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 2011  marzo 27 Domenica calendario

LORENZETTO INTERVISTA EVA KLOTZ


Il Giornale, domenica 27 marzo 2011 -

La frase irrisoria pronunciata da una donna anziana, a voce alta affinché tutti possano udirla, echeggia come una fucilata in piazza Walther: «Ma allora parla anche con gli italiani!». È indirizzata a Eva Klotz, consigliera della Provincia autonoma di Bolzano, che si allontana in bicicletta dopo avermi salutato nella mia lingua. Non è che la figlia primogenita di Georg Klotz, «il martellatore della Val Passiria», si rifiuti di parlare in italiano: è che proprio non lo conosce. Non è la sua lingua, non lo sarà mai. Durante l’intervista ce la mette tutta per esprimersi in modo appropriato, ma ogni 30 secondi deve consultare il vocabolario di tedesco e cercarvi l’equivalente in italiano dei concetti che ha nella testa. Per descrivere la tragica «Notte dei fuochi», che suo padre fece divampare giusto mezzo secolo fa, dice: «Salirono in aria i tralicci».
Che poi non gli vada di parlare con gli italiani anche per altri motivi, è in parte comprensibile: «Lo vede quante auto del 113 e quanti agenti? Polizia e carabinieri ovunque! Se a Trento si fanno 500 controlli, a Bolzano diventano 800. Eppure qui ci sono meno abitanti e non c’è criminalità. Una dimostrazione di forza: lo Stato deve mostrare i muscoli. Quando ci fermano per un controllo, parlano solo italiano, per umiliarci, nonostante la legge li obblighi a esprimersi in tedesco. Decreto del 15 luglio 1988, numero 574, del presidente della Repubblica». Italiana. Ma «Süd Tirol ist nicht Italien!», il Sud Tirolo non è Italia, strillano manifesti e adesivi con i colori della bandiera austriaca nella sede del suo movimento politico Südtiroler Freiheit (Libertà sudtirolese). Le indicazioni telefoniche sull’indirizzo erano state conseguenti: «Noi siamo in Südtirolerstraße. Via Alto Adige, come dite voi». «Noi» sono loro. «Voi» siamo noi. Due mondi separati, che già dai pronomi non vogliono capirsi.
Poi, quando si finisce a parlare del loro santo laico, Andreas Hofer, il patriota che combatté contro le truppe napoleoniche e contro i bavaresi e morì fucilato dai francesi a Mantova nel 1810, al grido «Ah, come sparate male!» rivolto verso il plotone d’esecuzione che alla prima scarica lo aveva mancato, le parole lasciano il posto a una lingua sovranazionale, quella della musica. Non sapendo pronunciare in italiano le strofe dell’Andreas Hofer Lied, l’inno del Tirolo che comincia con «A Mantova in catene / l’Hofer fedele sta. / Schiera nemica viene, / a morte il condurrà» e finisce con «Poi grida: orsù, sparate. / Oh, come mal tirate. / Addio mio bel Tirol / Addio mio bel Tirol», Eva Klotz esclama: «Un momento, prego. Glielo cantiamo». Si avvicina con la sedia alla sorella minore Barbara, che le dà una mano come impiegata nella segreteria della Südtiroler Freiheit; le due Klotz arrivano quasi a sfiorarsi con la testa, si guardano negli occhi e intonano la struggente melodia, una da soprano, l’altra da contralto: «Zu Mantua in Banden / der treue Hofer war».
