varie, 31 marzo 2011
LIZ TAYLOR PER VOCEARANCIO
«Tutto mi rende nervosa, tranne girare film». [1]
Liz Taylor è morta mercoledì 23 marzo per insufficienza cardiaca nell’ospedale delle star, il Cedars Sinai Medical Center di Los Angeles, dove era ricoverata da sei settimane e dove il 27 febbraio scorso aveva festeggiato il suo 79esimo compleanno. Era assistita dai quattro figli avuti da sette matrimoni. [1]
«Il successo è un eccellente deodorante». [2]
Considerata l’ultima diva di Hollywood, ha avuto una vita spettacolare. «Otto matrimoni e sette divorzi, due Oscar e altrettanti tentativi di suicidio, un paio di polmoniti quasi letali, un tumore al cervello e un cancro della pelle sconfitti dopo lunghe cure, la piaga dell’alcolismo (superato) e la scoliosi mai guarita, una quarantina di ricoveri in clinica e diciotto operazioni, quattro figli, otto nipoti e sei aborti dichiarati, quattro vedovanze e tre mariti maneschi, perfino una caduta da cavallo quando aveva dodici anni ed era già la piccola star di Gran premio, nonché la frustrazione di ricevere sulla sedia a rotelle il titolo di “Dame” dalla Regina Elisabetta, nel 2000». [3]
«Sono una sopravvissuta: l’esempio vivente di cosa possiamo sopportare continuando a vivere». [2]
Laura Laurenzi: «Non è solo il volto che ha totalizzato il maggior numero di copertine sui rotocalchi, o il multiplo di Andy Warhol più famoso, più copiato, più riprodotto assieme a quello di Mao e di Marilyn. Liz è merchandise, vende e fa vendere: appare anche sulle scatole dei cereali, sui kit da cucito, sui francobolli di Nigeria, Burkina Faso, Grenada, Repubblica di Mali e anche Russia. Nei tardi anni ’50 un tipo di popcorn, Jiffy Popocorn, s’ispirò alla sua pettinatura». [4]
«Mia madre racconta che appena nata sono rimasta con gli occhi chiusi per una settimana. Quando li ho riaperti, la prima cosa che ho visto è stato un anello di fidanzamento». [1]
Elizabeth Rosemond Taylor era nata ad Hampstead, Londra, nel 1932 da genitori ebrei americani. La madre, Sara Sothern, era attrice, il padre mercante d’arte. Si trasferirono in California nel 1939, allo scoppio della guerra. «Quel diminutivo, Liz, non le piacque mai. Colpa del fratello Howard che “mi scocciava a morte chiamandomi Lizzy the Lizard e Lizzy the Cow”. Ma con quel nome, a soli nove anni, fa il suo primo provino per la Universal ed esordisce in Man or Mouse». [5]
«Ho sempre ammesso di essere governata dalle mie passioni» [2]
Giuseppe Videtti: «È seducente, irresistibile, non ancora maggiorenne quando sale sul treno del grande cinema, interpretando la figlia di Spencer Tracy nel Padre della sposa. George Stevens la sceglie per Un posto al sole con un contratto da 5mila dollari a settimana: ha solo diciotto anni. [...] La diva degli eccessi diventa l’interprete ideale di film più impegnati e provocanti, perfetta per la morbosa drammaturgia di Tennessee Williams. È sublime nella Gatta sul tetto che scotta: la furibonda scenata in sottoveste indirizzata a un ubriaco e inadempiente Paul Newman diventa cult. Sceglie ruoli più drammatici e meno prevedibili: Improvvisamente l’estate scorsa e, per affacciarsi agli anni Sessanta, Venere in visone, il primo Oscar». [1]
«Penso che Ava Gardner sia veramente bella... Io sono abbastanza carina. Non ho il complesso del mio aspetto, ma ho le gambe corte, le braccia troppo grosse, il doppio mento, il naso un po’ storto, piedi grandi, mani grandi, e sono troppo grassa». [5]
Divenne un vero mito tra gli anni ’50 e i ’70. «Qualunque mossa di questo concentrato muliebre alto un metro e 57, dalla forma delle sopracciglia alla conversione all’ebraismo, dalle vacanze a Gstaad alla scelta degli asciugamani per lo yacht Kalizma, venne scrutinato con affettuosa morbosità dai rotocalchi di tutto il mondo. Con lei, i concetti di “sottoveste di pizzo”, “sbornia”, “amore folle” e “beneficenza” si sono plasmati fino alla forma che oggi conosciamo». [6]
