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 2011  marzo 30 Mercoledì calendario

LA NOBILDONNA, GLI 007 E LE FALSE PISTE. VENT’ANNI DI VITE SPEZZATE E DI SILENZI —

In perfetta simmetria col delitto di via Poma, l’omicidio dell’Olgiata trova vent’anni dopo un suo possibile colpevole. Il parallelo impressiona anche per l’ovvietà dei protagonisti. Per Simonetta Cesaroni, ammazzata il 7 agosto 1990, il colpevole sarebbe (sentenza di primo grado del gennaio scorso) il fidanzato Raniero Busco. La contessa Alberica Filo della Torre, uccisa il 10 luglio 1991, sarebbe vittima dell’ex domestico Manuel Winston. Vent’anni di indagini, di lunghe pause, di interminabili silenzi, di vite familiari spezzate per ritrovarsi al punto di partenza: il ragazzo di Simonetta, il filippino della contessa. Non ci fossero troppi dolori, sarebbe tutto banale: fantasmi romani che cercano giustizia e la trovano accanto a loro. «Non vorrei che fosse un via Poma-bis» , mormorò all’Olgiata un investigatore (prima pagina del Corriere della Sera). Profetico. Alberica Filo della Torre incarna il simbolo dell’upper class romana degli anni Ottanta: ottima nascita (nobiltà acclarata tra Bari e Napoli già verso il XIV secolo, motto «Omnia vincit amor» ), prestigioso matrimonio col costruttore Pietro Mattei, magnifica residenza all’Olgiata, cittadina recinto per ricchezze da non ostentare ma vivere senza scosse, due figli. Alberica è bella, bruna, sempre elegante e mai eccessiva, frequenta quella «certa Roma» in bilico tra politica (Dc), mattone, aristocrazia. Comunque privilegio. Gli amici più cari si chiamano Francesco Caltagirone, Anna Visconti di Modrone, Aspasia della Rovere, poi i Massimo Lancellotti, i Pasolini dall’Onda. Per quella sera Alberica ha organizzato, sul bordo della piscina e sul verde del prato, una festa per i dieci anni di matrimonio. Il menage appare esemplare. Ma appena Alberica muore letteralmente ammazzata (cranio sfondato a colpi di zoccolo segni blu sul collo dello strangolamento, lenzuolo per soffocarla) tutto si frantuma in una pozza di sangue in cui finiscono troppe vite, mille insinuazioni, innumerevoli ombre. Prima di tutto i figli Manfredi e Domitilla, piccolissimi, che al funerale singhiozzano disperati e avvinghiati al padre sotto i flash dei fotografi (era un’altra Italia, i minori finivano in prima pagina) e dopo devono affidarsi a uno psicoterapeuta per non soccombere in quell’oceano di disperazione. E c’è lui, Pietro Mattei, il marito, il più ovvio tra i sospettabili. Per mesi magistrati e legali ri-cronometrano i suoi spostamenti tra la villa e l’ufficio nei minuti del delitto: e il suo pianto disperato ai funerali per i colpevolisti diventa una sapiente sceneggiata. Nel 1993, sulla scena del delitto si materializza Michele Finocchi, funzionario del Sisde poi finito in carcere per i fondi segreti. Qualcuno a piazzale Clodio si ricorda di averlo visto nel giardino, appena un attimo dopo il delitto. Lì si squarcia un sipario che svela un’altra verità: Alberica sarebbe stata a un passo dalla separazione per i tradimenti del marito. In Svizzera si scoprono sei conti miliardari intestati a lei e Pietro. Finocchi era lì chiamato proprio dai filippini che avevano il suo numero, «dovesse succedere qualcosa» . Un’altra esistenza sezionata è quella di Roberto Jacono, trentenne, figlio dell’insegnante di inglese dei piccoli Mattei, considerato «strano» e poi prosciolto, ma solo dopo mesi e mesi di titoli sui giornali. Se non bastasse tanta densissima materia narrativa spunta anche l’ex compagna di Pietro Mattei. Nel 1994 Emilia Parisi Halfon va a palazzo di Giustizia a Milano per incontrare Antonio Di Pietro e gli consegna il vestito che Mattei avrebbe indossato il giorno del delitto. Come appendice, «rivelazioni» sui famosi fondi svizzeri. Ecco perché scegliersi il Di Pietro di Mani Pulite. Poi sul vestito non viene trovato nulla e la vicenda assume contorni ben più prevedibili: è la vendetta di una donna abbandonata, è la fine clamorosa di un amore nato dopo il delitto ma che ha quella scena come sfondo. Il risultato operativo è che per altri mesi, anzi altri anni, la vita di Pietro Mattei viene ripassata al microscopio. Col passare ancora del tempo, come spesso succede in certe vicende che grondano dolore, gli antichi legami si rafforzano. È sempre il marito, il plurisospettato Pietro Mattei, a chiedere la riapertura delle indagini, a spingere per ulteriori analisi («glielo devo» ). A insistere. L’ultimo tassello è assurdamente grottesco e risale al 2 marzo scorso. Tra i reperti del delitto dell’Olgiata analizzati dai carabinieri del Racis, qualcuno trova i capelli del bimbo massacrato a Cogne, il figlio di Annamaria Franzoni. Altro delitto oscuro, con una madre condannata che continua a proclamarsi innocente. Anche qui: si potrebbe parlare di contrappasso. Ma è veramente troppo banale.
Paolo Conti