio e di analisi, di dibattiti scientifici, tra economisti, storici, sociologi, statistici, sulle sue vere cause e sulla sua natura. Certo, sarebbe assurdo se si dovessero aspettare cinquant’anni per formarsi un’opinione fondata su questa crisi. Non è possibile sprecare questi anni; e, nello stesso tempo, bisogna essere consapevoli del fatto che forse tra dieci, quindici o vent’anni si darà un’interpretazione di ciò che stiamo vivendo diversa da quella che è possibile dare oggi. D’altra parte, ogni azione volta ad affrontare questa crisi contiene un’implicita interpretazione di essa: quindi lo sforzo, che si concluderà con l’opera degli storici, va effettuato facendo un esercizio di ’storia del presente’, per poter dare un senso alle azioni che si intraprendono. Questa crisi è paragonabile ad un fenomeno sismico, in cui la terra viene scossa e in cui si assiste ad un assestamento della crosta terrestre a diversi livelli di profondità. Lo strato più superficiale corrisponde al panico seguito all’inaspettato fallimento della Lehman Brothers nel settembre 2008 – l’improvviso timore che coloro che svolgono operazioni finanziarie non siano più affidabili è un fattore che ha generato una sorta di paralisi del mercato inter-bancario, con una generale crisi della liquidità. Il fenomeno sismico sottostante è quello che viene definito lo scoppio di una bolla finanziaria. Che cos’è una bolla finanziaria? Essa si forma quando di un certo bene – può essere un bene qualsiasi: lo sono stati i tulipani nel Seicento, come i titoli del settore ferroviario nell’Ottocento – cresce il prezzo, non più e non solo perché il suo valore sia realmente accresciuto, ma in virtù di una sorta di euforia collettiva, che spinge il prezzo ben al di là dei suoi fondamenti reali. Per il fatto che molti agiscono sulla base di questa convinzione, si verifica quella che viene chiamata una ’logica di aspettative che si autorealizzano’, ovvero che vengono confermate dai fatti non perché il loro presupposto di fondo sia corretto, ma in virtù del conformismo per il quale tutti sembrano agire in base al pregiudizio dell’opinione collettiva. La bolla speculativa, pertanto, trascina i prezzi dei beni molto lontano dalle connessioni vere di partenza. Si è parlato in questo caso di bolla immobiliare, nella misura in cui il bene in questione era la casa di molte famiglie americane, che veniva acquistata grazie alla concessione di un mutuo privo delle condizioni necessarie. Tale mutuo, detto subprime , non solvibile o poco solvibile, si è trasformato in un titolo finanziario venduto sul mercato. Il terzo e più profondo strato di questo sisma, non sufficientemente considerato in molte analisi attuali, è un modello di crescita fondato sul consumo a credito, e cioè un’economia nella quale il consumo rappresentava l’elemento trainante dello sviluppo economico, consumo che avveniva a fronte di un crescente debito da parte dei consumatori stessi. Per anni la crescita economica degli Stati Uniti è avvenuta grazie all’accumulazione di un debito sempre crescente, sia privato che pubblico, e senza un’adeguata base di risparmio. I consumi venivano sistematicamente finanziati col debito.
Questi tre fenomeni sono strettamente legati tra loro: la peculiarità di questa crisi sta nella loro compresenza e nella loro coabitazione; e sta nel fatto che una bolla speculativa ha colpito un particolare bene, la casa, di rilevanza sociale immensa e che per gran parte delle famiglie americane costituiva il capitale di ricchezza acquisito che legittimava nuovi indebitamenti per nuovi consumi. Nessuno avrebbe detto che gli elementi di questa crisi erano sconosciuti: quello che colpisce di questa crisi, e che ne costituisce il carattere inatteso e peculiare, è piuttosto l’interazione di questi tre elementi, insieme al fatto che questo processo si sia protratto per una durata eccezionalmente lunga. Uno degli elementi che hanno consentito quest’ultimo aspetto è la globalizzazione, che certo non è identificabile come la causa della crisi, e tuttavia rappresenta un fattore che ha permesso il prolungarsi di questo percorso non sostenibile. Lo ha permesso perché le famiglie americane da un lato acquistavano beni prodotti a prezzi troppo bassi al di fuori degli Stati Uniti, soprattutto in Paesi emergenti come India e Cina, e perché il debito crescente aveva come contropartita il credito che gli stessi Paesi asiatici facevano all’economia americana, accumulando dollari in cambio delle loro esportazioni. Quindi il fenomeno di una crescita fondata sul consumo e sull’indebitamento era condizionato fortemente dalla globalizzazione.
