Vittorio Malagutti, il Fatto Quotidiano 1/4/2011, 1 aprile 2011
LA BANCA È NUDA
Ci risiamo. Per la seconda volta in tre giorni ieri la Borsa si è accanita sui titoli bancari. Intesa, Unicredit, Monte dei Paschi. E poi anche Ubi e Carige. Tutti giù, con ribassi che nel caso di Intesa, particolarmente bersagliata dalle vendite, sono arrivati al 4,5 per cento.
PER LE BANCHE il clima è pessimo un po’ in tutta Europa. Gli istituti irlandesi, già travolti dalla crisi, sembrano di nuovo in difficoltà. Per rimetterle in sesto servono 24 miliardi di nuovi capitali, hanno certificato gli ultimi stress test. Peggio per loro? Mica tanto, perchè il pessimismo, amplificato dalla speculazione, si diffonde a gran velocità.
L’Italia paga pegno più delle altre piazze. E un motivo c’è. Gli investitori pensano che nel giro di mesi, forse settimane, alcune grandi banche nazionali saranno costrette a chiedere soldi ai loro soci per aumentare la propria dotazione patrimoniale adeguandosi alle nuove regole imposte, a partire dal 2013, dall’accordo internazionale noto come Basilea 3. Sarebbe stata proprio Bankitalia a chiedere di stringere i tempi. Ha cominciato Ubi, lunedì scorso, annunciando un aumento di capitale per i prossimi mesi. Tanto è bastato a innescare una prima raffica di ribassi. Ma ora la speculazione indica in Monte Paschi e perfino Intesa come i prossimi candidati a un’operazione sul capitale. E in più c’è la Popolare Milano, dove due giorni fa la proposta di aumento è stata bocciata in consiglio, nonostante l’esplicito appoggio del presidente Massimo Ponzellini. Lo scontro però è ancora in corso e molti analisti ritengono probabili nuovi colpi di scena.
IL FATTO È CHE le banche italiane hanno la febbre. I risultati del 2010, resi noti nei giorni scorsi, sono una conferma chiara a questa diagnosi. Il calo dei tassi d’interesse ha ridotto ai minimi termini il margine tra i proventi degli impieghi e i costi per remunerare i depositi della clientela. La crisi del debito sovrano ha fatto crollare le quotazioni dei titoli di stato su cui gli istituti avevano investito alla grande per trovare fonti alternative di reddito. Nel frattempo, per effetto della crisi economica, continuano ad aumentare i cosiddetti crediti deteriorati, quelli di difficile incasso.
Che fare, allora? Ai banchieri non resta che salvarsi in corner con qualche capriola contabile. Così, giusto per abbellire i conti e mascherare le difficoltà del momento. Vendere l’argenteria di famiglia è un modo sicuro per incassare profitti extra che vanno a gonfiare l’utile netto altrimenti in forte calo. Senza questi proventi straordinari Intesa e Monte dei Paschi avrebbero concluso il 2010 con profitti di molto inferiori a quelli annunciati. E la Popolare di Milano invece dell’utile dichiarato di 106 milioni sarebbe andata in perdita di 31 milioni. Un altro giochetto molto diffuso è quello di ridurre gli accantonamenti ai fondi rischi per crediti deteriorati. Succede questo: nei bilanci delle banche continuano ad aumentare i prestiti di difficile incasso, mentre cala il denaro che viene messo da parte per far fronte a queste potenziali perdite.
QUALCHE ESEMPIO. Ubi banca nel 2010 ha ridotto le rettifiche del 18,3 per cento rispetto al 2009. Nello stesso periodo però i crediti a rischio sono aumentati del 17 per cento a quota 5,3 miliardi. Stesso discorso per Unicredit: rettifiche giù del 18 per cento mentre i crediti deteriorati crescono del 20 per cento a 37 miliardi. La morale è questa: meno accantonamenti uguale più profitti. Anche se non sempre queste manovre sono sufficienti ad evitare un calo dell’utile netto: per Intesa i profitti si sono comunque ridotti del 3,6 per cento. Unicredit ha registrato un calo addirittura del 22 per cento a 1,3 miliardi. Del resto l’attività bancaria vera e propria (prestiti e depositi) rende sempre meno, come dimostra l’andamento quasi sempre negativo della cosiddetta gestione operativa. Intesa perde il 10,6 per cento rispetto al 2009, Unicredit il 13,2 per cento, per la Popolare Milano il calo è addirittura del 39,7 per cento.
SICCOME PRESTARE soldi dà poche soddisfazioni in termini di profitti, allora non c’è da sorprendersi se molti banchieri cercano modi più redditizi per impiegare il denaro. Che cosa fanno? Semplice, comprano titoli di Stato. Le attività finanziarie di Intesa nel giro di un anno sono passate da 82 a 97 miliardi. Ubi banca è quasi andata al raddoppio: da 7 a 13 miliardi. D’altra parte, con l’eccezione di Popolare Milano e Monte dei Paschi, sono poche le banche che hanno aumentato in modo sostanziale il volume dei prestiti ad imprese e famiglie.
Insomma, gli istituti puntano sulla finanza e lesinano sui prestiti alle aziende.
Scelta vincente? Non proprio, visto che gli investimenti nei titoli di stato (italiani e stranieri ) in molti casi hanno prodotto perdite. Ma c’è un problema ancora più grave. Se i banchieri si affidano alla finanza per fare utili, le aziende grandi e piccole faranno sempre più fatica a trovare per i loro investimenti. E allora addio ripresa.