L’oste Andreas Hofer era nato nel 1767 a San Leonardo in Passiria, dove ancor oggi solo l’1,6% degli abitanti parla italiano. È lo stesso paesino d’origine di Georg Klotz, morto in Austria il 24 gennaio 1976 dopo quasi 15 anni di latitanza, e dei suoi sei figli, avuti dalla moglie Rosa Pöll, una maestra elementare oggi novantenne: Eva, Wolfram, Manfred, Judith, Barbara e Rosa, detta Rösi per non confonderla con la madre. Eva aveva 10 anni quando suo padre, un fabbro che s’era trasformato per amor patrio nel più pericoloso ricercato dell’Alto Adige, si diede alla macchia. I separatisti sudtirolesi del Befreiungsausschuss Südtirol (Fronte di liberazione del Sud Tirolo) avevano esordito con un primo attentato il 6 ottobre 1956 a Bolzano: una bomba collocata davanti alla porta dell’oratorio Don Bosco, che l’indomani avrebbe dovuto ospitare il congresso provinciale della Dc. Lo stillicidio di attentati contro caserme dell’«esercito d’occupazione italiano», tralicci dell’alta tensione, linee ferroviarie, cavalcavia e dighe proseguì in un drammatico crescendo, fino a culminare nella «Notte dei fuochi», quella fra l’11 e il 12 giugno 1961, quando si registrarono 37 attentati, almeno altrettanti furono sventati e Giovanni Postal, un coraggioso stradino di Salorno, rimase dilaniato mentre tentava di disinnescare una carica esplosiva piazzata sotto un traliccio. Quattro giorni dopo il ministro dell’Interno, Mario Scelba, decretò il coprifuoco dalle 9 di sera alle 5 di mattina in tutto l’Alto Adige. La «Notte dei fuochi» bruciò la poco onorevole carriera da terrorista di Georg Klotz, processato quattro volte, condannato in contumacia a complessivi 52 anni, 1 mese e 10 giorni di carcere che non scontò mai, e accese una guerriglia sempre più cruenta contro lo Stato italiano, proseguita fino al 1988 con 361 attentati che provocarono 21 morti e 57 feriti.
Eva Klotz s’è laureata in storia e filosofia a Innsbruck. Ha divorziato dal primo marito nel 1993 e sette anni dopo s’è risposata con Hans Bachmann, responsabile delle relazioni esterne di una banca. Ha insegnato tedesco, storia e geografia negli istituti superiori di Bressanone e Bolzano. Dal 1983 è in aspettativa, essendo la docenza incompatibile per legge con gli incarichi politici. Dal 1976 ha militato nella Südtiroler Heimatbund, di ispirazione nazionalista. Poi ha fondato l’Union für Südtirol, che ha abbandonato quattro anni fa per dar vita alla Südtiroler Freiheit. È stata consigliera comunale a Bolzano. Nella Provincia autonoma è la rappresentante dell’opposizione rieletta consecutivamente da più anni.
Il segno distintivo della Klotz è una treccia che assomiglia a una gomena. Ne va molto fiera, benché a ogni shampoo le porti via più di un’ora per essere asciugata, di preferenza al sole, stagione permettendo, visto che la titolare odia il phon. «Io mi riconosco in questa treccia, perché da sempre sono io con questa treccia, è parte integrante di me, appartiene alla mia identità». Infatti è rimasta intatta da quel giorno dell’agosto 1952 in cui suo padre decise di rapare a zero la figlia. «A un anno e due mesi avevo i capelli biondi e sottili, mentre lui voleva che mi crescessero bruni e forti». Il culto del genitore le ha sempre impedito di ricorrere alle cure del parrucchiere. Trascorsi 58 anni, se ne vedono i frutti: il gioiello tricologico, esibito sul petto, ha raggiunto quasi il metro di lunghezza. La treccia fu accorciata in via eccezionale una sola volta, di 20 centimetri, nel 1998, a beneficio del consigliere Ruggero Benussi, che si congedava dalla Provincia: «Un caro amico. Mi aveva fatto promettere che mi sarei privata di una ciocca dei miei capelli nel momento in cui avesse lasciato la politica. Mi parve doveroso donargliela». E qui viene fuori tutto il senso dell’onore della Klotz, perché il destinatario dell’inconsueto omaggio era, almeno sulla carta, uno dei suoi peggiori nemici, un ex repubblichino della X Mas, per anni esponente di primo piano prima del Msi e poi di An, strenuo difensore della presenza italiana in Alto Adige e di tutti quei simboli, a cominciare dall’odiato monumento alla Vittoria disegnato dall’architetto Marcello Piacentini e inaugurato dal regime fascista nel 1928, che il «martellatore della Val Passiria» avrebbe volentieri fatto saltare in aria con la dinamite e sua figlia con le parole.
