Sergio Romano, Corriere della Sera 4/4/2011, 4 aprile 2011
Alcuni anni fa si fece un gran parlare di un non meglio identificato «tesoretto» . Si trattava, se non ricordo male, di somme dedicate ad opere di pubblica necessità che si ritenevano già spese e che erano invece ancora disponibili
Alcuni anni fa si fece un gran parlare di un non meglio identificato «tesoretto» . Si trattava, se non ricordo male, di somme dedicate ad opere di pubblica necessità che si ritenevano già spese e che erano invece ancora disponibili. L’importo complessivo era comunque relativamente modesto, dell’ordine di poche centinaia di milioni. Ora ci troviamo davanti ad una situazione analoga. L’interruzione dei rapporti con la Libia ha di fatto comportato l’annullamento dell’accordo che prevedeva ingenti spese a carico dell’Italia, tra le quali la costruzione di un’autostrada lunga 1.800 km. E questo accordo ha una rilevanza economica ben più consistente, dell’ordine di cinque miliardi di euro scaglionati su più anni. Ci troviamo quindi tra le mani non un semplice «tesoretto» , bensì un vero e proprio «tesorone». È possibile conoscere se il governo ha già sviluppato un’ipotesi sul come utilizzare questi fondi? Gian Emilio Terranova gianemilio. terranova@virgilio. it Caro Terranova, I l «tesoretto» a cui lei si riferisce è quello che apparve nei conti dello Stato alla fine del 2006, durante i primi mesi del governo Prodi. Fu il risultato di un imprevisto aumento del gettito fiscale e dette una boccata d’ossigeno alla Finanziaria dell’anno successivo. Oggi potremmo parlare di un provvidenziale tesoro libico se il nostro accordo con Gheddafi dell’agosto del 2008 potesse considerarsi un onere per il bilancio dello Stato. A me sembra invece che l’espressione esatta, in questo caso, sia «lucro cessante» . Conviene ricordare anzitutto che la costruzione dell’autostrada è un impegno «bipartisan» . Come ricorda una ricercatrice di Oxford, Emanuela Paoletti, in un libro apparso recentemente («The Migration of Power and North-South Inequalities. The case of Italy and Libya» , la migrazione del potere e le ineguaglianze Nord-Sud. Il caso dell’Italia e della Libia, ed. Palgrave Macmillan), l’impegno fu preso dal secondo governo Berlusconi, ma confermato da Romano Prodi e Massimo D’Alema nel 2007. Gli indennizzi previsti dal trattato di Bengasi dell’agosto 2008 (cinque miliardi di dollari su un periodo di venti anni) non provengono, in sostanza, dalle casse dello Stato, ma dall’Eni che ha accettato, per conservare in Libia una posizione dominante, di sobbarcarsi il carico di una imposta speciale. Non basta. Dopo la firma dell’accordo, la Libia si è servita del suo fondo sovrano per alcuni importanti investimenti italiani (Unicredit, Eni) e, come scrive Emanuela Paoletti, ha messo undici miliardi di euro a disposizione di aziende italiane che desideravano investire in Libia. I lavori per la costruzione dell’autostrada, in particolare, sarebbero stati appaltati in buona parte ad aziende italiane. Non dimentichi infine, caro Terranova, le clausole del trattato sulla collaborazione fra i due Paesi in materia d’immigrazione clandestina. Fu certamente giusto manifestare preoccupazione per il modo in cui la Libia trattava i clandestini respinti dall’Italia. Ma il numero degli arrivi irregolari provenienti dalle coste libiche è sceso, nel 2009, del 90%. Il Paese di Gheddafi è una delle principali rotte di transito per gli africani a sud del Sahara. Nei prossimi mesi il controllo dell’immigrazione clandestina senza la collaborazione libica sarà più difficile e costoso. Compiacersi della crisi del regime del colonnello è comprensibile. Pensare che questo avvenga senza molti inconvenienti per l’Italia, no. © RIPRODUZIONE RISERVATA