STEFANO LEPRI, La Stampa 1/4/2011, 1 aprile 2011
LA LEZIONE DELL’IRLANDA
Il precedente governo di Dublino aveva garantito che tutto il costo delle malefatte delle banche irlandesi sarebbe stato accollato ai contribuenti. L’attuale governo, formato da altri partiti, ritiene che una parte delle perdite dovrebbe essere sostenuta da chi, a quelle banche, aveva incautamente prestato denaro. Se sarà così, si tratterà di una novità assoluta in Europa. In questa diversa scelta politica sta la ragione per cui le cifre di ieri sulle banche irlandesi - in sé, abbastanza previste - rappresentano un segnale minaccioso per tutta l’area dell’euro.
Nelle stesse ore a Berlino, la cancelliera Angela Merkel ha espresso idee affini, in un intervento assai severo davanti a un congresso di banchieri. «Il settore privato deve partecipare ai costi dei salvataggi dei Paesi in difficoltà» ha detto; e «i mercati hanno capito che questo in futuro dovrà avvenire». Anche questa è una scelta politica: la Germania insiste che, con il nuovo Fondo di stabilità europeo dal 2013, a pagare i debiti degli Stati spendaccioni sarà chi gli ha prestato soldi, non i contribuenti tedeschi.
Il problema è se dalla combinazione di queste due scelte politiche, entrambe comprensibili, non si possa creare, sui mercati, una miscela esplosiva. Esponenti della Bce come Juergen Stark e Lorenzo Bini Smaghi sconsigliano all’Irlanda di decidere da sola, ad esempio, un rimborso solo parziale delle obbligazioni non privilegiate di alcune banche di fatto fallite (che ammontano a circa 21 miliardi di euro); si rischierebbe una reazione a catena, con contagio ad altre parti del sistema creditizio dell’area dell’euro. Mentre i mercati, anticipando che i Paesi in difficoltà resteranno Grecia, Irlanda e Portogallo, fanno salire ancora i tassi d’interesse sui loro titoli; li spingono così da subito verso quell’insolvenza che si potrebbe verificare dal 2013 in poi.
Per fortuna un contagio diretto ad altri Paesi appare escluso. I mercati si sono finalmente accorti che la Spagna può tenersi in piedi da sola, e che l’Italia non ha problemi a pagare i suoi debiti. I Paesi in difficoltà sono quei tre soli, Grecia e Irlanda già soccorse da Ue e Fmi, il Portogallo che non chiederà aiuto prima delle elezioni anticipate, dunque non prima di giugno. Tuttavia, esiste il pericolo di un contagio per via bancaria, anche a banche di Paesi solidi. E fino a ieri la Germania ha giocato una partita poco chiara, mostrandosi impaziente da una parte, temporeggiando dall’altra, dato che fra i maggiori creditori dei Paesi spendaccioni ci sono le sue banche. Se si ritiene, come ha detto il presidente dimissionario della Bundesbank Axel Weber, che gli altissimi tassi imposti dal mercato ai titoli di Grecia, Irlanda e Portogallo siano giustificati, «perché rispecchiano gli attuali livelli di rischio», poco manca ad affermare che quei Paesi sono insolventi. Dunque tanto varrebbe, come chiede The Economist , dichiararli subito tali senza indugi. Ma si può farlo senza scatenare un terremoto? L’unica via possibile è cominciare dalle banche, facendo chiarezza sulla loro solidità una volta per tutte; purtroppo gli stress test cominciati dall’Irlanda avranno cadenze diverse in ciascun Paese. Anche molte banche sane vanno rafforzate, comprese quelle italiane come ha sottolineato Mario Draghi; e la Borsa è inquieta. Il buon senso suggerisce che a salvare le banche malate devono provvedere gli Stati, mentre per rafforzare le sane bastano i capitali privati, non importa se stranieri.