MARCO SODANO, La Stampa 1/4/2011, 1 aprile 2011
I produttori italiani: “Costa ancora troppo Preferiamo la natura” - La bistecca in provetta non arriverà nei nostri piatti
I produttori italiani: “Costa ancora troppo Preferiamo la natura” - La bistecca in provetta non arriverà nei nostri piatti. Non almeno direttamente: se clonare un animale costa circa 20mila dollari, un hamburger di manzo geneticamente fotocopiato finirebbe in vendita sul bancone del macellaio per circa 900 dollari. Più probabile, invece, che finiscano in tavola i loro discendenti, figli nipoti e pronipoti nati dall’accoppiamento di genitori clonati. Ma anche per questo ci vorrà tempo, assicura Luigi Andretta, allevatore del Padovano che guida un’azienda da una cinquantina di ettari e conta tra i settecento e gli ottocento capi di bovini da carne, destinati cioè a diventare bistecche, roastbeef o hamburger. «Per quanto mi risulta spiega - nella filiera della carne italiana non ci sono assolutamente animali clonati. Nei laboratori, sì, la ricerca va avanti. Ma ad oggi la tecnica resta troppo costosa per una produzione di tipo industriale». La selezione degli esemplari migliori, ovviamente, è pratica diffusa da tempo «ma si fa attraverso la fecondazione artificiale. Si conserva il liquido seminale dei tori migliori e si punta a replicare nella prole le loro caratteristiche. Per carità, io conosco molto bene il mio settore, l’allevamento dei bovini, e meno gli altri, ma sono sicuro che in Italia gli animali clonati stanno nei laboratori, non negli allevamenti». Se la carne è di provenienza italiana, insomma, almeno al momento il rischio di incappare in bistecche in provetta dovrebbe essere scongiurato. Negli Usa, in Brasile e in Argentina, invece, il procedimento è andato oltre. Nel 2010 l’Italia ha importato 30 milioni di chili di carne da questi Paesi: non essendoci obbligo di distinguere nelle etichette la provenienza (discendenti di bestie clonate o meno), si potrebbe incappare in questo tipo di carni. Si calcola che in media, nei Paesi europei, il 5% della carne importata venga dai discendenti di animali clonati. La scorsa estate, in Inghilterra, era scoppiato il caso di sette tori nati via provetta grazie al materiale genetico di una mucca americane e venduti poi a grossisti europei: erano di razza Holstein, cioè bestie da latte, ma la Food standard agency (l’organismo che vigila sulla qualità dei cibi) non era stata in grado di capire dove fosse finito il loro latte né quanti siano i discendenti in circolazione. Salvo poi dare, comunque, parere positivo alla commercializzazione delle carni di provenienza clonata (novembre 2010), sulla scia della decisione presa nel 2007 dalla Food & drugs administration, il loro omologo negli Stati Uniti. Dal punto di vista dei produttori, i vantaggi di questo tipo di selezione in laboratorio (a patto che i costi siano abbordabili) sono evidenti: si possono selezionare capi con maggiore precisione rispetto alla fecondazione artificiale, e quindi ottenere animali più redditizi. Dal punto di vista della salute - come sempre accade su questi temi - ci si è subito divisi. Il commissario Ue alla Salute John Dalli si sente di affermare: «Mangerei senza difficoltà carne bovina clonata, in quanto non c’è differenza da quella tradizionale», forte del parere dei ricercatori, i quali sostengono che da un punto di vista biologico non c’è nessuna differenza tra una bistecca clonata e una no e, anzi, che senza conoscere a priori la sequenza genetica esatta di un animale clonato in laboratorio è del tutto impossibile distinguerlo da uno che non lo è. Andretta resta comunque scettico: «La vera innovazione di questi anni - conclude - è il seme di toro “sessato”, che permette all’allevatore di scegliere se nasceranno maschi o femmine». Per un produttore di latte è chiaro il vantaggio: i vitellini delle razze da latte valgono poco (a meno che non servano per la riproduzione). «Questa è una tecnica molto diffusa, teniamo conto che la monta tradizionale non esiste quasi più nella produzione lattifera. Per le bestie da carne il discorso è diverso, gli animali sono liberi» e quindi possono sbrigarsela da soli. Ma il nodo della vicenda è un altro. Nel 1950 ogni italiano mangiava 15 chili di carne a testa l’anno. Oggi sono 92. Provetta o fecondazione artificiale, produzione nazionale o importazione, è chiaro che per tenere il ritmo dei consumi (e prezzi accettabili) chi produce è costretto a cercare vie diverse dall’allevamento tradizionale. Chi compra carne di provenienza straniera a prezzi stracciati deve pur aver fatto i suoi conti: come sempre, il buon senso è una guida preziosa. Meglio del parere di mille laboratori.