BORIS BIANCHERI, La Stampa 30/3/2011, 30 marzo 2011
TROPPI PAESI PER TROVARE UN’INTESA
E’ cosa risaputa ovunque che quanto più numerosi sono i partecipanti a una conferenza internazionale di Stati sovrani tanto più improbabile è che essa giunga a importanti risultati, a meno che un accordo non sia stato preparato in anticipo tra un gruppo ristretto di protagonisti e la conferenza sia chiamata solo ad avallare qualcosa di già deciso in precedenza.
Alla conferenza sulla Libia che si è aperta ieri pomeriggio a Londra hanno preso parte 34 Stati e 7 organismi internazionali. Si fa più presto a dire quelli la cui assenza, in una materia come quella della guerra in Libia, aveva un chiaro significato politico: Russia, Cina e l’Unione Africana. Tutti gli europei c’erano, con pochissime eccezioni, e vari Paesi islamici anche: troppi, è chiaro, per un accordo importante. E siccome l’audioconferenza del giorno prima tra i massimi responsabili di Usa, Francia, Gran Bretagna e Germania, da cui l’Italia come ben sappiamo è restata assente, non risulta aver portato ad accordi preparatori di rilievo, dato che la signora Merkel sembra appartenere sempre al campo dei dubbiosi, risultati epocali da Londra difficilmente avrebbero potuto venire. Una soluzione frequente, in conferenze come questa, è di creare un gruppo ristretto incaricato di seguire il tema e indicare a chi ha compiti operativi (in questo caso la Nato) la via da seguire in seguito; e questo è quanto puntualmente è avvenuto ieri. E’ stato chiamato, come già avvenuto in passato per la Bosnia, Gruppo di Contatto e per la prima riunione è stato scelto accuratamente un luogo, il Qatar, che non privilegia nessuno dei Paesi Nato e quindi non suggerisce neppure indirettamente quale sia in questa vicenda un Paese guida.
Ma veniamo ai fatti. L’incontro di Londra non poteva modificare i termini della risoluzione dell’Onu che autorizza gli interventi in Libia limitatamente all’embargo e alla no fly zone. Lo scopo era anzitutto di riaffermarne la necessità. E questo, anche , è stato detto. Sin tanto che vi è pericolo per la popolazione civile, gli interventi aerei vanno continuati a meno che Gheddafi non si attenga pienamente alla risoluzione delle Nazioni Unite. Di interventi a terra non si poteva parlare e infatti non se ne è parlato. Ma lo scopo era anche di preparare il dopo-Gheddafi: se si indica il dopo si deve però essere d’accordo sul prima. Che fare di Gheddafi? Portarlo davanti alla Corte Penale Internazionale, consentirgli di andarsene in esilio? Ma c’è poi qualcuno disposto a prenderselo? Qualcuno in Africa forse c’è, ma l’Unione Africana a Londra era assente e non ha dovuto pronunciarsi su questo delicato argomento. Frattini ha detto che Gheddafi deve poter lasciare il suo Paese e nessuno lo ha contraddetto: può affermare così che su questo punto c’è unanimità.
Sul piano concreto, dunque, questa conferenza tanto reclamizzata non ha concluso nulla di nuovo. Essa costituiva d’altronde, come altri momenti di questa complessa vicenda, soprattutto un fatto di prestigio. Avendo dato inizio all’intervento militare e avendone poi perduto il comando operativo, Inghilterra e soprattutto Francia avevano cercato di fare di questa loro riunione la guida strategica dell’operazione; ma di strategia a Londra non se ne è vista molta. Dubito che in Qatar ve ne sia di più.
La Nato resta sostanzialmente divisa sul contenuto politico dell’impresa, con Germania Italia e Turchia che per ragioni diverse sono più moderate e Francia e Inghilterra che sposano appieno le tesi dei ribelli di Bengasi e cercano di orientarne le mosse. Solo la capacità di resistenza di Gheddafi ci dirà chi ha più ragione in un gioco in cui oggi è più facile vedere i perdenti che i vincitori.