Immagino che lei non si senta italiana.
«Io non sono italiana. Come posso sentirmi ciò che non sono? Non divento italiana perché ho la carta d’identità e il passaporto della vostra Repubblica. Sono una tirolese di madrelingua tedesca e di provenienza austriaca costretta a essere italiana».
Però oltre alla carta d’identità e al passaporto si tiene ben stretta anche la tessera del Servizio sanitario nazionale sormontata dal tricolore e dallo stellone, ha presente?
«Sono costretta ad avere anche quella. Mi sto battendo con tutti i mezzi legali perché questi documenti corrispondano a ciò che sento dentro. Vorrei che ci fosse armonia fra carta d’identità e sentimento nazionale».
Che cos’ha fatto il 17 marzo, 150° anniversario dell’Unità d’Italia?
«Potrà sembrarle strano, ma sono stata a Roma. Partita al mattino, tornata alla sera».
Una sfacchinata.
«Sì, anche perché il mio volo decollava da Verona. Per coerenza non uso mai l’aeroporto di Bolzano, che costa molto e serve a pochi. La tratta Roma-Bolzano se la paghino i politici della Südtiroler Volkspartei, del Pdl e del Pd».
Con quale spirito affronta una trasferta a Roma?
«Da ospite, da turista. Come se andassi a Toronto. O in India».
E quando torna a Bolzano che cosa prova?
«Terra mia, patria mia. Heimat».
Che cosa vuole per il Sud Tirolo?
«Un futuro senza Italia»
In che modo pensa di arrivarci?
«Con un referendum per l’autodeterminazione, come previsto dal Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato dall’Onu nel 1966 e ratificato dall’Italia nel 1977».
Il nuovo Stato come dovrebbe nascere?
«Il senatore a vita Francesco Cossiga nel 2008 aveva presentato un disegno di legge costituzionale per l’autodeterminazione del Sud Tirolo che prevedeva quattro possibilità: restare con l’Italia, andare con l’Austria, andare con la Germania, creare uno Stato sovrano indipendente. Qualora il popolo avesse deliberato di costituirsi in Stato indipendente o di chiedere l’annessione all’Austria o alla Germania, le forze armate italiane e la Guardia di finanza sarebbero state obbligate a lasciare entro 48 ore il territorio del Land Südtirol, così aveva immaginato Cossiga. Io sono per l’annessione allo Stato federato del Tirolo, quindi all’Austria, con capitale Innsbruck. Era il sogno di mio padre. Ma, per come stanno le cose, prevedo che si andrebbe al ballottaggio fra l’Italia e un Sud Tirolo indipendente. In tal caso, ovvio che opterei per il secondo».
È davvero convinta che i sudtirolesi avrebbero la forza economica per farcela da soli?
«Già otto anni fa la Camera di commercio di Bolzano elaborò un’indagine da cui risultava che il Sud Tirolo ha di che vivere in abbondanza con ciò che produce, a cominciare dall’energia elettrica, la nostra grande ricchezza: circa 6 miliardi di kilowattora l’anno, il doppio di quanta ce ne serve».
Mi sa che i bolzanini se la passano meglio stando con l’Italia.
«Non è vero. Nel 2009 l’Austria ha avuto un prodotto interno lordo pro capite di 38.567 dollari e figurava al 12° posto nella classifica del Pil mondiale, davanti a Canada, Regno Unito, Germania, Francia e Giappone. L’Italia era al 28° posto con 29.068 dollari pro capite. Nell’indice della competitività l’Austria è al 14° posto, l’Italia al 49°. Il debito pubblico in Italia è al 105%, in Austria al 62,5%. Un giovane informatico della Val Pusteria che lavorava nel Nord Tirolo, tornato nel Sud Tirolo per motivi di famiglia, mi spiegava che, a parità d’impiego, s’è ritrovato dalla sera alla mattina con 800 euro al mese in meno nella busta paga».
