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 2011  aprile 02 Sabato calendario

DIVENTARE UNA PROVINCIA DEL BRASILE È L’UNICA SALVEZZA PER IL PORTOGALLO

La Stampa, sabato 2 aprile
Una «madrepatria» che trova rifugio tra le braccia di un «paese figlio» può sembrare un’aberrazione o uno scherzo. Non era però un pesce d’aprile anticipato la nota del Financial Times del 25 marzo che, tra il serio e il faceto, caldeggiava l’annessione del Portogallo da parte del Brasile: invece di far parte di un’Europa vecchia, stanca, avara e rancorosa nei suoi aiuti finanziari, Lisbona si troverebbe, secondo il quotidiano inglese, capitale di una grande provincia. Una grande provincia (10% del prodotto, 5% della popolazione) di un paese per il quale il suo debito, che oggi appare enorme, sarebbe di scarsa entità.
Il Brasile parla portoghese, fu colonia portoghese per circa trecento anni; in Portogallo i brasiliani si sentono (quasi) a casa e altrettanto si può dire dei portoghesi in Brasile. Dilma Roussef, dinamica presidente del Brasile, pochi giorni fa ha detto apertamente «possiamo aiutarvi». Si è ventilato l’acquisto da parte brasiliana di una quota del debito portoghese e dietro al relativo successo all’ultima asta portoghese qualcuno vede anche una corrente di acquisti brasiliani.
Non si tratta di una stravaganza. Una stretta intesa con il Brasile darebbe al Portogallo protezione da creditori esosi, mentre il Brasile troverebbe una collocazione a parte delle sue riserve valutarie. Il Portogallo va a caccia di capitali esteri, il Brasile deve difendersi dall’afflusso di capitali esteri poco graditi perché fanno salire il cambio della sua moneta, il real, riducendo le sue esportazioni. E un Portogallo “amico” a Bruxelles potrebbe determinare qualche apertura commerciale europea molto gradita ai brasiliani.
Quello brasiliano-portoghese non è certo l’unico caso di una storia che sembra andare al contrario. Non ne è immune la Gran Bretagna: la maggior banca britannica si chiama Hsbc, Hong Kong and Shanghai Banking Corporation: questo istituto ha acquistato quasi vent’anni fa la Midland Bank, storica banca britannica. Ha accettato di trasferire la sede a Londra, ma parte consistente del capitale è in mano cinese. Né va dimenticata la decisione di Tata, il colosso indiano, di acquistare dalla Ford – per 2,3 miliardi di dollari – le britanniche Jaguar e Land Rover; la nuova Jaguar indiana, piena di novità tecnologiche sarà presentata, magari con un qualche senso di rivincita, poco prima di Pasqua.
La Cina, dal canto suo, pur non essendo mai stata una colonia, ha problemi analoghi a quelli del Brasile: un forte afflusso di valuta estera per il quale cerca collocazioni alternative al debito pubblico americano. Ecco allora l’interesse cinese per il debito greco, magari con l’intento di fare del porto del Pireo una base per le esportazioni verso l’Europa. Anche l’Italia interessa a Pechino e una quota consistente del porto di Taranto è di proprietà di Hutchinson Whampoa, multinazionale di Hong Kong. Uno studio di tre economisti italiani (Pietrobelli, Rabellotti e Sanfilippo) documenta l’«effetto Marco Polo». Al contrario, naturalmente, con acquisizioni da parte cinese di piccole e medie imprese italiane. Del resto, le acquisizioni libiche di quote di società e banche italiane possono rientrare in questo capovolgimento: si è creata una comunanza di interessi probabilmente superiore a quella dei tempi della colonizzazione.
Questa situazione dovrebbe suonare come un potentissimo monito per l’Europa. L’Unione Europea, e in particolare l’Eurozona, non può illudersi di risolvere i propri problemi mentre il resto del mondo sta a guardare. In un generale rimescolamento di carte sono all’opera in Europa varie forze contrarie all’unità. Ciò richiede una strategia per definire unitariamente nuovi rapporti con Cina, Russia, Stati Uniti, e naturalmente anche Brasile, India e altri nuovi campioni. Strategia che, purtroppo, manca quasi del tutto, con i governi nazionali quasi tutti in difficoltà e tutti troppo occupati a cercar di risolvere i problemi di casa propria.
Mario Deaglio