Gianni Dragoni, Il Sole 24 Ore 1/4/2011, 1 aprile 2011
LA PARTITA ENI TRA LA LIBIA E IL «NODO» GAZPROM
Bei tempi andati, quelli in cui ogni anno aumentavano i profitti, la cedola per i soci e la quotazione in borsa. L’Eni distribuirà quest’anno, con gli utili del bilancio 2010, circa 3.622 milioni di euro di dividendi. È la società italiana più ricca e più generosa verso gli azionisti, la prima per valore di Borsa. Il monte delle cedole, identico al 2009, è però in calo da qualche anno. Compreso l’acconto già versato, quest’anno il gruppo che produce petrolio e gas pagherà 1 euro per ogni azione. È un ricordo il dividendo record di 1,3 euro distribuito sia nel 2007 sia nel 2008, quando il monte dividendi superava i 4.700 milioni. E il bilancio 2006 regalò ai soci 1,25 euro, quello 2005 di 1,10.
La capitalizzazione di Borsa, che a fine 2004 era di 69,4 miliardi di euro, oggi è sullo stesso livello. Certo, ora il titolo sconta gli effetti del conflitto in Libia, dove l’Eni è il principale gruppo straniero e prima della rivolta traeva circa il 16% della sua produzione. Dal 22 febbraio scorso in Libia «la produzione di idrocarburi – si legge nel bilancio 2010 – si è ridotta dal livello atteso di circa 280mila boe (barili o equivalenti) al giorno a un livello attuale di circa 70-75mila boe/giorno di gas totalmente destinato alla produzione locale di energia elettrica». Gli effetti della situazione libica sui risultati economici «saranno in funzione del suo protrarsi nel tempo, al momento non prevedibile».
Ma la perdita di smalto nei conti del gruppo guidato da Paolo Scaroni precede la crisi nordafricana. Il bilancio 2004, l’ultimo firmato dal predecessore, Vittorio Mincato, dichiarava un utile netto di competenza di 7,06 miliardi. Nel 2005, l’anno del passaggio di consegne a fine maggio tra Mincato e Scaroni, l’utile netto è salito a 8,79 miliardi. Il 2010 dichiara un utile netto di 6,3 miliardi, in forte ripresa sul 2009 (+44,7%). Un risultato che è comunque inferiore del 10,5% al 2004 e del 28% al 2005, oltre che più basso dei profitti ottenuti dal 2006 al 2008 (il record nel 2007, 10 miliardi). Su questo andamento pesa anche la crisi economica mondiale, che ha avuto un impatto sui consumi. Ma poiché nel 2010 il prezzo medio del petrolio è stato più alto rispetto al 2004 e al 2005 (79,47 dollari al barile il Brent contro i 38,22 del 2004 e i 54,38 del 2005; anche in euro il 2010 ha un prezzo più alto) e la produzione è leggermente aumentata, l’utile avrebbe dovuto essere superiore. Invece i profitti del 2010 sono inferiori al 2004 e 2005. Capirne le cause è un esercizio complesso.
L’Eni è penalizzato dal crollo dei margini di raffinazione (nel 2010 pari in Europa a 2,66 dollari medi per barile contro 5,78 nel 2005 e 4,35 nel 2004). Ma a mordere i margini c’è anche il costo di acquisto del gas legato al prezzo del petrolio, i contratti di fornitura a lungo termine con la russa Gazprom, divenuti più onerosi rispetto ai prezzi di mercato. Sono i contratti «take or pay», sui quali c’è un alone di mistero, che copre anche i rapporti tra l’Eni e un certo milieu politico esterno e il Cremlino. Che costo hanno per il gruppo? Nel bilancio 2010 si legge che sul flusso di cassa netto da attività operative «in negativo ha inciso il pagamento di debiti verso i fornitori di gas per effetto dell’attivazione delle clausole take or pay prevista dai relativi contratti per 1.238 milioni di euro». Il gas e i rapporti con Gazprom sono uno dei nodi per la gestione del gruppo nei prossimi anni. A questo si aggiunge la sollecitazione del fondo americano Knight Vinke, azionista con l’1%, che è tornato a chiedere la cessione di Snam Rete Gas, la società proprietaria dei tubi per il trasporto del metano. Scaroni si è sempre opposto, ma di recente ha mostrato una disponibilità.
L’Eni ha aumentato i debiti finanziari netti a 26,12 miliardi a fine 2010 (erano 10,4 all’inizio dell’attuale gestione). La cessione di Snam potrebbe generare 7,3 miliardi di proventi e libererebbe il gruppo di circa 10 miliardi di debiti. Sul piano industriale, c’è un indebolimento delle riserve certe di idrocarburi (6,84 miliardi di boe a fine 2010), oggi inferiori a quelle trovate da Scaroni al suo arrivo (7,2 miliardi a fine 2004, 6,84 a fine 2005), nonostante il piccolo beneficio contabile derivante da una modifica dei criteri di conversione del gas in barili attuata l’anno scorso.