Ma è così sicura di vincerlo, questo referendum?
«No. Ma più aspettiamo e meno speranze abbiamo. Tre anni fa un sondaggio del Soffi institut di Innsbruck ha stabilito che su 500.000 abitanti del Sud Tirolo, di cui il 63% tedeschi, il 26% italiani, il 7% immigrati stranieri e il 4% ladini, il 55% del gruppo linguistico tedesco e ladino era per un futuro senza l’Italia, il 32% per uno Stato sovrano e il 23% per l’annessione all’Austria».
Peccato che Vienna non vi voglia. Si dice che vi consideri i terroni dell’Austria.
«Questa è una stupidaggine propagandistica messa in giro dai sudtirolesi ostili al cambiamento. Non esiste agli atti alcuna dichiarazione dei governi di Vienna e di Innsbruck contraria all’annessione del Sud Tirolo. Ho incontrato personalmente gli ultimi cinque ministri degli Esteri succedutisi in Austria e nessuno di loro mi ha mai manifestato contrarietà alla riunificazione del Tirolo. Semplicemente sono costretti a conformarsi alla linea della maggioranza politica dominante a Bolzano».
Leggi Südtiroler Volkspartei.
«Che non ne vuol sapere perché ha il potere di gestire il 90% delle tasse prelevate qui».
Per la verità a me risulta che l’Alto Adige riceva di ritorno dallo Stato italiano il 120%, quindi addirittura un quinto in più di quello che versate al fisco.
«No, è il 90%. Se poi lo Stato vuol metterci in conto anche quello che spende per il commissario del governo, per il questore, per le forze dell’ordine, a noi non interessa. Facciamo volentieri a meno di tutta questa gente, non abbiamo bisogno che vengano qui a insegnarci come si fanno le leggi o come si amministra. Ci basta l’insegnamento degli Asburgo, il cui esempio di buongoverno è ancora rimpianto nel Veneto e in Lombardia».
Semmai potrebbero essere i sudtirolesi a dare qualche ripetizione agli italiani.
«Questo non lo dico, perché non sono né colonialista né sciovinista. Ma Roma non c’imponga ciò che dobbiamo o non dobbiamo fare. Ci lasci liberi. Amministriamo male? Peggio per noi. Amministriamo bene? Meglio per tutti. Questo è il vero federalismo. Non quello della Lega, rappresentato da pochi atti di decentramento spacciati per una riforma epocale. Umberto Bossi non sa nemmeno di che cosa parla quando pronuncia la parola federalismo».
Credevo che fosse amica del Senatùr.
«Lo ero negli anni Ottanta, quando organizzava le riunioni per il vero federalismo. Da allora ho interrotto i rapporti».
Fu sua ospite al rito dell’ampolla sul Po.
«Sì, ma dal palco feci più volte così (muove il dito indice a tergicristallo, in segno di diniego, ndr), affinché fosse chiaro a tutti che il Sud Tirolo non poteva assolutamente essere incluso nella Padania, come il leader della Lega aveva proclamato. Né schiavi di Roma, né servi di Milano. Il nostro futuro lo decidiamo da soli. Non sei tu Bossi che devi venire a ordinarci di quale Stato far parte. L’unico vero amico che ho avuto nel Carroccio è stato Gianfranco Miglio».
Lo credo bene. Sosteneva che Georg Klotz «aveva delle buone ragioni» nello sbriciolare i tralicci col plastico.
«È stato il leghista più chiaro».
Che ricordi ha di suo padre?
