Rita Sala, Il Messaggero 3/4/2011, 3 aprile 2011
MUTI: TUTTO VERDI PER ROMA
Chicago lo aspettava e lui è tornato. Giovedì 7 aprile, sul podio della Chicago Sypmhony Orchestra, di cui è direttore musicale, Riccardo Muti dirigerà l’Otello di Verdi in forma di concerto. Orario “americano”, le 19, e un cast che vede il tenore Aleksandrs Antonenko nel ruolo del titolo e il soprano Krassimira Stoyanova in quello di Desdemona. Iago doveva essere il baritono Nicola Alaimo, che ha rinunciato per un’indisposizione.
Lo rimpiazza Carlo Guelfi, al quale il maestro sta chiedendo, in prova, il “suono muto” che Verdi comanda al traditore dell’amicizia, «così ambiguo, così serpentino».
L’orchestra, la città di Obama, hanno accolto Muti con infinita allegria. Brindisi, acclamazioni, il lavoro che fluisce a meraviglia, ora dopo ora, sulla spinta del ritrovato connunbio con l’artista italiano. I professori della Cso sono felici di averlo di nuovo con loro, e in perfetta forma - il New York Times ha appena definito Muti “una dinamo” -, dopo il collasso del febbraio scorso e un paio di interventi chirurgici, il primo per ricomporre le fratture al volto subite cadendo dal podio (sul volto, neanche l’ombra di un segno), il secondo per l’impianto cautelativo di un pace maker (entrerebbe in funzione qualora necessario a un cuore peraltro definito dai medici “in superbe condizioni”).
La stampa Usa esalta, di Muti, il trionfale Nabucco appena diretto all’Opera di Roma, durante la convalescenza, e le dichiarazioni, esplicite ed efficaci, fatte in favore del ripristino dei fondi per l’arte e la cultura, in teatro come nell’aula di Montecitorio, prima e dopo il concerto per i 150 anni dell’Unità del Paese.
Maestro, a Roma è ancora forte l’emozione del “Nabucco”, ancora presente l’eco del suo parlare a favore della Cultura. Lei sta per diventare, fra l’altro, cittadino onorario di Roma Capitale.
«Un ponte congiunge ormai i nostri complessi romani, orchestra e coro dell’Opera, che hanno suonato e cantato meravigliosamente durante il Nabucco, opera del Verdi giovane, con la Chicago Symphony e questo “Otello”, opera dell’ultimo Verdi. Penso con affetto al bel periodo che ho trascorso a Roma, al lavoro svolto, agli ottimi risultati. Fra le due istituzioni si è davvero creato un legame destinato a continuare».
Brindando con l’orchestra romana, la sera della recita conclusiva del “Nabucco”, lei ha confermato ai professori la prossima apertura di stagione con il “Macbeth” di Verdi...
«Vorrei fare il Macbeth, certo. Ma penso, nel tempo, anche ad altri titoli, l’Attila, e un’opera di Verdi che non ho mai diretto, il Simon Boccanegra».
Verdi. Un magnifico amore. Che con Otello, Macbeth, Falstaff, coopta anche Shakespeare.