È possibile descrivere la presente crisi affermando che non si tratta di una crisi nel sistema, ma della crisi di un sistema: essa cioè, non costituisce uno dei tanti difetti del mercato da correggere nelle proprie tendenze, ma è qualcosa di più. Pertanto è necessario chiedersi di quale sistema essa rappresenti la crisi. Ebbene, questa non è la crisi del sistema capitalistico in generale, non è la crisi dell’economia di mercato, così come la crisi del 1989 ha rappresentato la crisi del sistema collettivista fondato su un’idea errata dell’uomo e della società, convinto che l’economia avrebbe funzionato meglio se si fosse estirpata dagli individui l’idea del mercato come spazio di coltivazione del proprio interesse. Questa illusione è durata alcuni decenni, generando povertà e oppressione politica, ed il 1989 ne ha segnato l’ultima tappa. L’attuale crisi non è stata, dunque, per l’economia di mercato quello che il 1989 è stato per l’economia di piano. Oggi abbiamo piuttosto a che fare con la crisi di una particolare forma di economia di mercato, contraddistinta da tre caratteristiche essenziali. La prima è l’ideologia fondamentalista del mercato, ovvero l’illusione che il mercato abbia sempre ragione, che esso possa funzionare anche senza regole, che nell’economia di mercato il gioco delle transazioni non sia sottoposto alle regole fissate dai poteri pubblici, ma sia caratterizzato da una specie di anarchia in cui si può fare ciò che si vuole. La seconda caratteristica è il nazionalismo della politica economica e cioè il crescente divario tra il perimetro dei mercati, che è ormai sempre più globale, e quello dei poteri pubblici. Questo divario non fa che indebolire la possibilità per i poteri pubblici di intervenire nel governo dell’economia. Il terzo elemento è la veduta corta e rappresenta il più elusivo dei fattori esplicativi della crisi: infatti, mentre i primi due elementi sono più comunemente riconosciuti, questo progressivo accorciarsi dei nostri orizzonti temporali è una questione di cui forse ci rendiamo conto solo oggi. Questi fattori si collocano su tre livelli diversi. Il primo di essi, l’assoluta libertà del mercato, appartiene al livello delle idee, delle elaborazioni in ambito di scienza economica; il secondo fattore, il rapporto tra perimetro del mercato e perimetro dei poteri pubblici, riguarda piuttosto un ambito istituzionale; il terzo, invece, la veduta corta, si colloca su un piano psicologico, degli atteggiamenti mentali. Questo semplice fatto basterebbe, da solo, a dirci che la crisi non è soltanto questione di regole finanziarie che sono state disattese: si tratta di un fenomeno che va ben al di là degli aspetti tecnici, e di questa complessità bisogna tenere conto, per una comprensione adeguata del problema. È opportuno soffermarsi maggiormente sulla veduta corta. Questo accorciarsi degli orizzonti temporali è l’effetto innanzitutto di un cambiamento tecnologico, dell’estrema riduzione dei tempi necessari per trasportare le persone da un capo all’altro del pianeta, per comunicare, per effettuare calcoli, per produrre. I tempi per tutte queste operazioni si sono tremendamente accorciati, come se la scala temporale avesse mutato la propria dimensione. Questo avviene anche per i mercati finanziari, nei quali oggi, grazie ai processi informatici, si svolgono operazioni di compravendita che si concludono in tempi di gran lunga inferiori al secondo, nell’ordine dei nanosecondi. Ma la veduta corta riguarda, oggi, anche la politica. Sempre più la legittimità dei governi tende ad essere valutata in base ai risultati dei sondaggi; e se un’azione di governo dà normalmente i suoi frutti nel giro di qualche anno, in un periodo di medio o lungo termine, questo accorciamento degli orizzonti temporali rende estremamente difficile condurre un intervento sull’arco di tempo necessario per valutarne adeguatamente i frutti. Assistiamo dunque all’accorciarsi dell’orizzonte temporale dell’operatore economico, dell’operatore politico, del singolo individuo o della singola famiglia che sceglie di investire in consumi piuttosto che di risparmiare. Questo elemento dello sguardo corto va forse considerato come il più importante, nonché quello sul quale la riflessione economica, politica, istituzionale e giuridica è più necessaria.