«Belli. Era un umile artigiano che costruiva utensili da lavoro, ferrava i cavalli e segava la legna per l’inverno. In esilio a Innsbruck si guadagnò da vivere facendo il carbone per la Grassmayr, una fonderia di campane che esiste dal 1599. La sua lotta per il Tirolo libero cominciò sotto il fascismo, quando gli attentati contro l’integrità dello Stato contemplavano la condanna a morte, e proseguì anche dopo che l’articolo 241 del codice penale la convertì nell’ergastolo. Oggi, pur essendo punita con la reclusione non inferiore a 12 anni, noi siamo favorevoli a forme di lotta pacifiche, non violente».
Che cosa ricorda della «Notte dei fuochi» di 50 anni fa?
«Mio padre fu il primo a essere arrestato. Lo tenevano d’occhio da tempo perché aveva fondato una compagnia di Schützen, tiratori scelti, odiatissimi dagli italiani nonostante in piena guerra fredda ci fosse un preciso interesse degli Stati Uniti a radicare sul territorio gruppi di tradizionalisti cattolici pronti a combattere contro un’eventuale invasione sovietica. Lo tennero per quattro giorni e quattro notti nel carcere di Merano, senza mangiare, senza bere, senza dormire, sottoposto a continui interrogatori. Fu rilasciato per mancanza di prove. Quando tornò a casa, mia madre stentò a riconoscerlo. Le disse: “Va’ ad avvertire gli altri patrioti di non farsi catturare, perché non potrebbero sopravvivere a una simile prova”. Poi si mise a letto e dormì per due giorni. La mamma andò a mettere in guardia tutti gli Schützen. A piedi, paese per paese: non si fidava neppure delle corriere».
Se non c’erano prove contro di lui, perché decise di fuggire senza nemmeno salutare i suoi figli?
«Passate tre settimane, era venuto a sapere che sarebbero tornati a riprenderlo. E infatti pochi giorni dopo arrivarono con i cani e gli elicotteri. Ma lui non si fece più catturare, né da vivo né da morto. I servizi segreti italiani ricorsero allora a Christian Kerbler, un infiltrato che sparò a mio padre e al suo compagno Luis Amplatz, mentre stavano dormendo in un fienile a Saltaus, nella Val Passiria. Amplatz restò ucciso. Papà fu raggiunto da tre colpi, uno dei quali gli trapassò il petto da un’ascella all’altra. Ciononostante riuscì a scavalcare le Alpi, camminando per 6 ore senza scarpe e per altre 36 attraverso i ghiacciai, fino a raggiungere Sölden, in Austria, trascinando il proprio corpo ferito, sospinto solo dalla forza di volontà. Noi fratelli abbiamo provato qualche anno fa a ripetere lo stesso percorso: al quarto giorno di cammino ci siamo dovuti arrendere».
Come fa a dire che Kerbler, catturato dopo il delitto ma fuggito in circostanze misteriose, lavorava per i servizi segreti?
«Prove non ne ho. Constato solo che nel 1964 disponeva di una macchina fotografica dotata di ricetrasmittente e che nel 1992 il pubblico ministero Cuno Tarfusser chiese il rinvio a giudizio di un generale dei carabinieri e di un funzionario di polizia per concorso nell’omicidio volontario di Amplatz». (La richiesta fu archiviata dal giudice Edoardo Mori. Due anni dopo il pm Tarfusser sposò Gerda Amplatz, figlia dell’irredentista altoatesino, ndr).
In tutta coscienza, mi dica: di quali colpe pensa che si sia macchiato suo padre?
«Fece saltare una trentina di tralicci. Rispose al fuoco della Guardia di finanza e ferì a una spalla un ufficiale per sfuggire a una trappola che gli era stata tesa nella nebbia. Nient’altro».
Resta la responsabilità morale. Dalla «Notte dei fuochi» si arrivò, sei anni dopo, alla strage di Cima Vallona, che costò la vita al capitano dei carabinieri Francesco Gentile, al sottotenente dell’esercito Mario Di Lecce, al sergente paracadutista Olivo Dordi e all’alpino Armando Piva.