«Verdi fu un grande lettore e ammiratore di Shakespeare, benché lo conoscesse in traduzione italiana. Il suo legame con la teatralità shakesperiana è profondo, come profonda risulta l’analisi che fa dei personaggi del drammaturgo elisabettiano. Prendiamo l’Otello, cioè il Verdi maturo. Sto mettendo a punto con Guelfi, che fa Iago, l’interpretazione che il compositore, non solo attraverso la musica, ma con aggettivi specifici, precisissimi, richiede al traditore dell’amicizia, musicalmente ritratto in modo spietato. La “voce parlata”, soffocata, con la quale Iago deve cantare riproduce i colori lividi ed aspri del suo animo, l’ambiguità delle sue emozioni. Parlando invece del Moro e di Desdemona, anche il duetto d’amore alla fine del primo atto, Già nella notte densa, è un capolavoro di drammaturgia. Il guerriero indugia sull’amore, lo distilla, lo vive dentro di sé ancor prima di farlo, mentre l’invito della donna, Tarda è la notte, sembra chiamare l’amante al talamo in modo più diretto, affrettando i tempi. Verdi non si sovrappone mai ai suoi personaggi, vi si affianca, come fa qui con Otello, glorioso, ancora forte, ma non più giovane, per questo capace di assaporare l’eros in modo sottile e nello stesso tempo intenso, pieno; capace, prima dell’abbraccio, di indugiare un attimo nella pietà, nei ricordi, nella nostalgia che l’età matura sa evocare. Che differenza, con il Verdi nel fiore degli anni del Ballo in maschera. Riccardo, nell’orrido campo, incontra Amelia e le dichiara il suo amore ardentemente: in un accordo di nona c’è l’espressione di tutto un mondo d’immensa sensualità e di vigore. Il cerchio dell’amore e della vita si chiude poi con Falstaff. Nel capolavoro finale, Verdi rivive l’amore come nella prima giovinezza, cioè con fuoco e candore. Fenton ama Nanetta, Verdi torna ragazzo. Ed è così che accade, nella vita di tutti noi».
Gli aggettivi di Verdi. Che con le parole dettano quella che lei chiama “terminologia della dinamica verdiana”.
«Frequentando Boito, Verdi seppe godere della giovinezza degli Scapigliati. La loro vicinanza contribuì a mantenere viva la sua immaginazione, la sua ricerca artistica. Per rimanere agli aggettivi, pensiamo al “frizzante” riferito ai corni nella Messa di Requiem: non allude certo, per fare una boutade, all’acqua minerale. Vallo a spiegare ad un’orchestra nel modo giusto».
Lei ha sempre additato Verdi come un artista ancora da scoprire.
«Verdi non è l’autore del cuore in mano o degli acuti fini a se stessi. Va ristudiato completamente, spogliato di tante tradizioni abominevoli. Ha coperto, vivendo, un secolo di storia, e dalla sua unica, robusta radice ha fatto germogliare, accompagnando quella storia, tanti rami diversi. Insomma, in poco meno di cent’anni ha annunciato al mondo il futuro. Basterebbe, per capirlo, renderci conto della sua potenza evocativa. Prendiamo l’Aida. La musica verdiana costruisce materialmente mondi esotici, una terra lontana che il compositore non aveva mai visto, e li innerva di profumi. I profumi d’Oriente dell’Aida arrivano alle narici, inebriano, sono molecole che si impadroniscono davvero dei sensi e del cervello».
«Sono proprio io» ha detto ai professori della Chicago Symphony salendo sul podio della prima sessione di prove dell’Otello, quattro giorni fa. Entusiasmo e risate dei musicisti. Come coniuga, maestro, il sense of humour con la poesia, la battuta salace con il culto dello spirito, il lavoro con il pensiero?
«Sono nato a Napoli, da madre partenopea e padre pugliese, s’è detto mille volte. Mi hanno educato alla disciplina e allo studio, ma anche alla capacità di far rendere al massimo la famosa miscela cuore-cervello. Non calcolo mai, né mai sono teatrale per scelta. Dirigere è per me naturale. C’è una tecnica, è ovvio. Ma nessun effetto è mai preordinato. Tant’è che, riprodotto, non mi piaccio mai, in fotografia non voglio mai rivedermi. In passato, quando ero giovane, posso anche aver avuto atteggiamenti vistosi, dovuti all’esuberanza dell’età. Oggi no. Da un pezzo è la musica e basta. A volte penso a me stesso come a un uomo dalla doppia vita. Dentro sono rimasto un ragazzo, con l’amore dell’esistenza e la capacità di goderne che mi vengono dalle radici; fuori sono calibrato da canoni classici. Nella musica vivo la sintesi di queste due dimensioni, le contraddizioni di un misurato pugliese con il cuore napoletano».
Riccardo Muti. «Vorrei un momento di silenzio ha detto alla fine di ogni esecuzione, per ripercorrere in un istante quello che ho appena fatto. Per riabituarmi a me. C’è sempre quell’attimo in cui ci si sente intrusi a sé stessi, anche se si sospetta il trionfo».
Rita Sala