Maurizio Ferraris, la Repubblica 3/4/2011, 3 aprile 2011
Per molti milanesi è quello dei panettoni, cioè dei grossi paracarri in cemento che a lungo hanno fatto parte del paesaggio, esprimendo del resto molto bene le sue idee di fondo, il tentativo di mettere insieme la funzionalità (i grossi blocchi servivano a delimitare degli spazi, ma potevano essere spostati, a seconda delle esigenze, e all´uopo erano dotati di un anello per agganciarli), un certo ascetismo (i blocchi erano di cemento, austerissimi), e una riconoscibilità formale (ricordavano appunto dei panettoni)
Per molti milanesi è quello dei panettoni, cioè dei grossi paracarri in cemento che a lungo hanno fatto parte del paesaggio, esprimendo del resto molto bene le sue idee di fondo, il tentativo di mettere insieme la funzionalità (i grossi blocchi servivano a delimitare degli spazi, ma potevano essere spostati, a seconda delle esigenze, e all´uopo erano dotati di un anello per agganciarli), un certo ascetismo (i blocchi erano di cemento, austerissimi), e una riconoscibilità formale (ricordavano appunto dei panettoni). Ma l´attività di Enzo Mari si ritrova in molti altri oggetti che sono entrati a far parte, se non del paesaggio, almeno dell´arredo di molti ambienti, come i calendari in legno, i cestini, i portadocumenti, le poltrone, i giochi per bambini. Mari spiega che alla base della sua progettazione c´è il desiderio di proporre delle forme indipendenti dalla moda, destinate a durare, facili da realizzare tecnicamente, e che portino con sé, quando è possibile, un po´ del fascino degli oggetti e degli ambienti industriali, come accade esemplarmente nel vassoio Putrella, fatto appunto con una putrella piegata ai bordi, che porta il cantiere nel salotto. Altri tempi, verrebbe da dire, visto che negli ultimi anni il fascino degli ambienti industriali si è molto appannato. Ma non la potenza estetica spontanea che hanno gli oggetti, e che il design di Mari cerca di portare in luce. Potrei sbagliarmi, ma, in questo "portare in luce", nello sforzo che richiede, c´è qualcosa che si pone all´antitesi di un grande mito istitutivo dell´arte del Novecento, Duchamp e il ready made. Nel caso di Duchamp, infatti, l´idea è che qualunque cosa, presa da un ambiente di produzione standardizzata - sia essa un orinatoio, uno scolabottiglie o una ruota di bicicletta - può essere un´opera d´arte, qualora riceva la benedizione di un mondo dell´arte che decreta che si tratta di un´opera. Nel caso di Mari assistiamo piuttosto a una ricerca che ha lo scopo di produrre un buon oggetto, attività per la quale, diversamente che nel caso dell´arte, non basta l´assenso di un critico e di un gallerista. Bisogna fare i conti con esigenze di funzionalità, di riproducibilità tecnica, di realizzabilità industriale. Di qui un paradosso su cui forse vale la pena di riflettere. Il senso comune contemporaneo è abituato, proprio in base all´esperienza del ready made, a considerare che qualunque cosa può essere un´opera d´arte. Ma al tempo stesso il design ci insegna quanto difficile sia produrre dei buoni oggetti, e che non è affatto vero che, per esempio, qualunque oggetto può essere un oggetto di design. Come risultato, se è vero che l´essere opera d´arte è, per un oggetto, qualcosa come una santificazione, mentre l´essere un oggetto di design è, per così dire, una promozione di rango minore, una sorta di beatificazione, si direbbe che nel Novecento sia stato più facile essere santi che beati.