«I terroristi cercano di provocare il maggior numero di vittime innocenti. I patrioti del Sud Tirolo non lo fecero mai. Erano combattenti per la libertà che avevano prestato un solenne giuramento: non colpire le persone, soltanto le cose. E comunque su quell’eccidio bisognerebbe indagare ancora».
Perché?
«L’ipotesi più probabile è che il terreno fosse stato minato per impedire gli attentati ai tralicci. A farne le spese furono alcuni militari tenuti all’oscuro di questa circostanza. Non a caso le prime notizie diffuse dall’Ansa il 26 giugno 1967 parlavano di un incidente».
Il desiderio d’indipendenza secondo lei giustifica gli attentati e la violenza?
«Il vostro Risorgimento che cos’è stato? Negli anni Sessanta un promemoria dei vescovi tedeschi, basato sulle fonti cristiane a cominciare da Sant’Agostino, ricordava che quando un intero popolo viene vessato, allora anche la violenza diventa legittima contro il dittatore. Gheddafi docet».
Ecco, appunto, se il Sud Tirolo fosse indipendente, lei come si comporterebbe col colonnello libico?
«Oh, sicuramente appoggerei la missione dell’Onu e dell’Unione europea. Farei di tutto perché il despota non soffochi il suo popolo. Avrei il diritto naturale dalla mia, nell’abbattere il tiranno. Esauriti i mezzi legali, anche mio padre non ebbe scelta. Senza la sua lotta, gli italiani avrebbero cancellato i sudtirolesi. Il lavoro qui veniva dato per il 90% agli immigrati provenienti dal vostro Mezzogiorno. Il vero terrorista era lo Stato italiano, che voleva la pulizia etnica. Ci avrebbe costretto a emigrare tutti».
Quando vide suo padre per l’ultima volta?
«In Austria, dieci giorni prima che morisse, stroncato da un’embolia polmonare durante una riunione politica a Telfes».
Che insegnamento le ha lasciato?
«Male non fare, paura non avere. Questa fu la sua lezione: lotta per le tue idee, mai contro le persone. Me lo scrisse sulla prima pagina di un quaderno di poesia. Lasciai tutti gli altri fogli in bianco, per rispetto. Ma le forze dell’ordine italiane me lo sequestrarono nel corso di una delle tante perquisizioni. Non l’ho più riavuto indietro. Non potendo catturare mio padre, hanno infierito sulla sua famiglia».
In che modo?
«Nostra madre fu tenuta in carcere per 14 mesi e 10 giorni, prima a Bolzano e poi a Trento. Entrò che era in ottima salute, ne uscì uno straccio. Durante un interrogatorio le puntarono negli occhi per ore una luce accecante, fino a farle quasi perdere la vista. Noi fratellini fummo separati e affidati a parenti o istituti. Io finii nel convitto delle Dame inglesi a Merano. A 15 anni venni a mia volta interrogata in questura dalle 9 di mattina alle 9 di sera, priva di qualsiasi diritto, trattenuta senza prove. Non si sono mai scusati».
Quanti processi ha subìto?
«Cinque. Ne resta in piedi uno per vilipendio del tricolore. Aveva fatto stampare un manifesto con una scopa che spazza via il verde dalla bandiera italiana».
Come sono attualmente i rapporti fra maggioranza di lingua tedesca e minoranza italiana in Alto Adige?
«Molto diversificati. A Bolzano comandano i fascisti, la loro presenza è invasiva. A Merano e a Brunico, dove gli italiani hanno da tempo rinunciato all’imperialismo, i rapporti sono più civili».
A Bolzano i fascisti leggono l’Alto Adige, quotidiano del gruppo Espresso? Non mi tornano i conti.
«È questa l’ambiguità di fondo. Si proclamano di sinistra, ma sull’italianità del Sud Tirolo fanno causa comune con i fascisti. Siamo arrivati al punto che l’ex senatore comunista Lionello Bertoldi, presidente dell’Associazione nazionale partigiani di Bolzano, difende i monumenti eretti da Benito Mussolini».