Paolo Mereghetti: «Il problema è che, per età anagrafica e coincidenze produttive, la Taylor esplose sullo schermo quando il cinema stava vivendo la sua caduta più rovinosa (quella della fine dello Studio System e della Hollywood “classica”) e diversamente dalla coeva Monroe, che quella stessa “sconfitta” la visse per antifrasi, interpretando il ruolo dell’oca giuliva che non si accorge della crisi che arriva (e degli uomini che la umiliavano), lei finiva per farsi carico di questa tragedia incombente, sfidando a viso aperto ogni convenzione e rivendicando autonomia e anticonformismo». [7]
«Nella famiglia ci credo talmente tanto che ogni volta mi sposo». [8]
La vita sentimentale della signorina Taylor, protetta da una mamma press agent, comincia benissimo «quando, il 6 maggio 1950, disse “sì” al magnate degli alberghi Nicky Hilton. La Metro le regalò per l’occasione l’abito da sposa, 25 metri di raso bianco con perle, ma quando pochi mesi dopo lei celebrò il primo divorzio, la Mgm ne chiese, con eleganza, la restituzione e lei collassò per la prima volta». [8]
«Sono andata a letto solo con gli uomini che ho sposato. Quante donne possono dire altrettanto?». [2]
In tutto otto matrimoni, distribuiti in 41 anni. «Dal primo, quello con il ricco erede degli Hilton, Conrad Hilton jr, nel 1950 durato appena otto mesi, all’ultimo, che fece gridare alla disdicevole unione con sospetto di rimbambimento: lui era Larry Fortensky e disse di sì a Liz nel 1991, lei già attempata star, lui quarantenne muratore, conosciuto in un centro di disintossicazione per alcolizzati». [9]
«Marilyn? Quella lesbica?». [10]
L’America di quegli anni si divise tra Liz Taylor e Marilyn Monroe, come l’Italia tra Coppi e Bartali. Vittorio Zucconi: «Liz, anzi, Elizabeth doveva essere quella che faceva paura al maschio americano prepotente e paternalista degli anni ’50 e ’60, quando i film e i trionfanti telefilm spiegavano alle mogli inquiete e ai figli intimiditi che “Father knows best”, il papà ha sempre ragione. L’uomo cacciatore delle fantasie adolescenziali o senili dei maschi, diventava, nella sue grinfie, tra le sue unghiette sempre laccate di colori forti, l’uomo preda». [11]
«Sono incapace di stare senza un uomo». [2]
Intanto si diffondevano le leggende sulla sua insaziabilità sessuale. «Il maschio giusto, in grado di fare l’amore «dodici volte per notte», pare dunque Eddie Fisher che la Taylor “scippa” a Debbie Reynolds: le nozze-scandalo del ’59 dureranno cinque anni. Fino al colpo di fulmine che lega l’attrice a Richard Burton. [3]
«Se qualcuno è così scemo da offrirmi un milione di dollari per fare un film, io non sono così scema da rifiutarlo». [2]
Poi, nel 1963, arrivò Cleopatra, film per cui Liz fu pagata un milione di dollari, cifra mai raggiunta da un attore. Laura Laurenzi: «Uno dei maggiori disastri finanziari della storia del cinema: secondo i conti della produzione Liz mangiava tutte le mattine per colazione 12 polli e 18 kg di bacon. Ma che importa il dare e avere. Fu un elettricista di Cinecittà il primo a capire che fra lei e Burton era divampata la passione: “Aò, quei due fanno sul serio!”, esclamò di fronte a una scena d’amore un po’ troppo partecipata. Si erano conosciuti sul set: lui arrivò, strinse la mano al regista Mankiewicz e poi a tutti gli altri del cast. “Ha salutato me per ultima, volutamente credo – ricorderà Liz – Si avvicinò squadrandomi dalla testa ai piedi. Ero molto seccata, ma soggiogata dal suo sguardo. Appena mi è stato vicino, mi ha sussurrato con un sorriso: le hanno mai detto che lei è la donna più bella del mondo?”. Fra i mitici diamanti che lui le regalerà, alternati ad epici litigi con botte, la pietra che prenderà il nome dalla loro coppia: il Taylor Burton, 69,42 carati che Liz indosserà un’unica volta per poi venderlo e costruire un ospedale in Botswana». [4]
«Non ricordo molto di Cleopatra, succedevano tante di quelle altre cose nel frattempo!». [2]
Paolo Bulgari: «Innamoratissimi. Litigiosissimi. E spesso alticci. Arrivavano come due furie nel negozio di via Condotti. E lui, per far pace, le regalava una gioia». [12] Sui celebri litigi tra Burton e Taylor Franco Zeffirelli racconta: «Non battevo ciglio, sapevo che erano finti. Liz e Richard sfogavano su due piedi l’intolleranza reciproca, poi andavano a mangiare o a far l’amore. Con Burton ha avuto un rapporto viscerale e profondo, gli altri matrimoni sono state cazzate. Agguantava il primo che capitava per la voglia di novità, per combattere la noia». [13]