In questo senso, la Costituzione rappresenta un antidoto alla veduta corta: essa infatti obbliga chi governa a preservare oggi i diritti di chi governerà domani. Se interpretiamo correttamente la Costituzione, essa ci dovrebbe impedire di deprivare le generazioni future dei loro diritti, rispetto ad un assetto attuale – basti pensare al sistema pensionistico e all’ingente debito pubblico – che tende nettamente a penalizzarli, incarnando così perfettamente la logica della veduta corta.
Se questa è la situazione, pare evidente che per uscire dalla crisi è necessario che il mercato torni ad essere soggetto a regole, ad accettare una disciplina che esso non può darsi da solo, ma che deve ricevere dalla legislazione, dalle autorità di controllo. È necessario uno sforzo perché si creino forme di governo dell’economia mondiale, paragonabili a quelle che storicamente si sono formate all’interno dei vari Paesi. Oggi si verifica infatti questo paradosso, per cui è il mercato che contiene i governi, e non un governo che contiene il mercato: ma è ormai chiaro che l’economia, lasciata a se stessa e priva di regole, può generare fenomeni di grave instabilità.
Bisogna quindi operare perché in Europa e nel mondo si rafforzino le istituzioni sovranazionali di governo dell’economia, come l’Organizzazione mondiale del commercio, il Fondo monetario internazionale, per dare all’economia mondiale le infrastrutture di governo senza le quali si rischia di dar vita a uno sviluppo completamente sregolato. Il problema, più precisamente, è di ripensare la crescita in maniera critica circa la sua configurazione attuale, evitando però una demonizzazione della crescita stessa in quanto tale. Infatti, bisogna considerare che nel mondo ci sono circa sette miliardi di persone, e si può schematicamente dire che un miliardo è ricco (Stati Uniti, Europa, Giappone), un miliardo è sull’orlo della morte per fame (Africa soprattutto, ma anche parti di Asia e America Latina) e cinque miliardi sono poveri. Non bisogna dimenticare la situazione delle popolazioni di continenti come l’Africa e l’Asia: allora, a proposito di crescita/decrescita, è troppo semplice affermare che non bisogna più crescere. Il problema, piuttosto, è chi e come deve crescere. Se crescita per i Paesi poveri significa, come nell’Italia nel dopoguerra, la possibilità per la popolazione di avere scarpe, vestiti adeguati, alimenti sufficienti, corrente elettrica, servizi igienici, è questa la crescita impetuosa e inarrestabile che sta avvenendo in Cina, in India, in Brasile; la crescita dell’Occidente in tempi recenti, invece, è stata fatta con la sostituzione di questi beni indispensabili con altri più raffinati e superflui.
Questa crescita basata sullo spreco è anche estremamente fragile. Si tratta tuttavia di una questione delicata, poiché è anche vero che una riduzione dei consumi superflui significherebbe una crisi di chi lavora per produrli, che spesso è appunto un lavoratore appartenente ai Paesi poveri. Il problema, dunque, è complesso e richiede un delicato equilibrio tra la crescita di alcuni, che ne hanno vitale bisogno, e la decrescita progressiva di altri. I livelli sempre crescenti di consumo di energia, ed il progressivo deterioramento delle condizioni climatiche, rendono comunque oggi evidente che una crescita indifferenziata non è più sostenibile sotto un profilo ambientale. Questo conferma l’esigenza di una crescita differenziata, che consenta uno sviluppo dei Paesi poveri parallelamente ad un ’rallentamento’ dei Paesi ricchi. Non è possibile incamminarsi spontaneamente su questo percorso di fuoriuscita dalla crisi e di orientamento verso una crescita sostenibile, attraverso i semplici sviluppi del mercato: si avverte perciò l’urgente esigenza di una qualche forma di governo da parte della politica, che guidi e indirizzi tali processi.