Di quello alla Vittoria lei che cosa vorrebbe fare?
«“Il monumento alla Vittoria è una spina nel cuore di Bolzano. Mai, in tempo di pace, l’Austria degli Asburgo portò una simile offesa alle popolazioni italiane del Trentino”. Parole di Livia Battisti, figlia di Cesare Battisti, l’eroe del vostro irredentismo, al quale il monumento doveva essere originariamente intitolato. Lo considero una bugia scolpita nel marmo, la materializzazione di una violenza culturale, un’offesa per noi autoctoni. Perciò vorrei smontarlo in tanti blocchi, metterne alcuni in un museo dei nazionalismi e il resto gettarli via, trasformando quel terreno in un parco della convivenza dove possano giocare insieme i bambini italiani, ladini, sudtirolesi e immigrati».
Molto bello. Però di un ristorante storico del centro di Bolzano sulla guida Michelin leggo questo giudizio: «Se non siete del luogo evitate di presentarvi per l’ora di pranzo. La simpatica location è tutta per i lavoratori di Bolzano che parlando in lingua locale vengono accolti ai tavoli a loro perennemente riservati. Gli altri aspettino pure... A tale eccentrica modalità di ricevere il viandante si aggiunge il differente trattamento che viene poi riservato agli “stranieri”».
«Questo mi dispiace molto. Non è giusto».
«Non credo che un’umiliazione subita dai vostri nonni e bisnonni possa giustificare una specie di legge del taglione contro gli italiani che vivono nella sua provincia da due o tre generazioni e sono ormai, non meno di lei, bolzanini», le ha ricordato Sergio Romano.
«Ma io che posso farci se dopo 66 anni ancora si comportano da fascisti? L’hanno chiamato Alto Adige per nascondere l’unica denominazione possibile: Sud Tirolo. Un falso storico e un falso in atto pubblico».
I fascisti, come li chiama lei, la maltrattano?
«No, mi rispettano, perché vedono che sostengo con sincerità, a viso aperto, i miei ideali e che sarei disposta a vivere solo di patate e latte pur di non rinunciare alla mia libertà»
Nella sua avversione per tutto ciò che è italiano dimentica che 689.000 soldati morirono e Cesare Battisti si fece impiccare dagli austriaci per far ritornare all’Italia il Trentino Alto Adige.
«Che significa “far ritornare”? Il ritorno poteva riguardare al massimo il Trentino. Ma noi siamo sempre stati germanofoni. Quindi l’irredentismo avrebbe dovuto fermarsi al confine di Salorno, come scrisse lo stesso Battisti a Gaetano Salvemini. Nell’aprile del 1915 l’imperatore Francesco Giuseppe avrebbe restituito il Trentino al Regno d’Italia senza spargimento di sangue. Invece in quello stesso mese l’Italia preferì siglare segretamente il Patto di Londra con Gran Bretagna, Francia e Russia per garantirsi anche l’annessione del Sud Tirolo alla fine della prima guerra mondiale. Per questo sono morti i 689.000 soldati italiani».
Se tutti i sudtirolesi fossero ferventi patrioti, il suo partito dovrebbe raccogliere il 48% dei voti, come la Südtiroler Volkspartei. Invece non va oltre il 5%.
«La Svp fa tanti favori a tanta gente».
L’ha definita «una mangiatoia».
«Distribuisce posti di lavoro, contributi, licenze, incarichi e soprattutto seggi: a Roma, nella Provincia autonoma, nei consigli d’amministrazione, nei Comuni. Sessant’anni di governo assoluto in un territorio molto piccolo creano una solida rete di dipendenze».
Quali sono i suoi rapporti con Luis Durnwalder, leader della Svp e presidente della Provincia autonoma di Bolzano?
«Normali, di reciproco rispetto fra avversari. Lo giudico un grande affarista».