«Non ho mai premeditato né i mariti né i gioielli. La vita mi è successa e basta, come capita a tutti. Sono stata supremamente fortunata: ho conosciuto il grande amore e sono stata la custode temporanea di alcuni oggetti incredibili e meravigliosi». [6]
In una lettera del 1974 Burton spiega così la loro relazione tormentata: «Certamente sai quanto ti amo, certamente sai quanto male ti faccio. Ma il fatto fondamentale, più cattivo, ingiusto, criminoso e innegabile, è che noi non ci comprendiamo mai… viaggiamo su diverse lunghezze d’onda. Tu sei più distante di Venere – il pianeta intendo – e io sono totalmente sordo alla musica delle sfere celesti. Ma una cosa è innegabile. Ti amo e ti amerò per sempre. Torna da me prima che puoi». [14]
«L’amore è il più alto grado di tolleranza tra due esseri umani». [15]
Egle Santolini: «Quando le diedero il primo Oscar, nel 1961, per Venere in visone , mezza Hollywood disse per esempio che si trattava solo di un risarcimento per i suoi guai di salute (commento della rivale Shirley MacLaine: “Ho perso contro una tracheotomia»). Al secondo, per Chi ha paura di Virginia Woolf?, insinuarono invece che era tanto brava, in coppia con Burton, perché non faceva altro che riprodurre le litigate della vita vera». [6]
«Quando sono caduta dalla mia nuvoletta rosa ho fatto proprio un bel tonfo». [2]
Mereghetti: «I cinefili di stretta osservanza, come i francesi, non potevano fare a meno – lei ancora in vita – di ricordarne la “volgarità” di certi personaggi e ironizzare su un’attrice che sembrava sempre sottolineare troppo i ruoli e le battute. Eppure proprio questa specie di rabbia inconscia, contro personaggi che solo dieci anni prima nessuno avrebbe offerto a una star, finiva per diventare la ragione del suo fascino e del suo successo. Qualsiasi attrice avrebbe fatto il possibile per nascondere la cicatrice che le aveva rovinato il collo: lei in Cleopatra la mostrava con un orgoglio che spiega molte cose e che però non poteva cancellare del tutto la fragilità di chi, sul proprio corpo, portava i segni delle sconfitte subite». [7]
«Sono tutta piegata da una parte. Nello specchio il mio corpo è concavo e convesso. Le mie radiografie sono folli». [2]
Nel 1985, «quando una buona parte dell’opinione pubblica vedeva ancora l’Aids come una specie di punizione divina piombata sulla comunità gay, la Taylor cominciò coraggiosamente a organizzare le prime raccolte di fondi a favore della ricerca sulla malattia, ad oggi, 270 milioni di dollari, ma la Taylor soprattutto ruppe un tabù». [16]
«Marilyn ci ha staccato tutte morendo giovane. Ma io sono stata a un passo dalla morte molte volte. Arrivare a un passo dalla morte è la mia specialità. Anche questo conta qualcosa, non credete?». [2]
Negli ultimi vent’anni, la sua popolarità si è misurata più in ricoveri che in film. «Dopo l’intervento al cervello, nel 1997, la sua salute è andata deteriorandosi. Il morbo di Parkinson e una grave forma di demenza senile avevano ridotto la diva sulla sedia a rotelle, chiusa nella sua casa di Los Angeles. L’ultimo desiderio à stato quello di essere sepolta accanto a Burton. A un amico ha confidato: “So che mi aspetta da qualche parte, oltre l’arcobaleno”». [1]
(a cura di Luca D’Ammando)
Note: [1] Giuseppe Videtti, la Repubblica 24/3; [2] c.a. bis., il Fatto Quotidiano 25/3; [3] Gloria Satta, Il Messaggero 24/3; [4] Laura Laurenzi, la Repubblica 25/2/2002; [5] Mariuccia Ciotta, il manifesto 24/3; [6] Egle Santolini, La Stampa 24/3; [7] Paolo Mereghetti, Corriere della Sera 24/3; [8] Nicola Porro, Corriere della Sera 24/3; [9] Michela Tamburrino, La Stampa 24/3; [10] Beppe Cottafavi, Il piccolo libro degli insulti, Mondadori 2000; [11] Vittorio Zucconi, la Repubblica 24/3; [12] Ettore Livini, la Repubblica 9/3; [13] Arianna Finos, la Repubblica 24/3; [14] Giuseppe Videtti, la Repubblica 3/6/2010; [15] Maurizio Porro, Corriere della Sera 5/3/2002; [16] Lorenzo Soria, La Stampa 24/3.