Domenico Quirico, La Stampa 4/4/2011, 4 aprile 2011
Un giorno Beji Caid Essebsi avrà forse diritto a una statua nel centro di Tunisi: come l’uomo che ha saputo trasformare una rivoluzione pacifica in una democrazia pacifica
Un giorno Beji Caid Essebsi avrà forse diritto a una statua nel centro di Tunisi: come l’uomo che ha saputo trasformare una rivoluzione pacifica in una democrazia pacifica. Un giorno, forse. Le rivoluzioni sono impazienti, bruciano e divorano i loro eroi. Per ora il primo ministro che stamani incontrerà Berlusconi ha soltanto i guai del potere; anzi, di un potere dimezzato. Perché a ogni passo, tutti compresi i suoi estimatori (che non sono pochi e tra questi Souahayr Belhassen presidente della federazione dei diritti dell’uomo che gli attribuisce l’autorità e l’energia di un politico unite a qualità di fine diplomatico), tutti, aggiungono il libellistico appellativo: premier ad interim. Una menomazione. Il suo mandato è portare il Paese alle elezioni del 24 luglio. E sarebbe già quasi un miracolo. Bisogna saper camminare sui tizzoni per far politica ad interim, lavorare in un clima badogliano, in testa a una rivoluzione che non ha promosso e che forse non ha del tutto approvato nei suoi sviluppi, zeppa di ragionevoli e di scalmanati. E poi è anziano, 84 anni, legato a un tempo, quello del padre della patria Bourguiba, che solo le ere successive hanno trasformato in una età dell’oro. Si era ritirato dalla vita politica nel 1994, dopo aver convissuto solo sette anni con Ben Ali e il suo vitalismo corrotto e corruttore. E’ la sua medaglia rivoluzionaria, per cui l’hanno scelto. Coraggio modesto, ma pochi l’hanno avuto. In un Paese il cui guaio maggiore è di non disporre di una classe dirigente di ricambio. Le élites sono formate da cortigianelli di palazzo che hanno banchettato profittevolmente con il tiranno e il suo clan mafioso in viscida pinguedine. L’uomo non è popolare (e lo sa e ne soffre) tra i giovani di piazza della kasbah, quelli che hanno la pratica di massa del ribellismo e sorvegliano sospettosi e con ragione gli sviluppi della rivoluzione. Per il loro diciannovismo sfronzolato «non si può fare del nuovo con il vecchio». E Essebsi è vecchio. Il suo problema maggiore è smussare la confusione istituzionale. Perché ci sono già quaranta rissosissimi partiti, che vanno dagli islamici di «ennahda» fino a formazioni dall’andazzo comunisteggiante e ai moderati che chiedono alla democrazia solo la garanzia dei propri averi e del proprio comodo. Per venti anni i tunisini hanno votato, forzatamente o volontariamente, per il partito di Ben Ali: al novanta per cento. Ora bisogna in tre mesi conquistarne i voti. E poi c’è un partito in più, il sindacato Ugtt, asservito al potere durante il regime come il suo leader Jrad ma che ha saputo sveltamente salire sul carro dei tempi nuovi. E che detesta il premier. Non è difficile capire perché l’Alta commissione per lo scrutinio che dovrebbe tecnicamente preparare le elezioni avanzi a fatica tra aggiornamenti e polemiche. Mentre nelle strade i radicali islamici iniziano a far massa con i loro strilli per santificare il Paese. Le frange vogliose di esperienze governative più forti non mancano. Accusano il premier di non dare la caccia ai vecchi notabili e ai complici di Ben Ali. Ogni mattina una lunga coda si forma in avenue Kheirredine Pascià, davanti allo squinternato edificio che ospita gli uffici della Commissione di investigazione sulla corruzione. Ci sono già 5000 dossier, pratiche di casi vecchi di dieci-venti anni: case e terreni espropriati dal clan del Presidente per la cifra di un dinaro, appalti truccati, multe colossali, conti per lavori eseguiti e non pagati se non con la minaccia della prigione, un colossale racket di Stato che innesca odi catilinari. Ma il vero incubo di Essebsi e del suo governo di tecnocrati sono i conti economici. Settecentomila disoccupati, solo a causa della guerra di Libia alla frontiera la Tunisia ha perso due milioni di dinari (un miliardo e mezzo di euro). Nel turismo si prevede un calo del trenta-quaranta per cento ed è un settore che costituisce il sei per cento del Pil. Il governo ha concesso aumenti salariali del dieci per cento. Ma di fronte a un clima sociale esasperato e un salario minimo che è di 200 euro è come spegnere un incendio con un secchio. Quello che spaventa di più l’economista Mahmoud Ben Romdhane è il baratro tra le attese della gente e le possibilità del Paese di soddisfarle: «Caduto il regime si vuole tutto e subito, per loro non c’è compromesso possibile. Ma ad esempio il problema dei laureati disoccupati si potrà risolvere forse tra 4-5 anni». A giugno altri ottantamila si aggiungeranno alle liste dei senza impiego. Tanti quanti i giovani che l’Italia vorrebbe rispedire a casa.