Perché non s’è mai fidata della Südtiroler Volkspartei?
«Perché ho imparato da mio padre che non è affatto un partito di idealisti. Non lo sono mai stati. Il venerato capo carismatico Silvius Magnago non difese i detenuti politici. Anzi, lavorò sempre contro i patrioti, li diffamò. Prova ne sia che otto di loro sono ancor oggi costretti a vivere da latitanti fra Austria e Germania. L’ultimo che è tornato a casa fu Heinrich Oberlechner nel 2006. Chiuso in una bara per essere sepolto a Sand in Taufers (Campo Tures, ndr)».
La accusano di simpatizzare per i neonazisti.
«Una calunnia che torna ciclicamente quando non trovano altro da ridire. La mia vita trasparente parla per me. Se la politica di Adolf Hitler avesse avuto successo, il Sud Tirolo non esisterebbe più da un bel pezzo. Perciò come potrei essere nazista?».
Erich Dissertori, ex consigliere comunale della sua Union für Südtirol, intercettato al telefono, diceva ad Andreas Sölva, indagato per istigazione all’odio razziale insieme ad altri 40: «Vedo volentieri le croci uncinate».
«Anche per questo ho lasciato l’Union für Südtirol e ho fondato la Südtiroler Freiheit».
Insomma, mi faccia capire, la Südtiroler Freiheit è di destra o di sinistra?
«Ideologie, tattiche, strategie partitiche non c’interessano, non ci riguardano. Abbiamo obiettivi che stanno al di sopra di questi bassi ragionamenti».
Chi è l’italiano che stima di più?
«Oh, dovrei pensarci molto. Lasciamo perdere». (Ci pensa). «Forse Peppo Grillo».
Il peggior presidente della Repubblica?
«Mah! Chi era quello in carica nel 1961 che diede carta libera al ministro Scelba per far torturare i patrioti sudtirolesi?».
Giovanni Gronchi?
«Lui».
In che cosa crede Eva Klotz?
«In quello che mi hanno insegnato i miei genitori e in Dio».
Non nel Papa tedesco?
«Non del tutto. Un pontefice non è il surrogato di Dio. Seguo i dieci comandamenti, che stanno al di sopra di ciascuno di noi. E i comandamenti della mia coscienza».
È vero che pratica il nudismo in Corsica?
«Dal 1983. Mi ci convertì il mio primo marito. Era lui il naturista. Il mio secondo marito lo è diventato grazie a me».
Ho letto che ai suoi sostenitori promise che non avrebbe mai sposato un italiano.
«Ma non per discriminazione: solo come esempio per la sopravvivenza del popolo sudtirolese. Un po’ come fanno gli ebrei».
Però non ha voluto avere figli.
«Non li ho cercati e non sono venuti. Si vede che il compito della mia vita era un altro. Destino. O provvidenza, chissà».
Per l’immigrazione extracomunitaria che regole detterebbe nel Sud Tirolo?
«Controllerei bene chi far entrare. Gli darei un lavoro e un’istruzione, gli insegnerei la lingua. E quando non vi fosse più posto, chiuderei le frontiere».
A quel punto il suo primo marito, Sigfried Schebesch, forse non sarebbe mai entrato: era un esule rumeno, quindi un extracomunitario, all’epoca.
«Tedesco della Transilvania, prego. Quindi austroungarico».
Stefano Lorenzetto


LORENZETTO Stefano. 54 anni, veronese. Prima assunzione a L’Arena nel ’75. È stato vicedirettore vicario di Vittorio Feltri al Giornale, collaboratore del Corriere della sera e autore di Internet café su Raitre. Scrive per Il Giornale, Panorama, First e Monsieur. Dieci libri: Cuor di veneto e Il Vittorioso i più recenti. Ha vinto i premi Estense e Saint-Vincent di giornalismo. Le sue sterminate interviste l’hanno fatto entrare nel Guinness world records.